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La Stampa 23 aprile 2006
Picchiate D'Alema
Lucia Annunziata
 

Quante volte l’ostaggio dovrà essere scuoiato perché il popolo possa sentirsi sazio? D’Alema ha di nuovo assolto in questi giorni al ruolo che meno ha cercato e che più gli è rimasto attaccato addosso, quello dell’«uomo che tutti amano odiare». Picchiate D’Alema e vi andrà sempre bene, picchiate D’Alema e vi farete sempre amici, picchiate D’Alema e vi sarà passato gratis. C’è qualcosa di comico ormai nella passione con cui a sinistra si ama sparare sul presidente Ds. Sport prediletto perché, appunto, finora è sempre stato gratis: per essere infatti nell’immaginario collettivo della politica di una buona parte della sinistra il Belzebù andreottiano sotto nuove spoglie, questo Diavolo alla fine sembra aver più pagato che guadagnato.

La biografia politica di Massimo D’Alema, una delle menti più brillanti della nostra politica – secondo opinione condivisa anche dai suoi nemici - è una paradossale ruota della fortuna alla rovescia. Nato con il marchio di coloro che avranno un grande destino, in nome di questo suo futuro ha sempre pagato prezzi più alti del destino che avrebbe dovuto avere Intorno a lui c’è da sempre infatti l’aura del sospetto. Chi lo conosce ricorda ancora il titolo che il quotidiano di Eugenio Scalfari, La Repubblica, dedicò alla sua nomina a segretario dell’allora Pds : «Il pugno del partito». E le stesse persone ricordano anche l’ostilità con cui una parte della sinistra aveva accolto, anni prima, la sua nomina a segretario della Fgci nel 1975.

Intorno a lui c’è sempre stata una area di complotto, di manovrismo, di cinismo, cattivismo: nel caso della Fgci, la sua elezione passò per la cancellazione di Achille Occhetto; nel caso della sua nomina al partito, per la sconfitta di Walter Veltroni. Veltroni era l’uomo nuovo, lui il funzionario simil-sovietico, come diceva Repubblica. E poco importa se il segretario eletto, del passato ereditava solo un mare di debiti, una storica sconfitta, il disorientamento del post comunismo, e una sede, quella di Botteghe Oscure in cui, nella prima estate della sua segreteria, non usarono l’aria condizionata per risparmiare sulle bollette dell’elettricità. A quel partito senza nemmeno i soldi per l’elettricità D’Alema portò una strepitosa rinascita – ma agli occhi di una certa sinistra nemmeno questo successo gli conquistò simpatie.

Anzi, la caduta di Berlusconi con il ribaltone Dini, che pur permise alla sinistra di vincere dopo pochi mesi, fu presa solo come ulteriore prova del «politicismo», del cinismo politico, che caratterizzava D’Alema. Né la vittoria del 1996 gli fu davvero riconosciuta: la notte della vittoria venne lasciato a Botteghe Oscure, senza invito a Piazza Santi Apostoli. Su quel palco ci salì alle 2,30 del mattino, con la moglie, davanti a un migliaio di militanti che lo avevano atteso. Uomo di intrighi, compromessi, uomo di cui non fidarsi, diceva il ceto politico e giornalistico: la Bicamerale, prima, e la caduta di Prodi dopo, e infine la sua breve presenza a Palazzo Chigi, con i suoi Lothar, la sua Merchant Bank senza l’inglese, la sua ingerenza negli affari del Paese simbolizzati tutti nella vicenda Telekom, e infine il consenso alla guerra in Kosovo.

Prove su prove, su prove della sua diabolicità, se non addirittura, della sua «corruzione» morale. Il fatto che non si siano mai trovate prove reali di questa «corruzione» è ormai secondario – la stecca Telecom dopotutto è una bella immagine, perché sottrarcela? E che il clima politico del nostro Paese sia denso di trame, tradimenti, e ciniche ambizioni, perché ricordarlo? La politica della sinistra da sempre (e non solo in Italia) è costruita intorno al nemico esterno e quello interno: Berlusconi ha fornito il gas necessario a una sinistra sbandata da anni come nemico esterno e D’Alema è stata la sua perfetta controparte. Se un errore terribile e irreversibile D’Alema ha fatto è stato quello di sottovalutare la estrema ideologizzazione del centro sinistra, la impossibilità di farlo uscire dalle banalità dei ruoli, e rivedere davvero i propri dogmi.

Di cui uno dei principali è quella tragica farsa che porta a giurare lotta dura a parole, e a fare accordi sottobanco. D’Alema ha sempre invece preteso di fare accordi sul banco. Povero lui. Di certo errori l’uomo/politico D’Alema ne ha fatti: il suo maggiore, quello di non arrivare a Palazzo Chigi con un voto. Ma lo sforzo con cui si è impegnato a riconoscerlo non gli è valso il perdono. Né le dimissioni, né il sottoporsi a fischi e processi sommari nelle aule universitarie e nelle piazze da parte della sinistra radicale, e nemmeno la verifica del suo conto in banca. La sua intervista subito dopo il voto, sul dialogo necessario con la destra per eleggere il nuovo presidente, non ha detto molto di diverso da quello che avevano detto nelle stesse ore Fassino e altri leader: ma la sua ha fatto sballare una parte della sinistra che subito ha gridato «Ecco di nuovo l’inciucio!».

Facile, insomma, scritto nel destino, fucilarlo alla presidenza delle Camera – e lasciare tutti contenti. Le buone coscienze della sinistra hanno affrontato questo weekend con cuori più leggeri: se uccidiamo D’Alema vuol dire che le cose vanno bene, che in fondo siamo sempre noi i buoni. Bene. Brindisi. Allegria. Se non fosse che D’Alema è anche depositario di una forza che solo una illusione può fare immaginare di non tener conto. E’ questo, forse, il punto che i nemici di D’Alema (dentro e fuori la sinistra) continuano ad aver meno chiaro. E che invece Piero Fassino conosce molto bene. C’è una zona in Italia di partito/elettori che in D’Alema si riconosce in maniera istintiva.

Come lui, questa area si è fatta le ossa dopo-il–muro, quando tutto andava a remengo, e altro non c’era che lavorare. E’ un gruppo sociale magari non figo, non presenzialista, ma efficiente: quello che cerca soluzioni, che ha la testa a posto, e che ha ridotto al minimo la «fuffa» della sua scelta. E’, se è possibile dire, «la maggioranza silenziosa della sinistra» (quel 17,50 per cento), che in D’Alema ancora vede il destino insieme grande e misero degli ex-comunisti. Non i post comunisti, o i «non sono mai stato comunista». Proprio così: gli ex-comunisti, del tutto ex, ma anche orgogliosi di esserlo stato. E se addosso a D’Alema si può andare gratis, è improbabile che gratis sia invece lo sfregio fatto a questa area politica.