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«Il premier fermi la
strategia della tensione
Sì al dialogo sul presidente della Repubblica»
D'Alema:
no alla grande coalizione. Se lo scontro paralizza le istituzioni si tornerà a
votare
La guida di una delle Camere alla Cdl?
Non è la premessa ma la conseguenza di una comune assunzione di responsabilità
In campagna elettorale abbiamo sottovalutato l'offensiva di Berlusconi Sulla
questione fiscale siamo apparsi incerti alimentando i dubbi
Marco Cianca
ROMA — Mercoledì pomeriggio aveva detto al cronista: «Né guerre di religione né
inciuci. È essenziale che ci siano il dialogo e una comune assunzione di
responsabilità. Non stiamo ballando il valzer ma parliamo dei destini
dell'Italia. Ci misureremo. Se questo discorso è serio lo vedremo nei mesi che
verranno. Siamo tutti chiamati alla prova dei fatti». Poi, in serata, la nuova
offensiva di Silvio Berlusconi contro la regolarità del voto. E così Massimo D'Alema,
57 anni, presidente dei Ds, ha preferito fermare l'intervista nella quale
rispondeva no alla grande coalizione proposta dal premier ma invitava al
confronto per la scelta del presidente della Repubblica. Ha voluto aspettare,
riflettere. È preoccupato ma non demorde sulla necessità del dialogo. Ed
esordisce con una sorta di appello.
«Voglio invitare il presidente del Consiglio ad abbassare i toni e a fermarsi in
questa che appare come una vera e propria strategia della tensione, una
delegittimazione della vittoria elettorale che inasprisce lo scontro. Noi
abbiamo piena fiducia nei confronti dei magistrati delle corti di appello che
hanno sempre fatto con scrupolo le verifiche che ora si presentano più semplici
che nel passato perché il numero delle schede contestate è assai più basso di
quanto sia mai avvenuto».
Ritiene che in questo accenno di Berlusconi ai magistrati ci sia un nuovo
terreno di polemica? Come dire: a controllare i voti ci sono le toghe rosse.
«Trovo che alternare l'accusa di brogli, gravissima e priva di qualsiasi
riscontro, all'offerta di grande coalizione denoti una enorme confusione e renda
più preoccupante questo finale di partita».
Confusione? Non pensa che sia una strategia?
«No, sarebbe una strategia folle e non credo che Berlusconi sia folle. Certo, si
può capire la rabbia di uno che ha visto svanire la vittoria per pochi voti.
Dovrebbe riflettere sull'assurdità e pericolosità di questa legge elettorale. Si
tratta di un finto proporzionale che in realtà è il più brutale dei sistemi
maggioritari. Le elezioni sono state trasformate in un plebiscito mediatico».
Ma proprio questa legge vi ha fatto vincere.
«Non è vero, si tratta di una sciocchezza. Nessuno è in grado di prevedere quali
sarebbero stati gli esiti con l'uninominale maggioritario nei collegi».
Voi mettete la mano sul fuoco che il risultato del voto è corretto?
«Lo dicono il capo dello Stato e il ministro degli Interni. Non c'è riscontro di
brogli. Parliamo dell'Italia, un Paese democratico, non della Bielorussia».
Questa ombra del sospetto evocata da Berlusconi condizionerà tutta la
legislatura?
«Sarebbe totalmente irresponsabile. Spero che una volta che i risultati siano
stati proclamati dagli organi istituzionali, Berlusconi telefonerà a Prodi
riconoscendo la sconfitta».
Pensa che la totale chiusura sulla proposta di una grande coalizione alimenti
quest'acuirsi della contrapposizione?
«Questo è un sospetto etico su Berlusconi al quale mi rifiuto di aderire. Fare
questa ipotesi equivarrebbe a considerarlo un ricattatore».
Ma una larga intesa è proprio impossibile?
«Abbiamo avuto uno scontro programmatico radicale e un'intesa ora sarebbe
incomprensibile da parte dei cittadini. Aumenterebbero la sfiducia, il
qualunquismo e il discredito verso la politica. Non può esserci un colpo di
scena, un coniglio estratto dal cilindro».
L'offerta della presidenza di uno dei due rami del Parlamento non aiuterebbe il
processo di riconciliazione?
«Il fatto che l'opposizione possa avere, cosa del tutto anomala, la presidenza
di una delle due Camere non è la premessa di una comune assunzione di
responsabilità ma la conseguenza. E questo può accadere in un clima politico in
cui ci sia l'impegno comune a garantire il funzionamento delle istituzioni e il
diritto a governare di chi ha la maggioranza. Dovrebbe esserci un mutamento di
scenario per poter aprire una discussione di questo tipo. Altrimenti non è
credibile e non è possibile. Non possiamo ridurre la politica ad un mercato
delle poltrone».
Ma se ci fosse il mutamento di scenario? Se Berlusconi abbassa i toni e
riconosce la vostra vittoria?
«Penso che a quel punto potrebbe essere aperto un dialogo. Ma non credo ai colpi
di scena».
Non potreste fare voi il primo passo, magari offrendo la presidenza del Senato a
personalità come Giuseppe Pisanu o Marco Follini?
«Ma questo è roba da angiporto! Non siamo ai mercati generali. Lasciamo stare,
se no i cittadini ci corrono dietro. Dobbiamo costruire una normalità
democratica, e cioè il bipolarismo tra due coalizioni che si rispettano, che non
si demonizzano e che si riconoscono in un quadro di regole condivise. Non si
risolve adesso, in quindici giorni, con una telefonata a Pisanu o a Follini.
Abbiamo di fronte scogli enormi. A giugno, per esempio, c'è il referendum sulla
nuova Costituzione. Io spero che venga cancellato questo aborto. Ma il
centrodestra che fa? Difende la Costituzione di Calderoli o favorisce il ritorno
a quella di Calamandrei?».
Prima c'è l'elezione del capo dello Stato.
«Qui dobbiamo cercare il massimo di convergenza possibile. Nel '99 avevamo la
maggioranza in Parlamento. E forse, dal punto di vista degli equilibri del
governo di allora, sarebbe stato conveniente affrontare diversamente il tema
dell'elezione del capo dello Stato. Ma io, che ero presidente del Consiglio,
andai al dialogo con Berlusconi perché ci fosse una convergenza sul nome di
Carlo Azeglio Ciampi. Credo di aver fatto il bene del Paese. E penso persino che
se in questi anni Berlusconi ha potuto governare senza avere un conflitto
drammatico con la presidenza della Repubblica lo deve a questa scelta».
E allora l'elezione del presidente della Repubblica può essere il fonte
battesimale di un nuovo dialogo?
«Il centrosinistra deve ricercare il confronto più aperto. Quando noi diciamo
metodo Ciampi ci riferiamo ad una cosa concreta».
Un modo per pacificare?
«Negli anni Cinquanta il Paese era aspramente diviso ma le classi dirigenti
avevano un fortissimo senso della comune responsabilità. Accadeva che nelle
piazze c'erano scontri sanguinosi ma Mario Scelba e Pietro Secchia si
telefonavano per evitare che si precipitasse in una guerra civile. Oggi è il
contrario. Il clima da guerra civile non è nel Paese ma nella classe politica»
Non ci sono le due Italie?
«Ce ne sono molte di più. La divisione attraversa i campi sociali e investe la
sensibilità civile e culturale. Quanti milioni di elettori non leggono i
giornali? Tra questi mondi c'è una forte differenza. Penso ad una similitudine
con gli Stati Uniti dove si aveva la percezione che i democratici fossero i
vincitori assoluti. Poi è venuta fuori un'America profonda che invece ha votato
Bush. In Italia Berlusconi ha saputo evocare questa paura della sinistra
agitando un pericolo per i ceti medi e per i valori tradizionali. È stato un
grande combattente, bisogna dargli atto. Noi abbiamo sottovalutato questa
offensiva e non ci siamo impegnati abbastanza per contrastarla. Sulla questione
fiscale siamo apparsi incerti, abbiamo alimentato i dubbi. Ci volevano maggiore
tempestività e chiarezza. Ora il governo deve lanciare dei segnali di
rassicurazione. Le paure sono largamente immotivate. Non intendiamo né
scardinare la famiglia né aumentare le tasse né scontrarci con la Chiesa».
Ma è già partito il fuoco di fila contro il dialogo con il premier uscente.
Micromega titola: mai più Berlusconi, mai più inciucio. Riprende la
demonizzazione?
«Mi hanno accusato per cinque anni di aver barattato la legge sul conflitto di
interessi per la bicamerale. È gente che non ha nemmeno sfogliato gli atti
parlamentari. Opposti estremismi, Berlusconi da una parte, loro dall'altra. Sono
campagne prive di verità, basate sul sospetto. Forme di linciaggio. Se tu hai
un'opinione diversa sei un traditore, ti sei venduto l'anima. È il peggio della
tradizione comunista degli anni Trenta. Io sono un uomo di sinistra ragionevole
che cerca di impegnarsi per il bene del Paese».
D'Alema presidente della Camera o ministro degli Esteri?
«O anche D'Alema nulla. Non sono uno che cerca incarichi o fa i capricci per
averli. Bisogna capire quel che è più utile in una coalizione complessa come la
nostra».
Sarebbe quindi pronto a fare un passo indietro per lasciare la presidenza della
Camera a Fausto Bertinotti?
«Non ho mai fatto un passo avanti».
Ma ritiene che il segretario di Rifondazione sarebbe un buon presidente?
«È un'ottima persona, garante dei diritti di tutti».
I Ds hanno comunque avuto un risultato deludente.
«In questi anni abbiamo dedicato il nostro impegno a costruire l'Ulivo. Con
Fassino ci siamo candidati sotto quel simbolo. Io concludevo i comizi dicendo:
alla Camera votate la lista unitaria, al Senato i Ds o la Margherita. È questa
la nostra prospettiva strategica che è stata premiata dagli elettori e
soprattutto dai giovani. C'è una generazione nuova, la generazione dell'Ulivo,
sulla quale l'appello dell'anticomunismo e dei fantasmi del passato non
funziona. Dirò di più. Per molto tempo ci siamo attardati a dibattere sul
rischio che l'Ulivo avrebbe comportato un rafforzamento della sinistra radicale.
Così non è stato. Oggi noi abbiamo il dovere di aprire il cantiere del partito
democratico».
Intende dire che Ds è un involucro che state già abbandonando?
«Intendo dire, anche se la mia è solo una proposta, che vanno fatti subito i
gruppi unici sia alla Camera sia al Senato. E dopo l'autunno va avviata la fase
congressuale dei Ds per avere il mandato alla costituzione del partito
democratico. Che non è una somma di burocrazie ma un processo aperto alla
società civile e alla cultura».
Porte aperte anche alla Rosa nel Pugno?
«Aperte a tutta l'area socialista, che fu parte fondativa di questo progetto. Mi
pare che la Rosa nel Pugno fosse solo un cartello elettorale».
È vero che lei vorrebbe Piero Fassino al governo mettendo Pierluigi Bersani al
suo posto?
«Sono falsità. Io non posso volere niente perché è il congresso che elegge il
segretario, non lo nomina D'Alema. Fassino ha svolto e svolge con passione e
sacrificio un compito prezioso. Deve essere lui innanzitutto a dire quello che
vuole fare. Tutti noi dobbiamo porci il problema di come disporre le nostre
forze di fronte alla fase costituente del partito democratico e alla necessità
di favorire un ricambio generazionale. Vorrei uscire dal pettegolezzo del
complotto».
Ma mentre fate tutto questo, la talpa della grande coalizione può continuare a
scavare. Non rischiate cioè di vivere ogni giorno con l'incubo che un senatore
vi faccia mancare la maggioranza perché sta a casa con il mal di pancia?
«Noi dobbiamo muoverci su tre grandi direttrici. Costruire l'Ulivo, governare
per rimettere in moto tutto il Paese, ricercare il dialogo con l'opposizione per
garantire il funzionamento delle istituzioni. Nelle grandi democrazie europee
quando un governo ha un voto di scarto, se un deputato della maggioranza si
sente male l'opposizione ne fa uscire uno dei suoi. Così funziona la democrazia.
La talpa può scavare ma è cieca e rischia di fare danni. Bisogna sapere che se
c'è uno scontro frontale che punta a paralizzare le istituzioni, allora non c'è
la grande coalizione ma ci sono nuove elezioni».