A quanto pare in Europa la xenofobia avanza e dilaga. Poco fa con Le Pen
in Francia, ora in Olanda (prima dell’assassinio i sondaggi attribuivano
a Pim Fortuyn il 17-18 per cento; quindi il successo della sua lista
precede il fattaccio). E l’Olanda è, simbolicamente, un Paese
importante: civilissimo, profondamente tollerante, di avanzata democrazia
sociale, insomma un gioiello. In Francia Le Pen fa parte del paesaggio; in
Olanda il professor Pim è stato un fulmine a ciel sereno. Aggiungi che i
partiti anti-immigrazione si sono affermati in Austria, Belgio (tra i
fiamminghi), Danimarca e Svezia, e dunque anche in altre democrazie
esemplari. Cosa succede? Vorrei cominciare dal ridimensionare il problema
ridimensionando il significato della parola xenofobia. Nel dizionario
leggo che xenofobia è «odio, avversione per gli stranieri». In verità,
«fobia» significa soprattutto «paura», non «odio». Non sono per
niente la stessa cosa. L’odio è sentimento cattivo, la paura è
sentimento umano. E la paura dell’estraneo, di chi è molto o troppo
diverso, è iscritta nel nostro codice genetico. Non è peccato.
Quand’ero ragazzo i contadini (quantomeno in Toscana) dicevano «mogli e
buoi dei paesi tuoi». Forse quei contadini la sapevano più lunga di noi.
Comunque sia, il mio primo punto è che la parola xenofobia è da
svelenire. Usiamola tranquillamente (come le parole claustrofobia ed
agorafobia) senza pulsioni ideologiche, senza sottintesi di scomunica.
Secondo, le xenofobie sono tutte eguali? E perché sono considerate di
destra? Cos’è che le «destrifica»? In verità tra Le Pen e Pim - i
due casi del momento - non c’è quasi nulla in comune. La Francia ha
sempre avuto, dalla Restaurazione del 1815 in poi, una destra
antidemocratica. Le Pen s’iscrive in questa tradizione. È anche tanto
anti-europeo da proporre l’uscita dall’Europa. Pim non era
antieuropeo, difendeva cause progressiste (i diritti degli omosessuali e
delle donne) e la sua xenofobia si riduceva a questa constatazione: che
l’Olanda è un piccolo Paese già sovraffollato. Dal che ricavava che
non c’era più posto e che i confini andavano chiusi. Ma Pim non
proponeva nessuna cacciata dei già entrati: chi c’era poteva restare.
Se questa è xenofobia, lo è in modo molto attenuato. E non è «fobia»
(e cioè un mero sentire) perché fondato su ragioni, su considerazioni
razionali: che non c’è spazio, e che l’Occidente deve difendere i
propri valori. Torno a chiedere: perché questi argomenti sarebbero di
destra?
La risposta è semplice: è perché la sinistra ha stabilito che la
sinistra dev’essere xenofila. Non voglio entrare nelle credenziali
ideologico-dottrinarie di questa posizione. A me sembrano dubbie o
quantomeno non obbligate. Ma il punto sorprendente è che la sinistra
ritiene che la xenofilia sia anche, per lei, una risorsa elettorale, un
tema elettoralmente redditizio. La sinistra ha il diritto di battersi per
i princìpi che ritiene politicamente corretti. Ma se il suo calcolo è
anche elettorale, allora si sbaglia di grosso. Perché i voti che vanno ai
partiti anti-immigrazione sono in larga parte voti operai, voti dei
quartieri poveri, dove allogeni e nativi coabitano con forti frizioni.
In ogni caso la politica della sinistra in tema di immigrazione è minata
da una fondamentale contraddizione. Di recente la sinistra ha sposato la
dottrina multiculturale, una predicazione che sostiene che il principio
fondante della «buona società» non è l’integrazione raccomandata dal
pluralismo, ma, invece, il riconoscimento delle identità culturali nelle
loro differenze. Quindi, in Europa l’identità islamica dev’essere non
solo rispettata ma promossa. Però in tal caso anche gli europei hanno
diritto alla loro identità. Il paradosso è, allora, che la sinistra
avalla un multiculturalismo che a sua volta giustifica la resistenza «xenofoba»
all’invasione culturale islamica. Proprio non ci siamo.
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