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di Ernesto Galli Della Loggia, Il Corriere della Sera, 22 maggio 2004
Il mondo in pace, illusione tutta europea
Stati Uniti, governi europei « volenterosi » e non « volenterosi » , osservatori e opinioni pubbliche, tutti dicono di apprezzare e di volere il « multilateralismo » , così come tutti sostengono con convinzione che la propria politica estera si fonda o mira al multilateralismo.
In un coro così vasto di consensi — anche se si tratta di consensi in parte apparenti, nel quale tutti ripetono quanto è bello e auspicabile il multilateralismo — nessuno si chiede però se esso sia anche possibile. Nessuno si chiede cioè se il multilateralismo per vivere non implichi l'esistenza di certi presupposti e se questi presupposti oggi ci siano. In realtà sono evidenti le oggettive difficoltà contro le quali oggi un approccio multilaterale è destinato a scontrarsi, indipendentemente dalla volontà e dalle impostazioni ideologiche dei singoli attori.
Attualmente tra Europa e Stati Uniti non esiste una delle condizioni preliminari necessarie perché il multilateralismo dal cielo delle parole scenda al regno dei fatti: si tratta di quell'elemento che potrebbe chiamarsi una « percezione condivisa » , un modo comune di essere colpiti dalla realtà. Per mezzo secolo la presenza dell'Unione Sovietica è stata un formidabile fattore di percezione condivisa. Gli Stati Uniti e l'Europa democratica avevano lo stesso nemico: la sua minaccia pesava in modo più o meno eguale su entrambi. Non solo. Fatto ancora più importante era l'omogeneità, per così dire geografica, della minaccia stessa. Mosca, cioè, si presentava come diretta antagonista tanto in Asia o in Africa che in Europa; non c'era differenza tra un teatro geopolitico e l'altro, l'avversario era sempre il medesimo. Si trattava dell'ovvia conseguenza di un mondo politicamente globalizzato come non mai, dove sotto qualunque cielo i contendenti erano sempre i soliti due.
In un contesto del genere il multilateralismo tra Europa e Stati Uniti era facile e naturale: l'una e gli altri condividevano la medesima sensazione circa la fonte dei principali pericoli gravanti su di loro. Ma diciamo la verità: il multilateralismo tra Europa e Stati Uniti era facile e naturale anche per una ragione non proprio positiva, e cioè che si trattava di un multilateralismo in buona parte di facciata. Alla supposta, eguale partecipazione di tutti alle decisioni collettive non corrispondeva certo, infatti, una eguale condivisione degli oneri e degli impegni nel campo cruciale degli armamenti e delle possibili risposte militari. Erano gli Usa che in questo ambito avevano le carte decisive e gli effetti non mancarono di vedersi: gli interventi in Corea, a Cuba, in Vietnam contro l'Unione Sovietica e quello che allora si chiamava il comunismo internazionale non furono certo decisi su una base multilaterale. Certo, Washington cercò ogni volta di dar loro una veste o un supporto multilaterale, ma c'è qualcuno che crede realmente che se nel 1950, mettiamo, l'Onu per un marchiano errore della diplomazia sovietica non avesse appoggiato la risposta Usa in Corea, allora Truman se ne sarebbe astenuto e avrebbe assistito impassibile alla sovietizzazione dell'intera penisola coreana? La verità è che, ieri come oggi, un multilateralismo effettivo che abbia alle spalle una più o meno eguale disponibilità di forza militare e di autorità politica tra i suoi attori è difficile da pensare, e ancor più da realizzare. Tanto più quando tra gli stessi manca quella che ho chiamato una percezione condivisa degli scenari e della gerarchia della minaccia. È proprio questo, però, uno dei principali dati nuovi del mondo post ' 89.
La fine del blocco sovietico ha significato, infatti, il venir meno, almeno all'apparenza, di un pericolo comune agli Stati Uniti come all'Europa. Si è prodotta — ripeto: almeno all'apparenza — una radicale disarticolazione dello scenario geopolitico mondiale e delle sue potenziali minacce. In particolare si è creata per l'Europa ( di nuovo: almeno all'apparenza) una singolare e felice assenza di rischi e di emergenze globali: almeno del tipo di quelli rappresentati a suo tempo da Mosca.
Naturalmente il pericolo sovietico è venuto meno anche per gli Stati Uniti, i quali, però, ne hanno ricavato in un certo senso un assai minor beneficio rispetto ai loro alleati europei. Essi, infatti, dalla fine del blocco sovietico hanno visto sì consacrato il loro ruolo di unica superpotenza, ma ciò ha ancor di più accresciuto il loro impegno su tutti gli scacchieri. Accrescendo di pari passo la loro esposizione ( e la loro conseguente sensibilità) ai pericoli là presenti. L'effetto è stato quello di un forte allontanamento di prospettive rispetto all'Europa.
L'ipermondialità della potenza americana produce in chi comanda alla Casa Bianca e al Pentagono una percezione anch'essa necessariamente mondiale, e dunque per così dire allargata, delle minacce nonché una propensione a collegare e unificare gli scenari di rischio. Tutto ciò viceversa manca radicalmente agli europei. È come se la fine del blocco sovietico e del comunismo avesse relegato l'Europa in un angolo « a parte » del mondo, lontana dai teatri tumultuosi dei mille conflitti che agitano il pianeta, lontano, almeno all' apparenza, dai pericoli che ne derivano. Sicché oggi l'Europa può essere massicciamente pacifista perché ai suoi confini, in effetti, non vi sono conflitti che essa sia obbligata a sentire pericolosi anche per essa. Può essere pacifista perché può illudersi che la Cecenia sia una questione interna russa, che nella ex Jugoslavia chissà come ma alla fine quei popoli turbolenti finiranno per trovare un modus vivendi , che alla fin fine anche il conflitto israeliano- palestinese non è cosa che la riguardi. Può essere pacifista perché può illudersi che il vero obiettivo del terrorismo islamico siano gli americani, non gli europei. Gli Stati Uniti, invece, non possono nutrire le medesime illusioni. Il loro ruolo di superpotenza li pone a contatto e li obbliga a confrontarsi con tutte le guerre, con tutte le rivalità, tutte le tensioni: e ad agire di conseguenza. Sta qui il vero problema del multilateralismo.