Gabriele
Romagnoli su Repubblica di oggi, in un lungo pezzo dal titolo “La
nostra paura quotidiana” accenna al fatto che i nonluoghi, sui quali
scrivevo nei
giorni
scorsi, sono i
posti nel quale la paura del terrorismo alberga. Ovviamente concordo
(forte dei distinguo già fatti) e cito:
Le sedi in cui il nuovo terrore si è depositato sono principalmente i
non luoghi, gli spazi dove non si vive, si transita: gli aeroporti, i
mezzi di trasporto, i locali pubblici. La guerra convenzionale ti viene
a colpire dove sei, bombarda le abitazioni, entra a fucile spianato
“casa per casa”. Questo terrorismo (questa guerra non convenzionale) ti
colpisce dove passi. La minaccia ti segue, ti accompagna. In questo modo
la paura, letteralmente, ti paralizza. Induce a non muoverti per
sentirti al sicuro. […] La valenza stessa dei non luoghi muta.
Non muoversi per sentirsi al sicuro.
Se ti muovi spesso troverai metrò, grattacieli che solleticano le nuvole e
attirano gli aerei, stazioni affollate che ti connettono ad altrove.
Attaccare i nonluoghi è cercare di minare le fondamenta della modernità.
E minare le fondamenta della modernità non passa (è questa l’intuizione
delle nuove forme del terrorismo) attraverso la distruzione di monumenti
famosi, pregni di storia, ormai simboli invecchiati e statici, buoni al
massimo per cartoline e fotografie di prammatica; e nemmeno attraverso il
tentativo (equiparabile) di attentare alla vita di personaggi famosi,
autorità, leader nazionali.
E sono convinto che questa sia, solo in parte, una scelta dettata dalle
difficoltà pratiche, o effetto di una strategia che ricerca il maggior
numero di vittime.
Ilvo Diamanti, sempre su La Repubblica, scrive qualcosa di
simile:
[…] gli attentati, ormai da tempo, non puntano più sui “bersagli
alti”: leader politici, uomini di Stato e dell’esercito. Non solo perchè
è, oggettivamente, difficile raggiungerli. Ma anche perchè i “bersagli
bassi”, oltre che vulnerabili, sono i più importanti, per le democrazie
occidentali.
Seguo un mio personale persorso mentale.
La paura blocca o fa scappare.
Il terrore incrina e spezza: abitudini, normalità.
La resilienza inglese - per esempio - è, invece, un’altra cosa
ancora.
La resilienza: proprio una bella parola.
Specie in situazioni tragiche, le parole possono essere incredibilmente
lenitive: a patto, però, di trovare la parola opportuna, di dire la
cosa giusta. Il che è l’esatto opposto del parlare a vanvera, o tirare
parole compunte a casaccio sperando che qualcuna di queste vada a colpire
delle corde emotive nascoste.
La parola giusta è un esercizio di profonda condivisione, e comprensione,
non proviene certo dalle facili empatie o dai cinici disincanti.
Resilience (tra gli altri, hanno usato nei loro discorsi questa
parola - anche nome di un apposito ufficio governativo per le emergenze
nazionali - Tony Blair e il Principe Carlo) vuol dire, in italiano, la
capacità di un materiale di resistere ad urti improvvisi senza spezzarsi.
In inglese il termine è meno desueto, e più complesso: è indice di una
capacità insieme di reazione, di resistenza e di ripresa.
Lo stesso Diamanti, riferendosi - in buona compagnia in questi giorni -
proprio alla resilienza britannica fatta di dolore composto, voci basse e
poche polemiche, orgoglio e sentimento, scrive (grassetto mio):
[…] questo evento drammatico ha occupato uno spazio, tutto sommato,
relativo. Niente a che vedere con l’effeto baricentrico e ipnotico
prodotto dall’11 settembre. Ma neppure con l’inquietudine, spessa,
provocata dall’attentato di Madrid. E’ come se il terrorismo, dopo
essere precipitato nella vità quotidiana, ne fosse rimasto, a sua volta,
imprigionato.
Diamanti conclude dicendo di non saper dire se questa capacità di
resilienza al terrorismo sia un prodotto tipicamente britannico e quindi
non esportabile; nemmeno se sia un male (ovvero l’effetto perverso e
congiunto di abitudine e indifferenza) o un bene (il segno felice di una
avvenuta metabolizzazione).
Ovviamente non lo so neanche io.
Ma se il terrorismo colpisce un nonluoghi (e non un politico o un
monumento) perchè sa, chissà quanto consapevolmente, che è lì il centro di
gravità simbolici e insieme il punto debole dell’identità occidentale, e
lo fa proprio per iniettare in essi la paura di stare al mondo, allora la
resilienza, oltre che una gran bella parola, è anche una risposta.