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Intellettuali, liberatevi dal «berlusconismo»
La prima
essenziale responsabilità riguarda ormai la sopravvivenza stessa della
società civile e della democrazia
di Giulio Ferroni
ETICA E POLITICA/3
La vecchia concezione di «impegno», così come la vecchia politica, oggi non
funzionano più. Una cultura responsabile e libera dovrà innanzitutto operare una
critica radicale ai modelli culturali imperanti (anche a sinistra)
La «questione
morale» riguarda naturalmente anche gli intellettuali: e non c’è certo da
meravigliarsi se molti di essi restano refrattari a prenderla in considerazione,
e continuano ad ironizzare di fronte al ricordo degli accorati ammonimenti di
Enrico Berlinguer. La questione morale chiama direttamente in causa il concetto
di responsabilità e la vecchia categoria dell’impegno. Ma in che consiste
propriamente la responsabilità intellettuale, da quella più generale dei
comportamenti degli intellettuali di fronte alla società sia quella più
particolare delle loro scritture? Nei termini più generali, e facendo
riferimento alle stesse radici della parola (da respondeo), la responsabilità
indica una commisurazione al contesto, una risposta alle esigenze dell’universo
in cui si è inseriti (le esigenze «autentiche», che non coincidono
necessariamente con le dirette richieste dei soggetti che lo costituiscono), che
ne sostengano l’equilibrio, la persistenza e l’eventuale miglioramento. Discorsi
e comportamenti responsabili saranno quindi quelli che partono da una
valutazione delle condizioni reali, delle compatibilità, dei possibili effetti,
delle conseguenze che ne possono scaturire. Nell’individuazione dell’orizzonte
attuale della responsabilità credo sia ancora essenziale la riflessione,
pochissimo penetrata nel nostro paese, di Hans Jonas e della sua opera capitale
Il principio di responsabilità (Das Prinzip Verantwortung, 1979). Jonas
sottolinea la frattura radicale che l’avvento delle tecnologie moderne e
postmoderne ha creato nell’agire umano, rispetto a ciò che esso è stato in tutto
il precedente corso del tempo: la potenza delle tecnologie e l’impossibilità di
prevedere i loro esiti impone un’etica pubblica che metta in guardia dalle
incombenti e sempre possibili catastrofi, dallo stravolgimento e dalla
deformazione dell’umano, poiché «c’è da conservare l’eredità di un’evoluzione
precedente che non può essere così radicalmente cattiva se ha lasciato in
eredità ai suoi attuali possessori la capacità (autoattribuitasi) di giudicare
sul bene e sul male. Ma tale eredità può essere smarrita». Tutto ciò impone una
particolare cura per il futuro e per le conseguenze di ogni atto politico,
produttivo, economico, comunicativo, per le rovine a cui può dar luogo (oggi
inquinamento dell’ambiente, inquinamento delle coscienze, violenza sulle persone
e sulle cose): la prima essenziale responsabilità, che fa da quadro a tutte le
responsabilità particolari, riguarda ormai la sopravvivenza stessa delle società
civili, del tessuto di relazioni che le tiene in piedi, delle forme certo
imperfette ed aleatorie ma mai adeguatamente superate della democrazia, degli
habitat naturali e mentali, delle stesse esistenze di miliardi di esseri umani.
I rivolgimenti che si sono dati alla fine del XX secolo e gli sconvolgimenti con
cui ha avuto inizio il nuovo millennio hanno categoricamente smentito le ipotesi
politiche e rivoluzionarie su cui si era a lungo sostenuto l’impegno degli
intellettuali di sinistra, il valore di atti e gesti non attenti ai loro esiti
effettivi: e in molti casi hanno mostrato la natura illusoria e mistificatoria
di quell’impegno, le contraddizioni e gli equivoci che lo costituivano.
L’engagement novecentesco ha chiesto a lungo agli intellettuali di essere dalla
parte della storia, di collaborare alla costruzione di un futuro disegnato
secondo modelli precostituiti, nell’illusione di muoversi verso la liberazione
dell’umanità: esso si collegava ai sogni e alle presunzioni della modernità,
all’ipotesi di una inarrestabile accelerazione della storia verso un indefinito
progresso, identificato con lo sviluppo industriale e tecnologico, con il
benessere collettivo, con l’emancipazione del terzo mondo, con il socialismo.
Insieme alla crisi e al crollo del comunismo sono crollati gran parte dei
presupposti di quell’engagement, mentre si è data una vera e propria saturazione
della modernità, che gli apologeti del postmoderno continuano a interpretare in
termini incongruamente ottimistici, ma che si prolunga come frana, deriva,
accelerazione indeterminata, incontrollabilità dei processi, rigurgiti di
pregiudizi e fondamentalismi, intreccio perverso tra violenza e virtualità.
Questo percorso in Italia ha avuto esiti del tutto particolari, con il passaggio
dalla mitologia rivoluzionaria al terrorismo, dal riformismo progressista e
modernizzante al più spregiudicato esercizio del potere, fino alla piena presa
in carico della cultura dell’apparenza e dell’effetto mediatico (il mondo di
Berlusconi e la mimesi/parodia di Berlusconi). Di fronte a tutto ciò c’è motivo
di credere che un autentico impegno non possa coincidere più con la
collaborazione ad un percorso storico, ad una tendenza o ad una linea politica,
ma debba svolgersi solo come conoscenza e testimonianza, ricerca di verità,
lotta contro la saturazione del linguaggio, battaglia per un’etica delle
istituzioni e cura per vicende e luoghi concreti, situazioni specifiche, persone
reali. Responsabilità dell’intellettuale sarà allora in primo luogo, come ebbe a
suggerire Elias Canetti, «responsabilità per la vita che si distrugge», impegno
a dar voce alla resistenza dell’umano e della natura, alle ipotesi di equilibrio
e di razionalità che si sono faticosamente costruite nei secoli, alla
salvaguardia delle esistenze e degli spazi vitali dalle oppressioni che le
attanagliano e dalle molteplici minacce che gravano sugli individui, sui gruppi
sociali, sulla vita civile, sull’ambiente culturale e naturale.
Occorrerà allora scrollarsi di dosso molte pesanti eredità del vecchio
engagement e della vecchia politica, come certe tante inveterate pratiche
istituzionali. Anzitutto sarà da rifiutare la presunzione di essere dalla parte
della storia, il piglio aggressivo e sfrontato di chi mostra di aver capito
tutto, di saper metabolizzare dentro di sé le tendenze del mondo, il suo
movimento verso il futuro. Questa presunzione può assumere tratti molto diversi,
può dar luogo a nichilistici compiacimenti per il carattere estremo della
situazione, per la degradazione delle forme di convivenza civile, per la
pervasività della violenza e dell’apparenza, per l’annullamento di ogni modello
«umano»; o diversamente può sfociare in entusiastiche sottoscrizioni
dell’onnipotenza del mercato, delle utopie tecnologiche, degli orizzonti
digitali e multimediali, della leggerezza della comunicazione universale. Sono
modi diversi di sentirsi immersi nell’onda che trascina il mondo, dalla parte di
tutto ciò che rivendica la propria presenza sulla scena. Sulla base di questo
presupposto si arriva a scelte diverse e contrastanti, proprio perché molteplici
e conflittuali sono quelle tendenze (talvolta soltanto «mode») che sembrano
muoversi in avanti, che pretendono di portare in sé il germe del futuro. Eppure
quasi sempre, come il passato potrebbe insegnare, le presunzioni sullo sviluppo
della storia e le proiezioni verso il futuro vengono smentite, cancellate se non
rovesciate, dai fatti, dall’imprevisto realizzarsi di quel futuro. In questo
ambito la sinistra dovrebbe saper fare i conti (che ha fatto solo in parte) non
solo con i propri errori pratici, ma con le proprie speranze e le proprie
previsioni sballate, con il proprio passato spirito escatologico, con le
schematiche sicurezze, le analisi cosiddette «scientifiche», segnate da una
mancanza di «pietà» per la semplice vita, ecc.: grave è che molti siano passati
da quel linguaggio e da quelle proiezioni a un più grigio realismo quotidiano o
a più pacati commerci con le istituzioni o ad un affidamento agli «esperti»
della comunicazione, senza motivare in nessun modo questi passaggi, senza saper
fare una critica delle presunzioni di allora e senza percepire il male che
quelle presunzioni possono aver fatto sul tessuto sociale e sulla stessa tenuta
attuale della sinistra. Sarebbe tra l’altro il caso di fare una riflessione su
quegli «stili dell’estremismo» (i cui caratteri sono stati messi in tutta
evidenza da Alfonso Berardinelli), verificandone le persistenze e
reincarnazioni, nella loro natura fallimentare, distruttiva, irresponsabile.
E occorrerà scrollarsi di dosso il modello dell’intellettuale «politico»
(organico o non organico che sia), di cui negli anni passati abbiamo visto
molteplici incarnazioni: teso ad attribuire un’immediata politicità al proprio
fare, ad identificare il conflitto culturale con una lotta di posizioni, di
schieramenti, di acquisizione di spazi e poteri, a ricondurre tutti gli oggetti
del proprio fare a rapporti di forza, a disegni strategici. Non si tratta
dell’intellettuale «prestato alla politica» (che, in linea di principio, può
sempre darle un contributo utile, tanto più utile se il suo metodo è
«antipolitico»), ma di quello abituato a ricondurre ogni manifestazione
dell’agire e del sentire umano alla politica, intesa come arte della gestione,
della manovra, della prevaricazione: con spregiudicatezza e cinismo di tipo
bassamente «machiavellico», risalenti magari a vecchie matrici leniniste,
sfociate in esercizi di micropotere quotidiano, a destra come a sinistra.
Oltre alla consunta figura dell’intellettuale politico, la questione morale
chiama in causa quella oggi più diffusa e ramificata dell’intellettuale
istituzionale, e cioè i comportamenti che gli intellettuali assumono all’interno
delle istituzioni culturali e scientifiche. Si sa che la burocratizzazione della
cultura, il moltiplicarsi di organismi di gestione e controllo delle risorse ad
essa destinate moltiplica compiti e funzioni istituzionali: il loro esercizio e
i poteri più o meno consistenti che esso comporta finiscono per travalicare sui
contenuti culturali, sulle stesse scelte e prospettive a cui quelle istituzioni
sono destinate, e per dare spazio a lobby intorno a cui si svolgono reti di
interessi particolari, promossi e difesi con le manovre più spregiudicate. In un
universo istituzionale che cresce su se stesso, dove le funzioni a cui
l’istituzione è destinata sono sempre più schiacciate dall’orizzonte
burocratico, amministrativo, gestionale, si ha un vero e proprio dilagare di
lobbismo, nepotismo, microcorporativismo. Chi conosce un po’ l’università, sa
per esempio come i suoi compiti scientifici e didattici siano sempre più
schiacciati (anche per effetto delle scriteriate riforme) da funzioni gestionali
e amministrative che sollecitano la formazione e l’azione di gruppi di potere,
in mano a personaggi abilissimi nell’esercizio di una micropolitica, che mirano
soprattutto alla propria persistenza, ossessivamente tesi all’acquisizione di
spazi, certo con ben poca cura del «bene comune». A guardare a fondo nelle
manovre, nelle «telefonate», nelle «pressioni» che si svolgono nella vita
universitaria, si troverebbe davvero ben poca responsabilità e molta materia per
l’approfondimento della «questione morale». In molti contesti (sia tra gli
intellettuali istituzionali sia tra quelli che frequentano il variegato universo
dei media) vengono ormai considerati naturali codici di comportamento che invece
occorrerebbe sottoporre a critica spietata. E che dire del narcisimo
autopromozionale, dell’accettazione spesso incondizionata dei più esteriori
modelli comunicativi, delle mode più rumorose, dell’effetto pubblicitario?
Viviamo immersi in un implicito serpeggiante berlusconismo nato già prima di
Berlusconi: e non è del tutto fuor di luogo chi fa notare come Berlusconi sia
nato dall’inconscio di certa sinistra, dalla corrente ammirazione per la cultura
dell’apparenza, dell’esibizione, del successo spettacolare. Una cultura
responsabile, veramente libera dai diffusi veleni del berlusconismo, potrà
sorgere solo da una critica radicale a tali modelli.