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«In bagno lei stinge Mr. Sen?»
Usi e abusi del
multiculturalismo
Un nobel e lo scontro di civiltà
In: http://www.corriere.it/Primo_Piano/Documento/2006/02_Febbraio/25/AmartyaSen.shtml
(Traduzione di Maria Sepa)
«In bagno lei stinge Mr. Sen?»
Un nobel e lo scontro di civiltà
La crisi delle vignette conferma che
tolleranza e rispetto sono la base di una società multietnica. Il
premio Nobel Amartya Sen vede nascere la coesistenza quando le
tradizioni non si limitano a tollerarsi ma si fondono in stili di
vita diversi. Come avviene nelle cucine di Londra dove nascono le
ricette angloindiane
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Nel mondo contemporaneo la richiesta di
multiculturalismo è forte. Il multiculturalismo è
invocato a gran voce nella pratica sociale, culturale e
politica, soprattutto nell’Europa Occidentale e in
America. Questo non sorprende affatto, dato che gli
accresciuti contatti e interazioni a livello mondiale, e
soprattutto le diffuse migrazioni, hanno posto culture
diverse l’una accanto all’altra. L'ampia accettazione
del precetto di “amare il prossimo” aveva probabilmente
avuto origine dal fatto che i vicini conducevano più o
meno lo stesso tipo di vita (“Continuiamo questa
conversazione la prossima domenica mattina, quando
l’organista fa una pausa”), ma per osservare quel
precetto oggi, è necessario riuscire a provare interesse
per un prossimo il cui modo di vivere è molto diverso.
Che non sia un compito facile è stato mostrato ancora
una volta dalla confusione che circonda le recenti
vignette danesi sul profeta Maometto e dal furore che
hanno creato. La natura globale del mondo contemporaneo,
peraltro, non ci concede il lusso di ignorare gli ardui
problemi che il multiculturalismo pone.
Una delle questioni principali riguarda il modo in cui gli esseri umani sono considerati. Devono essere classificati secondo le tradizioni (in particolare la religione) della comunità in cui sono nati, e questa identità non scelta deve avere la priorità rispetto ad altre affiliazioni riguardanti la politica, la professione, la classe, il genere, la lingua, la letteratura, l’impegno sociale e molte altre? O le persone devono essere considerate sulla base delle loro varie affiliazioni e associazioni, secondo priorità che spetta a loro decidere (assumendosi la responsabilità di una scelta ragionata)? Dobbiamo inoltre valutare l'opportunità del multiculturalismo basandoci sulla possibilità che le persone con background culturali diversi siano “lasciate sole”, o su quella che la loro capacità di scegliere in maniera ragionata sia sostenuta dall’istruzione e dalla partecipazione alla società civile? Non si possono eludere questi punti fondamentali se vogliamo valutare il multiculturalismo in modo equo. È utile, quando si discute della teoria e della pratica del multiculturalismo, soffermarsi particolarmente sull’esperienza inglese. L’Inghilterra è stata all’avanguardia nel promuovere un multiculturalismo inclusivo, che è passato attraverso successi e difficoltà, e il cui esempio è importante per gli altri paesi europei e per gli Stati Uniti. Nel 1981 in Inghilterra, a Londra e a Liverpool, vi sono stati disordini per ragioni razziali, anche se non paragonabili a quelli che si sono verificati in Francia nell’autunno del 2005, e questo ha portato a un ulteriore sforzo verso l’integrazione. Negli ultimi venticinque anni, la situazione è rimasta stabile e piuttosto tranquilla. In Inghilterra il processo di integrazione è stato favorito dal fatto che tutti i residenti provenienti da paesi del Commonwealth, che costituiscono la maggior parte degli immigranti non bianchi, hanno da subito pieno diritto di voto, anche quando non hanno la cittadinanza inglese. L’integrazione è stata anche favorita dal trattamento non discriminatorio nei confronti degli immigrati in materia di assistenza sanitaria, scuola e previdenza sociale. Nonostante tutto questo, però, negli ultimi tempi l'Inghilterra ha constatato la emarginazione di un gruppo di immigrati e la presenza di un terrorismo allevato in casa propria. Giovani musulmani provenienti da famiglie di immigrati – nati, istruiti e cresciuti in Inghilterra – hanno ucciso molte persone nel luglio del 2005 a Londra in un attacco suicida. Le discussioni sulla politica multiculturale inglese, perciò, hanno una portata assai più vasta e suscitano interesse e passioni assai maggiori di quel che i limiti della questione in sé farebbero pensare. Sei settimane dopo gli attacchi terroristi di luglio a Londra, quando Le Monde pubblicò un articolo intitolato “Il modello multiculturale inglese in crisi”, al dibattito si unì subito il leader di un’altra istituzione liberale, James A. Goldston, direttore dell’Open Society Justice Initiative in America, che definì l’articolo del Monde “esagerato” e replicò: “Non usiamo la minaccia del terrorismo per giustificare l'archiviazione di un quarto di secolo di successi raggiunti dagli inglesi nel campo delle relazioni razziali.” Qui c’è un’importante questione di carattere generale che va presa in considerazione e discussa. Io sostengo che il vero problema non è se “il multiculturalismo sia andato troppo in là” (Goldston sintetizza così una delle posizioni dei critici), ma quale forma specifica debba assumere il multiculturalismo. Il multiculturalismo è solo la tolleranza della diversità delle culture? Non fa differenza se chi sceglie le pratiche culturali è un bambino a cui sono imposte nel nome della “cultura della comunità” o è una persona che decide liberamente e che ha adeguate possibilità di informarsi e di ragionare sulle alternative? Quali opportunità hanno, a scuola o nella società in generale, i membri di comunità differenti di conoscere altre religioni e di capire come ragionare sulle scelte che gli esseri umani devono fare, foss'anche implicitamente? |
II
L’Inghilterra, dove sono giunto nel 1953 da studente, colpisce particolarmente
per la capacità di dare spazio a culture differenti. Per molti aspetti la strada
percorsa da allora è stata straordinaria. Mi ricordo (con tenerezza, devo
ammettere) quanto fosse preoccupata la mia padrona di casa di Cambridge della
possibilità che il colore della mia pelle potesse venir via facendo il bagno
(dovetti rassicurarla che era resistente e durevole) e la cura con cui mi spiegò
che la scrittura era un’invenzione della civiltà occidentale (“nata con la
Bibbia”). Per chi ha vissuto – a intermittenza, ma per lunghi periodi – la
grande evoluzione delle diversità culturali in Inghilterra, il contrasto tra il
paese di oggi e quello di mezzo secolo fa è incredibile.
Aver incoraggiato le diversità culturali ha certamente migliorato la qualità
della vita delle persone. Ha permesso all’Inghilterra di diventare un posto
eccezionalmente vivace in molti campi. Dalle gioie del cibo, della letteratura,
della musica, della danza e delle arti multiculturali all’incantevole confusione
del carnevale di Notting Hill, l’Inghilterra offre alla sua gente – di tutte le
provenienze – molto di cui godere e compiacersi. Accettando le diversità
culturali (e dando il diritto di voto, i servizi pubblici e la previdenza
sociale senza discriminazioni, come si è detto) ha permesso a persone di origini
assai differenti di sentirsi a casa propria.
Vale la pena di ricordare, però, che accettare stili di vita e priorità
culturali differenti non è sempre stato facile neppure in Inghilterra. Vi era la
richiesta, sporadica ma ricorrente, che gli immigrati abbandonassero il loro
stile tradizionale di vita e adottassero quello della società in cui si erano
stabiliti. A volte questa richiesta giungeva a considerare aspetti culturali
assai dettagliati, collegati a comportamenti di minima entità, ben illustrati
dal famoso test del cricket proposto da Lord Tebbit, leader politico
conservatore. Secondo quel test, un immigrato mostrava di essersi integrato
quando parteggiava per l’Inghilterra piuttosto che per il suo paese d’origine
(ad esempio il Pakistan), nelle partite in cui le due squadre giocavano l’una
contro l’altra.
Bisogna ammettere che il test di Tebbit ha il merito della inequivocabilità e dà
all’immigrato un criterio meravigliosamente chiaro con cui stabilire quanto sia
integrato nella società britannica: “Fa’ il tifo per la squadra inglese di
cricket e sei a posto!” Riuscire a capire se si è integrati nella società
inglese, altrimenti, potrebbe essere assai arduo, se non altro perché non è più
molto semplice individuare lo stile di vita dominante a cui ci si debba
conformare. Il curry, per esempio, è così comune che le guide turistiche lo
definiscono un autentico cibo britannico. Negli esami del General Certificate of
Secondary Education (GCSE), sostenuti dagli studenti verso i sedici anni, due
delle domande dello scorso anno, sull'argomento “Svago e turismo”, erano: “Oltre
ai ristoranti indiani, nomina un altro tipo di ristorante che offra cibo da
asporto” e “Indica cosa bisogna fare per usufruire del servizio di consegna a
domicilio di un ristorante indiano”. Il Daily Telegraph, commentando l’esame, si
lamentava non dei pregiudizi culturali delle domande, ma del fatto che fossero
così facili, che chiunque in Inghilterra sarebbe riuscito a rispondere anche
senza studi particolari.
Ricordo di aver visto su un giornale londinese, non molto tempo fa, descrivere
la indiscutibile britannicità di una signora con questi termini, “È inglese come
le giunchiglie o il pollo tikka masala”. In questa situazione, l’immigrante sud
asiatico che va in Inghilterra potrebbe sentirsi un po' confuso su quale possa
essere una prova certa di identità britannica, se non fosse per il cortese aiuto
di Tebbit. La questione importante sullo sfondo di questa divagazione frivola è
che in tutto il mondo i contatti culturali stanno producendo comportamenti tanto
ibridi da rendere difficile individuare una cultura locale genuinamente
autoctona, dotata di un'essenza atemporale. Ma, grazie a Tebbit, il compito di
stabilire la britannicità diviene matematico e meravigliosamente facile (quasi
come rispondere alle domande del GCSE che ho citato poco fa).
Recentemente Tebbit ha fatto anche notare che se il suo test del cricket fosse
stato usato, si sarebbero potuti evitare gli attacchi di militanti di origine
pakistana nati in Inghilterra: “Se si fossero messi in atto i miei suggerimenti,
forse non avremmo avuto quegli attacchi.” È difficile non pensare che questa
ipotesi fiduciosa probabilmente sottovaluta la facilità con cui un eventuale
terrorista – appartenente o no ad Al-Qaeda – riuscirebbe a passare il test
facendo il tifo per la squadra inglese di cricket senza per questo cambiare
minimamente il suo comportamento in nessun altro aspetto.
Non so quanto Tebbit sia appassionato di cricket. Se si ama quel gioco, fare il
tifo per una squadra o per l’altra dipende da una quantità di fattori diversi:
lealtà nazionale o identità acquisita, naturalmente, ma anche dalla qualità del
gioco e dall’interesse per una serie di match. Desiderare un certo risultato
spesso dipende da fattori contingenti che non sempre sono collegati alla fedeltà
verso una squadra particolare (l’Inghilterra o qualsiasi altra). Nonostante sia
di origine e nazionalità indiana, devo confessare che a volte ho fatto il tifo
per la squadra di cricket del Pakistan, non solo quando ha giocato contro
l’Inghilterra, ma anche contro l’India. Durante il tour indiano del 2005, la
squadra pakistana perse le prime due delle sei partite, e nel terzo match ho
fatto il tifo per loro, perché il gioco continuasse e si facesse più
interessante. In quell’occasione, il Pakistan giocò molto al di sopra delle mie
speranze e vinse i rimanenti quattro match, sconfiggendo nettamente l’India
quattro a due (un altro esempio dell’”estremismo” pakistano di cui gli indiani
si lamentano tanto!)
Un problema più serio è nell'ovvio argomento che gli ammonimenti contenuti nel
test del cricket di Tebbit non hanno nulla a che fare con i doveri di un
cittadino, come la partecipazione alla vita politica e sociale del paese, o non
costruire bombe. Sono anche molto lontani da ciò che potrebbe essere utile per
condurre una vita integrata nel paese.
Nell’Inghilterra post-imperiale questi punti furono rapidamente compresi e,
nonostante richieste diversive come quella del test di Tebbit, la natura
coinvolgente delle tradizioni politiche e sociali inglesi ha fatto sì che modi
culturali diversi all’interno del paese potessere essere considerati del tutto
accettabili in un’Inghilterra multi-etnica. A dir la verità, molti inglesi
continuano a pensare che questa tendenza storica sia un grosso errore e la loro
disapprovazione è spesso associata al risentimento per il fatto che
l’Inghilterra sia diventata un paese multi-etnico (recentemente ho incontrato a
una fermata d’autobus una di queste persone risentite, che mi ha apostrofato in
questi termini: “Vi conosco tutti”, ma mi ha deluso non volendomi spiegare che
cosa conoscesse). Il peso dell’opinione pubblica inglese, però, si va spostando
decisamente, almeno così era fino a poco fa, nella direzione della tolleranza –
e perfino della celebrazione – della diversità culturale. Tutto questo, e il
ruolo di integrazione svolto dal diritto di voto e da servizi pubblici non
discriminanti, ha contribuito a una pace interrazziale che oggi non esiste in
Francia. Lascia, però, irrisolti alcuni dei principali problemi del
multiculturalismo, che vorrei ora affrontare.
III
Una questione importante riguarda la distinzione tra multiculturalismo e ciò che
si potrebbe chiamare “pluralità di monoculturalismi”. L’esistenza di una
diversità di culture, che si passano accanto come navi nella notte, può
considerarsi un caso di multiculturalismo riuscito? Dato che, sul problema
dell’identità, l’Inghilterra è attualmente divisa tra interazione e isolamento,
la distinzione è di grande importanza (ed è anche collegata al problema del
terrorismo e della violenza).
Prendiamo ad esempio un contrasto culinario, facendo notare subito che la cucina
indiana e quella inglese possono entrambe sostenere a buon diritto di essere
multiculturali. L’India non aveva il chili finché non ve lo portarono i
portoghesi dall’America, ma oggi questa spezie è usata in una grande varietà di
piatti e sembra essere l’ingrediente principale in molti piatti di curry. È
presente in gran quantità in un tipo di vindaloo piccantissimo, e che, come
indica il nome, porta in sé il ricordo degli immigrati di mescolare il vino con
le patate. La cucina tandoori è stata forse perfezionata in India, ma proviene
dall’Asia Occidentale. La polvere di curry, d’altro canto, è un’invenzione
inglese, ed era sconosciuta in India prima di lord Clive e si è evoluta,
immagino, nelle mense dell’esercito inglese. E stiamo ora cominciando a veder
emergere una nuova cucina indiana, offertaci a Londra da sofisticati ristoranti
del subcontinente.
Al contrario, quando si hanno due stili o due tradizioni che coesistono fianco a
fianco senza incontrarsi, si ha la pluralità di monoculturalismi. La difesa del
multiculturalismo che spesso si sente fare in questi giorni è solo una difesa
del monoculturalismo plurale. Una ragazza di una famiglia di immigranti
conservatori che esce con un ragazzo inglese è un caso di iniziativa
multiculturale. Al contrario, il tentativo dei suoi genitori di impedirglielo
(un fatto che accade piuttosto di frequente) non è affatto un gesto
multiculturale, dato che cerca di tenere le culture separate. È però la
proibizione dei genitori, che contribuisce alla pluralità dei muticulturalismi,
a raccogliere le difese più accese dai presunti sostenitori del
multiculturalismo, che la giustificano sostenendo l’importanza di onorare le
culture tradizionali – come se la libertà di scelta della ragazza non avesse
alcuna importanza, e le due culture dovessero rimanere in due scatole separate.
Essere nati in un particolare ambiente sociale non è in sé un esercizio di
libertà culturale, dato che non è una scelta. Al contrario, la decisione di
rimanere all’interno della tradizione sarebbe un esercizio di libertà, se la
scelta fosse fatta prendendo in considerazione delle alternative. Nello stesso
modo, la decisione ponderata di allontanarsi – poco o molto – dal modello
standard di comportamento, sarebbe ancora un esercizio di libertà. La libertà
culturale, in realtà, si scontra di frequente con il conservatorismo culturale,
e la difesa del multiculturalismo in nome della libertà culturale non può essere
vista come un sostegno forte e assoluto nei confronti della tradizione culturale
di origine.
La seconda questione riguarda il fatto che, mentre la religione o l’etnia
possono essere un importante fattore d’identità per le persone (soprattutto
quando sono libere di scegliere se onorare o rifiutare le tradizioni ereditate),
ci sono altre affiliazioni o associazioni che possono avere valore per le
persone. A meno di non definirlo in modo bizzarro, il multiculturalismo non può
ignorare il diritto di una persona a partecipare alla società civile o alla
politica nazionale o a condurre una vita socialmente non conformista. Per quanto
il multiculturalismo sia importante, non può portare automaticamente a dare la
priorità ai dettami della cultura tradizionale a prescindere da tutto il resto.
Le popolazioni del mondo non possono essere viste meramente in termini di
appartenenza a una religione – come una federazione mondiale di religioni. Per
la stessa ragione, un’Inghilterra multi-etnica non può essere vista come una
raccolta di comunità etniche. La concezione “federazionale”, però, è assai
diffusa nell’Inghilterra moderna. In realtà, nonostante l’implicita tirannia del
mettere le persone nelle rigide scatole delle “comunità” precostituite, quella
concezione è spesso tortuosamente interpretata come un’alleata della libertà
individuale. C’è perfino una “visione” molto diffusa del “futuro
dell’Inghilterra multi-etnica” che la vede come “una federazione libera di
culture” tenute insieme da comuni legami di interesse e affetto e da un senso di
collettività.
Ma la relazione di una persona con l’Inghilterra deve essere mediata dalla
cultura della famiglia in cui è nata? Una persona potrebbe decidere di
avvicinarsi a più di una di queste culture predefinite o, altrettanto
plausibilmente, a nessuna. Potrebbe anche decidere che la sua identità etnica o
culturale è meno importante delle sue convinzioni politiche, per esempio, o
degli impegni professionali, o delle opinioni letterarie. È una scelta che tocca
a ciascuno fare, qualunque sia il suo posto in questa strana “federazione di
culture”.
Il multiculturalismo vedrebbe le sue pretese morali e sociali entrare in crisi
se in suo nome si dovesse sostenere l’idea che l’identità di una persona debba
essere definita dalla sua comunità o dalla religione, senza tener conto di tutte
le altre affiliazioni a cui potrebbe appartenere, e dando automaticamente la
precedenza alla religione di origine o alla tradizione rispetto alla riflessione
e alla scelta. Negli ultimi anni, però, questo approccio al multiculturalismo ha
assunto un ruolo predominante in alcuni atteggiamenti politici ufficiali
inglesi.
La politica statale di promuovere nuove “scuole religiose”, create appositamente
per i bambini musulmani, induisti e sikh (in aggiunta alle scuole cristiane già
esistenti), dimostra questo approccio, che non solo è problematico dal punto di
vista educativo, ma incoraggia anche una percezione frammentaria della richiesta
di vivere in un’Inghilterra non segregata. Molte di queste nuove istituzioni
educative stanno nascendo proprio nel momento in cui la priorità data alla
religione è una delle maggiori cause di violenza nel mondo (e si aggiunge alla
storia di violenze simili in Inghilterra, che comprendono le divisioni tra
cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord – esse stesse collegate alla
separazione scolastica). Il primo ministro Tony Blair ha ragione di notare che
“c’è un forte senso dell'etica e dei valori in quelle scuole”. Ma la formazione
non consiste solo nell'immergere i bambini, anche quelli giovanissimi, in un
vecchio ethos ereditato. Significa anche aiutarli a sviluppare la capacità di
ragionare sulle nuove decisioni che tutti gli adulti dovranno prendere.
L'obiettivo da raggiungere non è una qualche parità formale rispetto alle scuole
religiose inglesi, ma trovare il modo di incrementare nei bambini la capacità di
vivere una vita “ragionata”, crescendo in un paese integrato.
IV
L'argomento centrale fu espresso con grande chiarezza molto tempo fa, alla fine
del 1500, da Akbar, l’imperatore indiano, nelle sue osservazioni su fede e
ragione. Akbar, il gran moghul, nacque musulmano e morì musulmano, ma sostenne
sempre che la fede non può avere la precedenza sulla ragione, dato che la
religione che si eredita va riconosciuta – e, se necessario, rifiutata –
attraverso la ragione. Attaccato dai tradizionalisti che erano a favore della
fede istintiva, Akbar disse agli amici e al fidato luogotenente Abul Fazl, un
formidabile studioso con grande competenza su diverse religioni, “La ricerca
della ragione e il rifiuto del tradizionalismo sono così evidenti da non dover
richiedere di essere discusse. Se il tradizionalismo fosse giusto, i profeti
avrebbero semplicemente seguito i loro padri (e non sarebbero stati portatori di
nuovi messaggi)”. Secondo Akbar la ragione doveva avere la supremazia, in quanto
la si doveva usare anche confutarne l'uso.
Deciso ad approfondire seriamente le diverse religioni dell’India, Akbar si
trovò spesso a discutere non solo con studiosi dell’induismo e dell’islamismo
tradizionali dell'epoca, ma anche con cristiani, ebrei, parsi, giainisti, e
perfino con i seguaci di “Carvaka” – una scuola di pensatori atei che si
sviluppò in India nell’arco di duemila anni, a partire dal sesto secolo a.C.
Invece di assumere un atteggiamento assolutista nei confronti della fede, Akbar
amava ragionare sugli aspetti specifici di ogni religione. Discutendo con i
giainisti, per esempio, espresse il suo scetticismo nei confronti dei loro
rituali, ma fu persuaso dalle loro ragioni in favore del vegetarianismo e arrivò
a deplorare l’assunzione di carne in generale. Nonostante l’irritazione che il
suo atteggiamento causava in chi preferiva basare la propria religiosità sulla
fede piuttosto che sulla ragione, rimase fedele a quello che chiamò “il cammino
della ragione,” il rahi agl, e continuò a sostenere la necessita del dialogo e
della libera scelta. Akbar sosteneva che il suo islamismo derivava dal
ragionamento e dalla scelta, non dalla fede cieca o da ciò che chiamava “la
terra paludosa della tradizione.”
C’è, poi, l’altro problema (particolarmente vivo in Inghilterra) di come le
comunità di non-immigrati debbano considerare le richieste di un’istruzione
multiculturale. Si deve lasciare che ogni comunità celebri le sue feste
storiche, senza rispondere alla necessità che i “vecchi inglesi” siano più
consapevoli delle interrelazioni globali nelle origini e nello sviluppo della
civiltà mondiale? Se la cosiddetta scienza o cultura occidentale trae
ispirazione, mettiamo, dalle innovazioni cinesi, dalla matematica indiana e
araba o dall’eredità greco-romana conservata in Medio Oriente (per esempio,
nelle traduzioni in arabo di classici greci dimenticati, ritradotti in latino
dopo molti secoli), non dovrebbe esserci una più ampia riflessione su quel
vigoroso passato interattivo nel programma scolastico dell’Inghilterra
multi-etnica?
Quando oggi un matematico inglese o americano usa un algoritmo per risolvere un
problema di calcolo, implicitamente commemora il matematico musulmano del nono
secolo al-Khwarizmi, dal cui nome deriva il termine “algoritmo”, e dal cui
innovativo libro di matematica in arabo, Al-Jabr wa al-Mugabalah, è nato il
termine “algebra”. Anche se le scuole religiose musulmane non parlano delle
opere non religiose degli intellettuali musulmani, non dovrebbero gli studenti
inglesi – anglosassoni e non – leggere qualcosa sui contributi di tutto il mondo
alle radici della moderna civiltà mondiale? L'allargamento di prospettiva
dell'istruzione è importante non solo in Inghilterra, ma ovunque, compresi gli
Stati Uniti e l'Europa. La storia del mondo non deve arrivare ai bambini (come
spesso capita) solo in forma di ricordi parrocchiali, mescolati ad accenni a una
storia della religione preconfezionata – per non parlare delle vignette
satiriche che si trovano fuori della scuola. Le priorità di una vera educazione
multiculturale possono essere molto diverse dalla segmentazione intellettuale di
una società costituita da una pluralità monoculturale.
Se uno dei problemi concernenti le scuole religiose è costituito dalla natura
dubbia del dare priorità a una fede istintiva anziché ragionata, ve n’è però un
altro di enorme importanza, che riguarda il ruolo della religione nel
classificare le persone soppiantando altri metodi di classificazione. Le
priorità e le azioni delle persone sono influenzate da tutte le loro
affiliazioni e associazioni, non solo dalla religione. La separazione del
Bangladesh dal Pakistan era basata sulla lingua e la letteratura, oltre che su
ragioni di priorità politiche, e non sulla religione, che era la stessa.
Ignorare tutto quel che va oltre la fede significa ignorare la realtà degli
interessi che hanno mosso le persone ad asserire identità che vanno ben oltre la
religione.
La comunità del Bangladesh, per quanto sia numerosa in Inghilterra, nella
contabilità religiosa è assommata a quanti condividono la stessa fede, senza che
le vengano riconosciute altre priorità o caratteristiche culturali . Mentre
questo probabilmente piace ai sacerdoti islamici e ai leader religiosi,
certamente svilisce la ricca cultura di quel paese e le sue diverse identità. In
questo modo viene anche ignorata la storia della formazione del Bangladesh. Si
dà il caso che attualmente sia in corso in Bangladesh una battaglia politica tra
i laici e i loro detrattori (tra cui i fondamentalisti religiosi) e non si
capisce perché la linea politica ufficiale inglese debba essere più in sintonia
con questi ultimi che con i primi.
Bisogna ammettere che il problema non ha avuto origine con i più recenti governi
inglesi. In realtà l’atteggiamento ufficiale britannico ha dato per molti anni
l’impressione di essere incline a vedere i cittadini inglesi e i residenti
originari del subcontinente principalmente in relazione alle loro rispettive
comunità, e ora – dopo la importanza recentemente accordata alla religiosità
(compreso il fondamentalismo) nel mondo – la comunità è definita soprattutto in
termini di fede, piuttosto che tenendo conto di aspetti culturali in senso più
ampio. Il problema non si limita alla scuola, o ai musulmani. La tendenza a
chiedere ai leader induisti o sikh di essere i portavoce della popolazione indù
o sikh è un aspetto della stessa tendenza. Invece di incoraggiare i cittadini
britannici di diverso background a interagire tra di loro in un consesso civile,
e a partecipare alla politica da cittadini, li si invita ad agire “attraverso”
la “loro comunità”.
Gli orizzonti limitati di questo modo di pensare riduzionista influiscono
direttamente sul modo di vivere delle diverse comunità, con effetti
particolarmente gravi sulla vita degli immigranti e delle loro famiglie. Ma
oltre a ciò, il modo in cui i cittadini e i residenti considerano se stessi
influisce anche sulla vita di altri, come hanno mostrato gli eventi cruenti
della scorsa estate in Inghilterra. In primo luogo, la vulnerabilità
all’influenza dell’estremismo settario è assai maggiore quando si cresce e si va
a scuola in un ambiente settario (anche se non necessariamente violento). Il
governo inglese sta cercando di fermare la predicazione all’odio da parte di
alcuni leader religiosi, e fa bene, ma il problema è di portata molto più vasta.
Il punto è se i cittadini con un background di immigrazione debbano vedersi in
primo luogo come membri di una comunità e di una religione specifica, e
considerarsi inglesi solo attraverso questa appartenenza, in una ipotetica
federazione di comunità. Non è difficile capire che questa concezione frazionata
rende una nazione più vulnerabile alla predicazione e alla coltivazione della
violenza settaria.
Tony Blair ha delle buone ragioni per voler “uscire” a discutere del terrore e
della pace “dentro la comunità musulmana,” e (come dice) per voler “entrare
nelle viscere di [quella] comunità”. L'attenzione di Blair per la correttezza e
la giustizia è difficile da negare. Il futuro di un’Inghilterra multi-etnica,
però, deve consistere nel riconoscere, sostenere ed aiutare ad avanzare i molti
modi differenti in cui i cittadini con diverse idee politiche, eredità
linguistiche, priorità sociali (insieme a etnie e religioni diverse) possono
interagire gli uni con gli altri nelle loro diverse vesti, tra cui quella di
cittadini. La società civile ha un ruolo particolarmente importante nella vita
di tutti gli abitanti. La partecipazione degli immigrati in Inghilterra – tra
cui i musulmani – non dovrebbe essere collocata, come accade sempre più spesso,
sotto la voce delle “relazioni con le comunità”, ed essere mediata da leader
religiosi (tra cui i sacerdoti “moderati”, gli imam “miti”, e altri esponenti
ragionevoli delle comunità religiose).
C’è urgente bisogno di ripensare a come viene inteso il multiculturalismo, in
modo da evitare confusioni concettuali sull’identità sociale e in modo anche di
resistere allo sfruttamento intenzionale del principio della divisione che
questa confusione concettuale consente e, in un certo senso, incoraggia. Quel
che va soprattutto evitato (se quest’analisi è corretta) è la confusione tra un
multiculturalismo associato alla libertà culturale da una parte, e un pluralismo
monoculturale associato al separatismo basato sulla fede dall’altra. Una nazione
non può essere vista come un raggruppamento di segmenti isolati, dove ai
cittadini viene assegnato un posto in segmenti predeterminati.
V
C’è un’incredibile analogia tra i problemi che l’Inghilterra affronta oggi e
quelli che aveva l’India Britannica, e che il Mahatma Gandhi pensava fossero
alimentati direttamente dal Raj. Gandhi criticava in particolare la posizione
ufficiale che considerava l’India un assieme di comunità religiose. Quando si
recò a Londra per la Conferenza della “tavola rotonda” indetta dal governo
inglese nel 1931, scoprì di essere stato assegnato a un settore dal nome
rivelatore di “Comitato della struttura federale”. Gandhi si risentì per essere
considerato il portavoce degli indù, in particolare della “casta indù”, mentre
il resto della popolazione veniva rappresentato da delegati, scelti dal primo
ministro inglese, per ciascuna delle “altre comunità”.
Gandhi sostenne che pur essendo egli stesso indù, il movimento politico che
guidava era assolutamente laico, non era basato su una comunità e aveva
sostenitori in tutti i diversi gruppi religiosi dell’India. Consapevole che si
potevano fare delle distinzioni legate alla religione, fece notare che c’erano
altri modi non meno significativi di dividere la popolazione indiana. Gandhi
richiese con forza che i governanti inglesi vedessero la pluralità delle diverse
identità dell'India. Disse, infatti, che voleva parlare non per gli induisti in
particolare, ma per “i milioni di persone mute, sofferenti, semi affamate” che
costituivano oltre l’85 percento della popolazione indiana”, e aggiunse che, con
un po’ più di sforzo, avrebbe potuto parlare anche per gli altri, “i principi...
la nobiltà terriera, la classe istruita”.
Il sesso, come fece notare Gandhi, era un’altra importante distinzione ignorata
dalle categorie britanniche, che non dedicavano quindi uno spazio adeguato ai
problemi delle donne indiane. Disse al primo ministro inglese: “Riguardo alle
donne, lei ha totalmente rifiutato che fossero rappresentate in quanto tali”, e
continuò facendogli notare che “esse costituiscono la metà della popolazione
indiana”. Sarojini Naidu, che andò con Gandhi alla Conferenza della tavola
rotonda, era il solo delegato donna presente. Gandhi menzionò il fatto che era
stata eletta presidente del partito del congresso, di gran lunga il principale
partito politico dell’India (questo accadeva nel 1925, esattamente cinquant’anni
prima che in Inghilterra una donna fosse eletta a presiedere uno dei maggiori
partiti politici). Sarojini Naidu poté parlare per metà della popolazione
indiana, cioè per le donne indiane, secondo il modo di pensare “rappresentativo”
del Raj; e Abdul Qaiym, un altro delegato, fece notare che Naidu, che definì
“l’usignolo dell’India,” era anche l’unica illustre poetessa del congresso,
rivestiva quindi anche un’altra identità oltre a quella di esponente politico
indù.
In un incontro organizzato presso il Royal Institute of International Affairs
durante la sua visita, Gandhi ribatté di voler cercare di resistere alla
“vivisezione di un’intera nazione”. Alla fine, naturalmente, non ebbe successo
nel tentativo di “rimanere tutti assieme”, anche se è risaputo che voleva dare
più tempo ai negoziati per impedire la divisione del 1947, che i restanti leader
del Congresso trovavano accettabile. Gandhi sarebbe stato molto addolorato dalle
violenze del 2002, scatenate da leader induisti contro i musulmani proprio nel
suo stato di Gujarat. Ma sarebbe stato sollevato dalla condanna generale che
quelle barbarie ricevettero dalla maggioranza della popolazione indiana,
condanna che contribuì alla pesante sconfitta dei partiti coinvolti nelle
violenze in Gujarat, nelle successive elezioni generali indiane del maggio 2004.
Gandhi sarebbe stato anche confortato dal fatto, non lontano dalle idee da lui
espresse alla Conferenza della tavola rotonda del 1931 a Londra, che l’India,
con più dell’80 percento di popolazione induista, sia oggi governata da un primo
ministro sikh (Manmohan Singh) e guidata da un presidente musulmano (Abdul Kalam),
e che il partito di governo (il partito del congresso) sia presieduto da una
donna di origini cristiane (Sonia Gandhi). Questa mescolanza di comunità è
verificabile in molti aspetti della vita indiana, dalla letteratura al cinema,
agli affari, allo sport, e la cosa non viene considerata strana. Non solo è
significativo il fatto che l’uomo d’affari più ricco (in realtà la persona più
ricca in assoluto) dell’India, Azim Premji, sia musulmano, come la star
internazionale del tennis femminile Sania Mirza e i capitani della squadra
indiana di cricket Pataudi e Azharuddin, ma è anche significativo che siano
tutti visti semplicemente come indiani, non come indiani musulmani.
Durante il recente dibattito parlamentare sull'inchiesta riguardante le
uccisioni dei sikh avvenute immediatamente dopo l’assassinio di Indira Gandhi da
parte della sua guardia del corpo sikh, il primo ministro indiano, Manmohan
Singh, ha dichiarato al parlamento, “Non ho alcuna esitazione a scusarmi non
solo nei confronti della comunità sikh, ma di tutta la nazione indiana, perché
quel che è avvenuto nel 1984 è la negazione del concetto di nazione e di ciò che
è scritto nella nostra costituzione.” In queste scuse emergono chiaramente le
diverse identità di Singh: primo ministro dell’India e leader del partito del
congresso, membro della comunità sikh (con il suo perenne turbante blu), e
cittadino della nazione indiana. Tutto ciò creerebbe confusione se le persone
dovessero essere viste con l'idea che ognuno abbia una sola identità, mentre la
molteplicità delle identità e dei ruoli rappresenta bene il fondamentale
concetto esposto da Gandhi alla conferenza di Londra.
È stato scritto molto sul fatto che l’India, che ha il più alto numero di
musulmani di quasi tutti i paesi a predominanza musulmana del mondo (e con più
di 145 milioni di musulmani, quasi quanto il Pakistan), abbia prodotto
pochissimi terroristi che agiscono in nome dell’Islam, e quasi nessuno legato ad
Al-Qaeda. Questo è dovuto a varie ragioni, tra cui l’influenza di un’economia
integrata e in crescita. Ma una parte del merito va anche alla natura della
politica democratica indiana e al fatto che l’India ha accettato l’idea,
sostenuta da Gandhi, che molte sono le identità, oltre a quella religiosa,
significative per capire se stessi e per le relazioni tra cittadini di
background diversi all’interno del paese.
Riconosco che sia un po’ imbarazzante per me, che sono indiano, sostenere che,
grazie alla guida del Mahatma Gandhi e di altri (tra cui la lucida analisi
dell’”idea di India” di Rabindranath Tagore, il più grande poeta indiano, che
descrisse il background della sua famiglia come “una confluenza di tre culture,
induista, maomettana e britannica”), l’India è riuscita in buona misura a
evitare il terrorismo indigeno legato all’Islam, che minaccia molti paesi
occidentali, tra cui l’Inghilterra. Ma quando Gandhi domandò: “Immaginate
l’intera nazione vivisezionata e ridotta in pezzi; come si può farla diventare
una nazione?” esprimeva un problema generale, non solo indiano.
Quella domanda era motivata dalla grande preoccupazione che Gandhi nutriva nei
confronti del futuro dell’India. Ma il problema non è solo indiano. Si presenta
anche in altre nazioni, tra cui il paese che ha governato l’India fino al 1947.
Le disastrose conseguenze che derivano dal definire le persone secondo
l’appartenenza a una religione e che danno la precedenza a un’identità basata
sulla comunità rispetto a tutte le altre, visione che Gandhi pensava fosse
sostenuta dai governanti inglesi dell’India, forse ora ricadono sul paese cui
appartenevano quei governanti.
Nella Conferenza della tavola rotonda del 1931, Gandhi non riuscì a imporre la
sua idea, e le sue opinioni contrarie furono registrate solo brevemente, senza
che ne venissero specificate le motivazioni. In una cortese nota critica al
primo ministro inglese, Gandhi osservò, “Nella maggior parte di questi resoconti
scoprirà che c'è un'opinione contraria, e quasi sempre, sfortunatamente, essa
appartiene a me.” Il lungimirante rifiuto di Gandhi di vedere la nazione come
una federazione di religioni e di comunità, però, non “apparteneva” solo a lui o
all’India laica che guidava. Appartiene anche a tutti i paesi del mondo disposti
a prendere in considerazione i gravi problemi che Gandhi ha sollevato.
© Amartya Sen 2006