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Normalizzazione del terrorismo
ILVO DIAMANTI
da Repubblica - 10 luglio 2005
UN NUOVO calendario. Scandisce l´epoca del terrore globale. Si apre l´11
settembre 2001, con l´attacco alle Torri gemelle, prosegue l´11 marzo del 2004,
con l´attentato di Madrid. A cui si aggiunge il 7 luglio 2005.
La normalità del terrore
Gli
attentati sanguinosi nel cuore di Londra. Il terrorismo e il terrore che
colpiscono le capitali dell´Occidente. Altre date potremmo aggiungere. Perché la
cronologia del terrore, dopo l´11 settembre del 2001, è lunga, segnata da altri
attentati: Casablanca, Bali, Mosca, Riad… E dalle guerre al terrore. In Iraq, in
Afghanistan. Ma gli attentati che squarciano l´Occidente ci colpiscono
particolarmente. Perché pensavamo di essere "al sicuro", fino a quattro anni fa.
Minacciati, solo, da fratture storiche "interne": nazionali e ideologiche. Il
terrore di questi anni, invece, viene da "fuori". È legato a logiche e a
illogiche culturali e religiose. Come il terrorismo islamico di matrice
fondamentalista. Mira a infrangere il guscio invisibile che, fino a pochi anni
fa, ha permesso all´Occidente di sentirsi protetto. Zona franca nell´era della
globalizzazione. Il terrorismo ha dissolto questa illusione. Fa sentire tutti
parte della stessa vicenda, sanguinosa, che collega le Torri gemelle, Madrid,
Londra, Mosca, l´Afghanistan e l´Iraq. Rende ogni piazza, ogni metrò, ogni
autobus, ogni strada, ogni palazzo, un possibile teatro di violenza. E ogni
persona un possibile protagonista. Lo ha spiegato bene Ezio Mauro nei giorni
scorsi. "La vera ossessione dei fanatici siamo noi. La normalità della nostra
vita. I piccoli gesti quotidiani di ognuno, che formano i riti di una cultura
comune". Per questo gli attentati, ormai da tempo, non puntano più sui "bersagli
alti": leader politici, uomini di Stato e dell´esercito. Non solo perché è,
oggettivamente, difficile raggiungerli. Ma anche perché i "bersagli bassi",
oltre che vulnerabili, sono i più importanti, per le democrazie occidentali.
Detto in altri termini: quando il terrore colpisce la gente comune nel corso
della vita quotidiana, il filo del consenso democratico entra in tensione. E
rischia di logorarsi. Perché si diffonde l´incertezza. E, in parallelo, cresce
la sfiducia nei confronti dei governi, delle istituzioni. Una tendenza che si è
rafforzata nell´era dell´Opinione Pubblica, dove il sentimento sociale è
rispecchiato (ma anche orientato) dai media e misurato dai sondaggi. Il
terrorismo globalizza la guerra perché la riproduce ovunque e minaccia chiunque.
Perché, soprattutto, la fa entrare nella vita quotidiana delle persone. Per
questo, anche per questo, i discorsi delle autorità inglesi, negli scorsi
drammatici giorni, pur con diversità di accenti, hanno seguito un argomento
comune. Ben espresso dalla regina Elisabetta, quando ha chiarito che "non
cambieremo il nostro modo di vivere". Il premier, Tony Blair le ha fatto eco,
sostenendo che "la lotta al terrorismo non deve farci rinunciare alle nostre
libertà". Mentre il sindaco di Londra, Ken Livingstone, a caldo, aveva
sottolineato come i terroristi, una volta di più, avessero fatto fuoco non sui
"potenti", ma sulle persone comuni, senza distinzione di religione, di ceto,
etnia.
Tuttavia, se l´obiettivo del terrorismo è di introdurre sempre nuovi elementi di
straordinario nel nostro vivere ordinario, non c´è dubbio che l´attentato di
Londra ha segnato una rottura rispetto al passato. Visto che in questa occasione
non abbiamo assistito a uno sconvolgimento dei comportamenti e dei sentimenti
sociali paragonabile alle precedenti "date del terrore". In Italia, ad esempio,
le trasmissioni televisive dedicate all´attentato di Londra non hanno registrato
ascolti particolarmente elevati. Né coloro che avevano progettato di recarsi a
Londra, in questo periodo, hanno cambiato programma. I mercati (cinici, ma
sensibili al sentimento collettivo), dopo un rimbalzo brusco e prevedibile, di
un giorno, hanno ripreso il loro corso normale. E, nei discorsi delle persone, -
se debbo riferirmi ai miei incontri degli ultimi giorni - questo evento
drammatico ha occupato uno spazio, tutto sommato, relativo. Niente a che vedere
con l´effetto baricentrico e ipnotico prodotto dall´11 settembre. Ma neppure con
l´inquietudine, spessa, provocata dall´attentato di Madrid. È come se il
terrorismo, dopo essere precipitato nella vita quotidiana, ne fosse rimasto, a
sua volta, imprigionato.
Certo, questo orientamento è stato, in parte, favorito dalla scelta del governo
e delle autorità britanniche di abbassare la voce e le luci, sulla scena degli
attentati. Al contrario della strategia dell´amministrazione Bush, che,
dall´attacco alle "torri", ha tratto spunto e spinta per alimentare, insieme al
dolore, anche l´orgoglio e il sentimento di rivendicazione nazionale.
L´attentato di Londra, invece, è rimasto quasi in penombra. Poche le immagini. E
le cifre, oltre ai nomi e alle foto delle vittime, largamente indefinite. Non
c´è stata, fino ad oggi, la stessa "mobilitazione" popolare registrata negli Usa
o in Spagna. Non per minore sensibilità, ovviamente. Ma per un diverso modo di
affrontare l´emergenza e il dolore. Così i messaggi, espressi non solo dalle
autorità, ma anche dai media, hanno privilegiato il sentimento al risentimento,
il dolore composto all´odio verso il nemico. Tanto che, per cogliere echi (e
anche di più: grida) dello scontro di civiltà, frontalmente rivolti contro
l´Islam, bisogna scorrere i titoli di alcuni giornali della destra italiana.
(Quasi che le bombe fossero esplose a Milano o in qualche città padana).
Hanno scelto, la classe politica e i media britannici, di opacizzare la scena
dell´attentato. (Com´è avvenuto, d´altronde, in occasione dell´intervento armato
in Iraq). Per non aprire solchi e fratture nella società. Per non provocare il
collasso della normalità. Ma, nella stessa direzione, si sono mosse anche la
società, le persone. Che, in qualche misura, si stanno "abituando". Cominciano a
convivere con l´idea che la guerra è fra noi. Dentro l´Occidente, Ieri negli Usa
e in Spagna. Oggi a Londra. Domani, forse, in Italia. E cominciano, cominciamo,
a regolare i nostri atteggiamenti, i nostri modi di vita, di conseguenza. Il
terrorismo, in altri termini, entra nelle nostre routine. Permea la nostra
visione del presente e del futuro prossimo. Diviene un elemento - una
possibilità latente - della nostra vita. E, per questo, non la sconvolge più.
(Fino a che, almeno, non ci investe direttamente; e resta episodico, per quanto
devastante).
All´attacco terroristico contro la nostra normalità, quindi, si risponde
attraverso la normalizzazione del terrorismo. Nel senso comune. E nella nostra
vita vissuta. Per cui, già oggi, si fa finta di niente, si parla d´altro e si
attende il prossimo attentato.
Non è del tutto chiaro, peraltro, cosa significhi tutto ciò. In particolare: chi
abbia vinto, chi abbia perso. Se il terrorismo, abituandoci all´orrore
quotidiano; oppure noi, che riusciamo a metabolizzare anche al Qaeda e i suoi
epigoni locali. Si tratta, d´altronde, di una storia ancora incompiuta. Da
scrivere.
Ma se la "normalizzazione" della guerra e del terrorismo producesse, come
effetti, distacco e sospetto nei confronti dell´altro, diverso da "noi", per
religione e provenienza. Se alimentasse la domanda (l´illusione) di "difenderci"
dal mondo (e dall´Europa). Se rendesse indulgenti verso la riduzione dei diritti
e delle libertà, in nome della sicurezza. Se spingesse alla ricerca del nemico,
che vive accanto a noi. Fra di noi. Se moltiplicasse le paure. E accentuasse la
paura. Se tutto ciò avvenisse, allora noi avremmo certamente perso la nostra
sfida con il terrorismo. Perché ci renderebbe prigionieri, nella nostra vita
quotidiana. Anzi: della nostra vita quotidiana. Perché la libertà e la
democrazia si fondano su grandi principi. Ma, poi, si nutrono e vivono di
dettagli.