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Quando incontrai Basayev. E pareva un eroe ribelle |
Da anni guida la lotta dei ceceni contro i russi. Ma qual è il vero volto del capo della guerriglia dopo l' orrore di Beslan? | |
La Storia ALLE RADICI DELL' ODIO | |
Mo Ettore |
Venendo da Paesi rigidamente islamici, come ad esempio l' Arabia Saudita, si rimane storditi dall' esuberanza festosa e corale di questa terra, che pur essendo di maggioranza islamica aveva i ritmi, l' effervescenza, la superficialità, lo stile quasi laico di un Paese occidentale. Nelle case ti offrivano whisky, le donne non portavano il velo e camminavano sorridenti per le strade. Davanti a questo spettacolo, ognuno di noi avrebbe potuto giurare che da queste parti il fondamentalismo islamico non avrebbe mai avuto cittadinanza. È avvenuto il contrario «Se i russi non si ritireranno dalle alture e dalla zona attorno a Grozny, noi romperemo la tregua e riprenderemo a combattere. È questa la condizione che i nostri rappresentanti hanno posto nei giorni scorsi al tavolo delle trattative di Nazran... Questa è una jihad, una guerra santa, come quella dell' Afghanistan. Noi stiamo combattendo per la nostra indipendenza e per Allah. Dice il Corano: se il nemico ha invaso la tua terra, devi alzarti e affrontarlo. Col fucile!». Così mi disse Shamil Basayev, il leggendario combattente e stratega del Movimento indipendentista ceceno, irriducibile a ogni compromesso con Mosca. Ma erano i primi di giugno del ' 96, poco più di otto anni fa. Ero andato a trovarlo a Mehkety, il suo rifugio in montagna, cui pochissimi avevano accesso. Fu una faticaccia. Quindici giorni di esplorazioni segrete con varii contatti e impervie camminate in zona guerriglieri per sentirti dire che «non è questo il posto». Con un sorriso di compassione, ti indicavano un cocuzzolo avvolto da una corona di nuvole nere e ti dicevano: «Lassù lo trovi, vai tranquillo». Ma neanche lassù l' avrei trovato se non ci fosse stato il provvidenziale incontro con una giornalista amazzone cecena dal nome romantico (Thais, proprio così) coi capelli color del grano e due occhi così turchini da fare invidia alla baia di Napoli, che da tempo conosceva Shamil. L' incontro avvenne di sera, quando sulla montagna era già caduto il buio. Mi fece subito capire che ero un privilegiato (grazie a Thais) perché lo stato maggiore del Movimento indipendentista ceceno gli aveva imposto di non concedere interviste soprattutto ai ficcanaso occidentali mentre erano in corso le trattative con Mosca. Abbiamo parlato per quattro/cinque ore nella casa del suo amico Abdullah, insegnante di matematica e «comandante» dei partigiani di Mehkety, che era un bellissimo agreste villaggio, in mezzo a pascoli e boschi, ma in quel momento infradiciato dalla pioggia che il cielo gli aveva rovesciato addosso per due settimane di fila. Aveva allora 31 anni, era un uomo alto e forte quasi completamente calvo, i baffi e la barba nera, dura, compatta. Aveva una cicatrice vistosa in fronte e una sul naso. Ma essendo stato ferito 17 volte, la sua pelle, diceva scherzando, era tutto un rammendo. La ferita più grave ce l' aveva sulla schiena, un lungo solco diagonale, che gli venne inferta nella battaglia di Budionnovsk, quando lui e pochi ribelli ceceni inflissero una dura umiliazione a una colonna corazzata russa. A Budionnovsk - mi raccontava - aveva perso 16 uomini, «tutti miei fratelli» e c' era un ragazzo di 15 anni, ferito tre volte, che adesso era tra le sue guardie del corpo. «Si calcola che Mosca abbia mandato in Cecenia - diceva quella sera - mezzo milione di soldati. Anche noi ce l' abbiamo, mezzo milione di combattenti: ma ci dovete mettere le donne e i bambini. Il mio soldato più giovane ha 12 anni. Ma ce ne sono molti di 13 e 14 anni». Eravamo seduti su un divanetto e lui per ore mi ha raccontato la storia della sua vita, gli anni della guerriglia che ancora continuava contro i russi, anche se l' impero sovietico si era dissolto dopo la caduta del muro di Berlino: e devo però ammettere che, mentre sottolineava enfaticamente la sua determinazione di caporibelle che voleva a tutti i costi l' indipendenza da Mosca, spandeva grandi sorrisi ed espressioni di dolcezza e comprensione su quanto stava avvenendo nel mondo che sovrapponevano all' immagine del guerriero quella di un uomo non indifferente ai destini dolorosi dell' umanità. E non deve sorprendere se questo senso di disagio e di dubbio sulla vera identità del personaggio riemergano ora mentre si attribuisce a Basayev e al suo compagno di cordata, Aslan Maskhadov, la responsabilità del sequestro e dell' eccidio nella scuola di Beslan, nell' Ossezia settentrionale. La grande Russia deve aver esercitato il suo fascino sul giovane Shamil, che, dopo aver fatto il servizio di leva come pompiere in Cecenia, si trasferì a Mosca dove prese il diploma in economia agraria. Il 16 agosto nel ' 91 era tra i difensori della Casa Bianca (moscovita), come risulta da un messaggio d' encomio dello stesso Eltsin. Ma non appena cominciarono i tafferugli nel suo Paese, che voleva liberarsi del giogo della Federazione russa, Basayev prese il primo aereo per Grozny e si mise a disposizione della Resistenza cecena: «Abbiamo messo insieme una compagnia - raccontava - che venne definita di destinazione speciale. Ci siamo addestrati in un bosco, in tutto 34 uomini. Il nostro arsenale? Avevamo mitragliatrici dell' ultima guerra, 20 bombe a mano, 17 fucili da caccia. E con queste armi prendemmo d' assalto la sede del Kgb e Grozny. A questo punto, eravamo davvero un mini-esercito: 600 mitra, 9 lanciabombe, 3 mila pistole, 5 mila bombe a mano. Avevamo munizioni per 600 persone». Li vidi al lavoro, questi guerriglieri della prima ora, nel campo base di Vedeno, sulle montagne del Caucaso. Stavano in una specie di azienda agricola trasformata in caserma. Sotto una tettoia avevano improvvisato un' osteria rurale, dove sugli spaghetti al pomodoro predominava l' aglio. Sul giradischi predominava invece Celentano, popolarissimo, allora, nella santa Russia. Imparavano a sparare come al tirassegno, appendendo il bersaglio a un albero. Ma la Thais li metteva tutti in soggezione. Non sbagliava un colpo la guerrigliera dai capelli d' oro. La mia storia personale con la Cecenia (una storia sofferta) comincia il giorno di Capodanno del ' 95 quando approdai all' aeroporto di Vladikavkaz, capitale dell' Ossezia settentrionale. Lo scalo a Grozny era consentito soltanto a coloro che avessero il benestare delle autorità di Mosca, difficilissimo da ottenere. Da lì, via terra, raggiunsi Nazran, capitale dell' Inguscezia, che era allora l' unica porta d' accesso al più tormentato Paese del Caucaso. Ebbi il privilegio di avere accanto, in tutte queste vicissitudini «territoriali», quell' impavida giornalista televisiva di Milena Gabanelli che neanche le più aggressive, meglio equipaggiate e ringhiose pattuglie adibite al controllo dei mass media potrebbero bloccare. E così ci siam fatti una bella risata quando la Mila ed io ci siam trovati nello scantinato del palazzo presidenziale di Dudayev, nel cuore martoriato della capitale cecena. Mosca aveva mandato in Cecenia un contingente di 15/20 mila uomini per bloccare sul nascere la rivolta degli indipendentisti e il 31 dicembre del ' 94 scatena quello che avrebbe dovuto essere l' assalto finale al palazzo presidenziale di Dudayev che era già stato ridotto a un colabrodo dall' artiglieria pesante e dall' aviazione russa. Ma gli insorti, asserragliati nel palazzo e sotto la guida del generale Aslan Maskhadov, non si arrendono, anche se la capitale è piena di cadaveri che nessuno riesce a seppellire. Quante le vittime di quella prima fase? Le notizie, non verificabili, parlavano di 1.200/1.500 tra i russi di un centinaio tra i ceceni. Un rapporto difficilmente credibile. Nel bunker dove rimasi rintanato per qualche giorno, le donne, al comando di una matrona molto in carne che chiamavano Romany con seno e sedere di spropositata offensiva circonferenza rispetto ai canoni estetici, si davano molto da fare per alleviarmi i disagi della cattività: brodini di manzo, pane e thè ad ogni ora, anzi mezz' ora. Ogni tanto, nel cuore della notte, risuonavano dei nomi - Baudì, Marat, Muslik, Chadayev - e quei ragazzi, col giaccone imbottito, la calotta di lana o il colbacco e il kalashnikov a tracolla, sgusciavano fuori, nel buio e nel gelo, per assestarsi nei luoghi di combattimento urbani che già sapevano. Ogni notte, qualche donna si raggomitolava in un angolo e piangeva, perché il suo ragazzo (il suo «bambino») non era rientrato nel bunker. Su Grozny cadevano quattro bombe al minuto e tra le vittime nel gennaio del ' 95, ci fu anche il generale russo Viktor Vorobyov, considerato il numero uno della task-force russa, il cui obiettivo era di radere al suolo la città, quartiere dopo quartiere, e schiacciare per intero la sua popolazione come si fa coi topi di fogna. Ma secondo gli esperti, il progetto di Mosca si spingeva oltre: in pochi mesi, questa prima vampata di fuoco che aveva incenerito la piccola nazione caucasica si sarebbe estesa e avrebbe aggredito tutti quei Paesi di religione musulmana, come il Tagikistan, il Kazakhstan o l' Uzbekistan, che facevano parte del cosiddetto «ventre molle» dell' ex Unione Sovietica. «Il paragone con l' Afghanistan - mi disse un ribelle con cui avevo fatto amicizia e al quale avevo raccontato le mie peripezie afghane - è a questo punto inevitabile. L' Armata Rossa ha preso e soggiogato Kabul e le altre capitali regionali, ma non è mai riuscita ad estendere il suo dominio sull' intero Paese. Nel Panshir, Massud li ha respinti». Dovessi ricordare il luogo e il momento in cui ho avvertito, più che altrove, la reazione della Cecenia alla superpotenza che l' aveva violata per evitare che la sua aspirazione all' indipendenza si diffondesse, come un morbo infettivo, ad altri Paesi della Federazione (nel Caucaso, sulle sponde dell' Amu Dariya e sul Baltico), mi viene in mente una sosta di qualche ora alla periferia di Grozny, dov' ero arrivato in macchina dall' Inguscezia, sbraitando contro un povero autista - cui tra l' altro avevo dato cento dollari per un tratto di sei/sette chilometri - che, terrorizzato per quando ci sarebbe potuto accadere, bloccava la vettura ad ogni cento metri e mi supplicava di tornare indietro: «Banditi - diceva - quelli, banditi. Quelli ammazzano. Io, molta paura». Era anche pronto a restituirmi i cento dollari. Nel villaggio periferico di Cernorecje, non trovammo nessun bandito. C' era un minibazar, un mercatino di circa duecento metri ai bordi della strada: povere anziane donne, intirizzite dal freddo, i volti lividi e i geloni sulle forti mani contadine, offrivano cose da pochi rubli, pagnotte gelate, barbabietole, vodka e vino dozzinali, stivali di plastica ma anche orologi e sveglie antiche che al mattino ti cantavano arie di Strauss, Mussorgsky, Borodin e Ciaikovskij. Tutto sembrava funzionare idillicamente fino a quando una radiolina ha annunciato che Boris Eltsin sarebbe approdato a Grozny nel giro di giorni o settimane con un sacco di promesse e progetti per il rilancio economico della capitale. Successe il finimondo. Quelle donne che poco prima ti offrivano la loro mercanzia con grazia rurale avevano adesso attaccato un coro sguaiato di invettive, insulti, improperi, sberleffi, maledizioni apocalittiche. Tre giorni prima, un colpo di mortaio era caduto su una piazzetta di Cernorecje, dove la gente stava attingendo acqua alla fonte, e aveva fatto una strage. «Hanno tirato proprio lì, quei maiali - aveva urlato una donna anziana, mostrando una palizzata di denti d' oro e di metallo -. Tra le vittime, un bambino di quattro anni, uno di undici e un ragazzo di diciassette». Era meglio per tutti che Eltsin non si facesse vedere a Grozny: «Perché qui - protestavano in coro - lo vogliono tutti morto. Ma non dev' essere tolto di mezzo con metodi spicci, indolori». Il suggerimento più truce era che venisse infilato in tutta la sua fisica opulenza in un tritacarne e macinato lentamente. Adesso, dopo il disumano avvenimento nella scuola di Beslan per cui nessuna giustificazione è possibile (sul piano storico o sulle rivendicazioni nazionalistiche e indipendentiste e tanto meno su quello religioso quando si intenda buttare la Cecenia nel vortice dell' integralismo islamico), Mosca ha messo una taglia di dieci milioni di dollari sulle teste di Basayev e Maskhadov per la loro cattura. Certo, per ognuno di noi che fa questo mestiere, viene il momento dell' angoscia quando pensi all' ingenuità con cui avevi considerato eroe una persona che, più tardi, si sarebbe dimostrata indegna e capace di decisioni infami, come quella di sacrificare degli scolaretti nel primo giorno di scuola per realizzare i propri obiettivi politici. Devo solo concludere (amaramente) che quando nel villaggio di Mehkety, Basayev, riferendosi al suo eroe ed omonimo - Shamil - che nell' Ottocento aveva combattuto gli zar, mi disse che non avrebbe rinunciato a nulla pur di realizzare il sogno della sua infanzia (e cioè l' indipendenza, non l' autonomia, della Cecenia) avrei dovuto credergli, letteralmente. E adesso è tardi per tutto: sia per piangere sui piccoli morti dell' Ossezia, sia per battersi il petto di fronte all' ignominia di Basayev. Sempre che l' accusa di Mosca venga confermata. Un avvenimento dopo l' altro, arrivano ondate d' emozioni quasi insostenibili. Ogni anno, ogni mese, ogni giorno. Quando, a fine ottobre del 2002, le donne kamikaze cecene invasero un teatro di Mosca nel tentativo estremo di strappare l' indipendenza del loro Paese, mi sono chiesto se non fossero le figlie o le sorelle minori di quelle simpatiche donne che mi ospitarono, nel gennaio del ' 95, nello scantinato del palazzo presidenziale di Grozny. Venendo da Paesi rigidamente islamici, come ad esempio l' Arabia Saudita, ero stato quasi stordito dall' esuberanza festosa e corale della Cecenia, che pur essendo di maggioranza islamica aveva i ritmi, l' effervescenza, la superficialità, lo stile quasi laico di un Paese occidentale. Nelle case ti offrivano whisky, le donne non portavano il velo e camminavano sorridenti per le strade. Davanti a questo spettacolo, ognuno di noi avrebbe potuto giurare che da queste parti il fondamentalismo islamico non avrebbe mai avuto cittadinanza. È avvenuto, al contrario, che il sentimento religioso si è via via intensificato, mischiandosi alla fine, in un cocktail esplosivo, con le aspirazioni nazionalistiche della popolazione. Su questo punto, non ci sono problemi per Shamil Basayev, per il quale la bandiera cecena e quella dell' Islam sono tutt' uno. Lo era anche per lo scomparso presidente Dudayev, musulmano convinto e praticante, «categorico, intollerante, massimalista», detestato dagli intellettuali perché avrebbe voluto instaurare nel Caucaso l' integralismo islamico di Khomeini. I ragazzi più ardimentosi fanno parte del battaglione degli «smertniki» (che assomigliano agli hezbollah arroccati tra Libano e Siria e spesso impegnati in operazioni suicide) che sono pronti a morire per la Causa e per Basayev. Questo Paese ha sofferto lutti e tragedie terribili. Il massacro di Sabra e Chatila, a Beirut, di cui sono stato testimone nel settembre dell' 82, ha un suo incredibile doppione in Samashki, una città cecena che non esiste più. Aveva 13 mila abitanti. Ora non c' è più nessuno. Non ci sono più neanche le case. I soldati russi si sono accaniti contro di lei a più riprese: nel dicembre del ' 94, nell' aprile del ' 95, nel marzo del ' 96. Ciò che ora si vede, entrando nel paese e percorrendo le sue strade nere di fango, è una ragnatela di scheletri di muri e di macerie. Qualcuno dei suoi abitanti, che adesso vivono altrove, ricorda quando i soldati russi dell' esercito federale scendevano ubriachi con «il mitra in una mano e la siringa con la droga nell' altra»: violenze, stupri, rapine, risate. La Russia, che si sappia, non ha mai chiesto scusa a nessuno per il massacro di Samashki, ma ha stanziato 72 miliardi di rubli per la sua ricostruzione. Samashki è rimasta anche senza bestiame, che ha sempre costituito la sua principale risorsa. «Avevo undici mucche - mi ha raccontato una vecchia contadina, il viso tatuato dai rammendi delle cicatrici, ricordo perenne delle carezze cruenti della soldataglia -, ora me n' è rimasta solo una. Mi dà un po' di latte e le voglio bene. La tocchi. Ha un manto così dolce e morbido». La regione CECENIA IL PAESE La Cecenia è una piccola Repubblica caucasica: ha una superficie di 15.700 chilometri quadrati e 1.100.000 abitanti. E' stata invasa dagli zar russi nel 1830: da allora sul suo suolo si sono combattute una serie di guerre per l' indipendenza GLI ANNI NOVANTA Nel 1991 la Cecenia dichiara l' indipendenza. Solo a fine ' 94, Mosca risponde inviando le truppe a Grozny: ma è una disfatta, l' esercito russo si ritira nel ' 96. Nel ' 99 Putin inizia la seconda guerra cecena, che dura tutt' ora IL COMANDANTE Era alto e forte, con una cicatrice in fronte. Parlava con foga della lotta per l' indipendenza da Mosca, ma spandeva anche sorrisi di dolcezza LE DONNE Fu annunciata una visita di Eltsin. E quelle donne che prima ti trattavano con grazia rurale, si lanciarono in un coro di insulti e maledizioni