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LE DOMANDE
SENZA RISPOSTA
EUGENIO SCALFARI
la Repubblica - 9 marzo 2005
Di solito non rispondo alle critiche e tantomeno alle accuse che mi vengono di
tanto in tanto rivolte da uomini politici o da giornalisti che non condividono
le mie opinioni. Non già per disprezzo verso gli interlocutori ma per seguire
una regola che abbiamo sempre praticato, quella di non parlare o parlare il meno
possibile di noi. Dico di più: talvolta accade che le critiche che ci vengono
rivolte, dedotte da una visione diversa della realtà, ci inducono a modificare
l´opinione precedentemente espressa, del che, quando è accaduto, abbiamo sempre
dato atto.
Sento invece il
bisogno di rispondere questa volta alle parole quanto mai aspre che mi ha
indirizzato lunedì scorso sul suo giornale il direttore del manifesto, Gabriele
Polo, a proposito di alcune mie osservazioni sulla professionalità di Giuliana
Sgrena e di Nicola Calipari. Non già perché me ne senta ferito ma per due altre
ragioni: perché il manifesto ha direttamente partecipato all´intera vicenda
Sgrena, dal rapimento fino alla liberazione, colloquiando con i massimi
rappresentanti del governo, dello Stato, dei servizi di sicurezza, organizzando
manifestazioni imponenti, lanciando messaggi ai rapitori, alle comunità
musulmane, alle televisione arabe. È stato cioè parte in causa con pieno diritto
di esserlo in quanto rappresentante della persona rapita. La seconda ragione sta
nel fatto che le scelte prese sul terreno da Nicola Calipari fanno parte
integrante dell´intera vicenda che occupa da cinque giorni il cuore e la mente
dell´intera nostra comunità nazionale incidendo potentemente sui rapporti tra le
diverse forze politiche nonché su quelli tra l´Italia e gli Stati Uniti.
Non si tratta dunque d´un dissenso tra diverse opinioni e rappresentazioni dei
fatti, bensì di una questione molto più importante. Talmente importante che
Calipari ci ha rimesso la vita e la Sgrena e l´altro ufficiale dei servizi si
sono salvati per qualche centimetro dal fare la stessa fine.
C´è dunque ampia materia per tornare sulla questione, indipendentemente dagli
insulti che il direttore del manifesto mi ha gratuitamente rivolto, e che voglio
ascrivere alla concitazione dell´animo e alla passionalità che ne consegue.
* * *
Ho scritto domenica scorsa a proposito del rapimento della Sgrena dal quale
l´intera vicenda ha preso inizio, che era nota a tutti i giornalisti inviati a
Bagdad la pericolosità di restare troppo a lungo in quel recinto dove da tempo
si sono rifugiate molte centinaia di persone provenienti da Falluja. Chi ci
andava per raccogliere notizie e raccontare fatti lo faceva a proprio rischio e
il rischio diminuiva o aumentava in proporzione diretta al tempo di permanenza
sul luogo del pericolo.
Giuliana Sgrena rimase in quel recinto per oltre quattro ore dando tempo a
quanti fanno parte organica della truce industria dei sequestri di persona di
preparare con agio il colpo e rapire, sotto gli occhi perfino dei guardiani
della moschea che sorge entro quel recinto, la giornalista del manifesto.
Del resto lei medesima, in una pubblica dichiarazione di lunedì scorso, ha
detto: «Mi sono trattenuta troppo a lungo tra i rifugiati di Falluja. L´ho fatto
per riguardo verso l´imam della moschea che mi aveva fissato un appuntamento, ma
è stato un errore».
Siamo dunque almeno in due a pensarla in questo modo, la Sgrena ed io.
Certo, l´errore non ha la stessa intensità della fucileria americana sulla
strada dell´aeroporto, ma senza quell´errore il rapimento non ci sarebbe
stato e neppure la morte di Calipari, perché l´intera sequenza comincia lì, nel
recinto dei rifugiati di Falluja. È indecente ricordarlo, come ha scritto il
collega Gabriele Polo? O fa parte di quelle vicende che vogliamo tutti
ricostruire senza dimenticare o nascondere nessun rilevante particolare?
* * *
Le osservazioni che riguardano le scelte sul terreno di Nicola Calipari sono
appena più complesse da capire, ma non poi tanto.
Si pongono a questo punto alcune domande. Chi informò Calipari dell´obiettivo
finale della sua missione? Quando e a chi furono fornite queste informazioni?
Chi conosceva su quale tipo di vettura viaggiava Calipari e la sua targa? Perché
Calipari non chiese d´essere scortato dai carabinieri che prestano permanente
servizio all´ambasciata d´Italia a Bagdad? Chi portò all´ospedale i feriti dopo
la fucileria della pattuglia americana?
Queste domande sono ancora senza risposta. Il ministro degli Esteri, nella sua
relazione di ieri alla Camera dei deputati, ha risposto con i dati fino a quel
momento disponibili. Abbiamo così appreso che Calipari non volle la scorta per
dare il meno possibile nell´occhio e che fu lui a decidere per l´imbarco
immediato anziché pernottare all´ambasciata italiana in attesa di percorrere nel
far del giorno la strada da Bagdad all´aeroporto. Per quale ragione? Risposta di
Fini: perché il rischio di attraversare di notte il centro di Bagdad era
altrettanto elevato che quello di inoltrarsi verso l´aeroporto.
Può darsi che i rischi si equivalessero. Ma ancora una volta, per attraversare
il centro di Bagdad non si poteva chiedere la scorta all´ambasciata italiana?
Questa domanda, che è il punto chiave dell´intera vicenda, è tuttora inevasa e
non dipende dall´inchiesta promessa dall´amministrazione Usa; dipende invece
esclusivamente dall´aiutante di Calipari a bordo della vettura con lui, dal capo
del servizio di sicurezza, Pollari, e dal sottosegretario Gianni Letta, suo
referente politico con delega di pieni poteri.
Quello che mi sembra certo è che Calipari non si fidava dell´"intelligence" Usa;
probabilmente non voleva che gli agenti dell´intelligence americana avessero
modo di interrogarlo e lo sottoponessero a domande sui sequestratori, sulle
modalità e il luogo del sequestro e della liberazione e sul tema del riscatto
pagato.
Voglio qui ricordare che un problema analogo si pose all´intelligence francese
in occasione del rapimento di due giornalisti di quel paese. Anche allora
l´intelligence Usa si mise di traverso e la liberazione di quegli ostaggi, già
pronta e in procinto di essere effettuata dopo venti giorni dal rapimento, ebbe
luogo dopo altri due mesi, provocando una vera e propria crisi diplomatica tra
l´Eliseo e l´amministrazione Usa, di cui si ebbe notizia sulla stampa
internazionale e anche italiana. La differenza tra i due casi consiste nel fatto
che agli occhi dell´amministrazione Usa l´Italia è un alleato fedele e
volenteroso con truppe in Iraq, mentre la Francia non ha mai mandato neppure un
soldato né un euro in quel paese. Ciononostante il contrasto tra l´intelligence
Usa e quelle europee si è avuto in entrambi i casi e allo stesso livello di
intensità.
Il nocciolo della questione è dunque questo: gli Usa sono decisi a impedire
l´industria dei sequestri e il pagamento dei riscatti, mentre le intelligence
europee praticano questo metodo sistematicamente. Questa diversa strategia è
stata presente in ogni momento a Calipari, a Pollari, a Letta. Di qui le loro
decisioni operative, di qui alcuni loro gravi errori, di qui la morte di
Calipari che ha comunque ben meritato la riconoscenza della nazione.
Riconoscere alcuni errori che può aver commesso non toglie nulla alla sua
generosità, al suo coraggio e all´onore che gli dobbiamo.