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Sfida ad Al
Qaeda: perché non c’è impegno
NOI EUROPEI SOTTO IPNOSI
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
dal Corriere - 10 luglio 2005
Che cos’è che finora
ha impedito all’Europa (esclusa la Gran Bretagna, va da sé) di fare, e ancor più
di proporre, qualcosa di concreto contro il terrorismo islamista? Che cosa ha
impedito a tanta parte della sua opinione pubblica di convincersi che qualcosa
comunque andava pensato, andava fatto? Perché, insomma, l’Europa non sente la
minaccia terroristica come una minaccia rivolta anche contro di lei, e
preferisce credere invece che essa riguardi in sostanza solo gli Stati Uniti,
arrivando addirittura a pensare che sia stata la guerra degli Usa contro Saddam,
sia stata quella la vera causa del diffondersi degli attacchi terroristici nel
mondo dopo l’11 settembre? Porsi queste domande non solo equivale a porsi quella
del perché l’Unione Europea non riesce a esistere come soggetto politico, ma
obbliga a riflettere ancora una volta sull’esito catastrofico che per l’intero
continente è simboleggiato dalla seconda guerra mondiale con la sua appendice
decisiva del 1989, data del crollo dell’ultima grande ambizione egemonica
eurocentrica. Nel fuoco di quegli eventi, rovinosi per tutte le statualità
europee (con la parziale eccezione di quella britannica), andò distrutto per
sempre l’enorme accumulo di conoscenze, di sensibilità e di esperienze - nonché
di ambizioni per l’appunto - che legava da secoli la storia d’Europa e delle sue
classi dirigenti alle vicende del globo. Il mondo cessò allora di appartenere
all’Europa, e l’Europa al mondo: prima ancora che da un punto di vista politico
da un punto di vista culturale.
Lo si vede oggi più che mai. La nostra sottovalutazione del terrorismo islamista
è frutto innanzitutto di un deficit culturale delle classi politiche dirigenti
europee. Le quali non sono più abituate a pensare in termini mondiali (con le
conoscenze e la comprensione delle cose che ciò implica) e a pensare né se
stesse né le loro società in una dimensione siffatta. Tutto così si è ristretto,
si restringe, agli orizzonti casalinghi, mentre si perde la capacità e
l’interesse di valutare i rapporti di forza planetari, si cessa di ragionare in
termini di futuro, di proiettarsi sugli scenari a venire. A queste cose, tanto,
ci pensano gli americani (al massimo con l’aiuto degli inglesi) per venirne poi
ripagati con l’ovvia antipatia riservata ai più bravi.
Questa ritirata dell’Europa dal mondo ha necessariamente corrisposto alla
perdita da parte del suo universo storico-antropologico anche dell’esperienza
dell’uso della forza e insieme del sentimento del tragico che a quell’esperienza
solitamente si accompagna. Ciò che così l’Europa ha perduto è stata precisamente
la possibilità di intendere i due connotati fondamentali della dimensione
terroristica che si trova di fronte, e che rappresentano la premessa e
l’alimento dello sfondo religioso comune a tutti i «grandi» terrorismi.
Il nostro non capire, non vedere, non agire, il nostro voler credere che le cose
non sono poi così brutte come sembrano è il frutto di questi vuoti che ci
portiamo appresso da oltre mezzo secolo. E siccome anche in politica il vuoto
viene inevitabilmente riempito, l’Europa e le sue classi dirigenti si sono
abituate - e seguitano ancor oggi a farlo - a riempirlo con il «politicamente
corretto», con il pacifismo di principio, con l’elogio sempre e comunque del
dialogo e del multiculturalismo, insomma con l’ideologia della democrazia in
versione diciamo così buonista, «europea», si dice, per contrapporla a quella
non buonista per antonomasia degli Stati Uniti. La quale però ha almeno il
merito inestimabile di saper riconoscere i propri nemici, di chiamarli con il
loro nome e di combatterli senza esitazioni.