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    LA NUOVA RINUNCIA DI D’ALEMA DOPO IL VIA LIBERA A BERTINOTTI ALLA CAMERA

    Massimo, il secondo passo indietro
    di un combattente


    personaggio
    FABRIZIO RONDOLINO

    Un pomeriggio di primavera di molti anni fa - doveva essere il marzo o l'aprile del 1989 - il direttore dell'Unità passeggiava con un suo redattore per le strade di San Lorenzo, storico quartiere rosso di Roma dove aveva anche sede la federazione romana del partito. Il Muro di Berlino era ancora in piedi, e così l'alleanza fra Craxi, Andreotti e Forlani. Il Pci aveva da poco eletto Occhetto alla segreteria, pensionando l'anziano Natta: l'architetto e lo stratega dell'operazione, in nome del rinnovamento generazionale, era stato Massimo D'Alema, il più bravo fra i quarantenni del Bottegone nonché, come si saprà soltanto più tardi, l'erede designato da Berlinguer per succedergli alla guida del partito. Anziché diventare segretario, D'Alema fu invece spedito da Occhetto a dirigere l'Unità. Quel pomeriggio, passeggiando per San Lorenzo, si chiedeva se non fosse il caso di abbandonare l'attività politica, di dedicarsi ad altro, e insomma di cambiare mestiere. La vita infatti è più grande della politica; e la rinuncia, prima che una strategia, può essere un modo di guardare alle cose del mondo.

    D'Alema ha dunque compiuto il suo secondo «passo indietro», dopo quello che ha aperto a Bertinotti la presidenza della Camera (e dopo aver lasciato sette anni fa Palazzo Chigi senza che nessuno glielo chiedesse). Accusato da sempre di essere freddo, glaciale, implacabile e presuntuoso, D'Alema da sempre paga il prezzo di una sorta di pudore intellettuale, che gli vieta di usare i trucchi e le scorciatoie così diffusi tra i suoi colleghi che vogliono piacere a tutti i costi. Viene così scambiato per superbia ciò che è invece un profondo rispetto per l'intelligenza dell'interlocutore: che D'Alema ritiene di poter convincere - e non importa se si tratta del pescatore di Gallipoli o di Silvio Berlusconi - con il solo ragionamento, con la retorica e con la persuasione, e non con le smancerie, le battute e i sorrisoni che accompagnano di solito la raccolta del consenso. Come ogni intellettuale, D'Alema riserva alla sfera dell'interiorità le passioni più violente come le più intime; ed è proprio la ricchezza interiore, non l'indubbio professionismo, a dare al personaggio quella «marcia in più» che sovente sorprende - e che qualche volta assume l'aspetto di una marcia indietro.

    Amore per l’Odissea
    Quando dunque nel bel mezzo della battaglia per il Quirinale D'Alema dichiara di starsene tranquillo a «leggere un libro su Omero», dietro l'indubbia vezzosità della dichiarazione c'è anche il disvelamento di una passione autentica. L'amore per l'Odissea è parte integrante (e forse originaria) della passione per il mare e per la vela, ed è una possibile chiave d'accesso al personaggio. L'Odissea è il racconto di un ritorno e di un'attesa, è una storia di astuzia e di tenacia ed è anche, e forse soprattutto, una grande storia d'amore - dove l'amore vero, proprio come la grande politica, è costruzione quotidiana, progetto, durata.

    Nella vita di D'Alema le donne hanno una centralità assoluta e indiscussa. Dalla nonna paterna, maestra elementare (pare) di grande severità e rigore, alla madre, presto soprannominata dai figli «il Generale»; dalla moglie Linda Giuva alla figlia Giulia, che si dice abbia sul padre un potere assoluto: le donne di D'Alema non sono soltanto intelligenti, o indipendenti, o in carriera: esprimono prima di tutto un principio di autorità, di coesione e di sicurezza al cui interno si costruisce lo spazio della famiglia - che per D'Alema, in questo assai meridionale, è comunità indistruttibile e sacrario inviolabile.

    Il pensiero Taoista
    C'è dunque un forte elemento femminile, che per dir così controbilancia il forte «maschilismo» della tradizione comunista. E forse è per questo che D'Alema apprezza il pensiero taoista, il cui cuore è una concezione duale (e dunque complessa, non lineare) della realtà. Anche il pragmatismo di D'Alema ha forse una radice nel pensiero cinese, e segnatamente nell'Arte della guerra. Sun Tzu, secondo cui «sconfiggere il nemico senza combattere è la massima abilità», insegna come al centro della strategia ci sia il posizionamento. L'abilità consiste nel trovare il luogo e il tempo giusto in cui collocarsi; poi, accada quel che deve accadere.

    E' in questa cornice, ancorché simbolica e un poco immaginifica, che va collocato il problema del potere, della sua conquista, della sua gestione e del suo abbandono. D'Alema ha una visione, di nuovo, fortemente intellettuale, insieme illuminista e fatalista. L'istinto combattente del giovane campione di Risiko! che ascende rapidamente nella nomenklatura del Pci si è stemperato nel corso degli anni in una qualche forma di rassegnazione. Difficilmente oggi D'Alema si farebbe rimproverare da Berlinguer, come gli accadde quando, in coppia con Andreotti, sistematicamente batteva a scopone scientifico l'allora presidente Pertini durante il volo che portava i quattro ai funerali di Andropov. Oggi probabilmente lascerebbe vincere il Presidente. Il potere è forma, simbolo, rito; è auctoritas (o, gramscianamente, egemonia) e non imposizione o rapina.

    Teoria e pratica
    Naturalmente, molto spesso la realtà si discosta dai suoi modelli teorici, tanto più se raffinati, e dunque a D'Alema è capitato sovente di passare per (o di essere effettivamente) il guastatore, il giocatore d'azzardo, il «mercante fenicio» (come una volta lo definì l'Avvocato, che per altro lo stimava non poco) o, più semplicemente, il perdente. Più vera è invece una certa ingenuità (ne ha parlato anche la madre proprio ieri su queste colonne), che a volte rasenta la sprovvedutezza e che ricorda, con le debite proporzioni, l'aneddoto su Talete che cade in una buca guardando le stelle. La risata della servetta trace che accompagna il tonfo del filosofo somiglia del resto alla mediocre malizia con cui avversari e antipatizzanti - molti, moltissimi: come capita ad ogni personalità forte - assistono compiaciuti ai suoi fallimenti, non importa se veri o immaginari. Come diceva il presidente Mao citando un generale taoista, «il nemico si accampa, noi lo tormentiamo; il nemico è stanco, noi lo attacchiamo; il nemico si ritira, noi lo seguiamo; il nemico avanza, noi ci ritiriamo».