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Fassino: "Come
si sostituisce alla 'guerra preventiva' la 'politica preventiva'"
di Federico Geremicca
L’invito del
presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, era stato garbato nella forma
ma inequivoco nella sostanza. In un'intervista pubblicata ieri da La Stampa,
aveva affermato: “Penso di poter chiedere a Fassino e a RuteIli, ai riformisti
del centrosinistra, di aver meno timidezza nell'affrontare il tema della libertà
e delle democrazie nelle aree del mondo in cui mancano”. Di più: chiedeva che
venisse riconosciuto che all'origine dei fermenti democratici in atto in diversi
paesi, arabi e non, c'è anche - in qualche modo - quella che definisce “una
sorta di intolleranza” dell'amministrazione Bush e di parte dell'Europa verso
dittature che hanno goduto di indifferenza e silenziose complicità. Chiamato in
causa, Piero Fassino, leader dei Ds, non mostra – in verità – alcuna timidezza:
e dopo le novità di analisi introdotte all'ultimo Congresso, compie un altro
piccolo “strappo”. Spiega Fassino: “Quando Bush dice "io mi batto perché nei
paesi arabi ci sia libertà e democrazia", manifesta un atteggiamento molto
diverso da quello tradizionale dei repubblicani americani che con Kissinger, in
nome del realismo politico,
negli anni 80 sostenevano le dittature militari e fasciste in Sud America. C'è
un rovesciamento”. E non basta. Perché anche sul rapporto tra Europa e regimi
islamici, sulla Cuba della buona sanità e delle carcerazioni, sviluppa un
ragionamento innovativo e coraggioso. Lo fa nel giorno in cui a Roma la sinistra
radicale torna in piazza contro la guerra e gli Usa: e anche questo potrebbe
contribuire ad aprire una nuova e salutare polemica nel pentolone in ebollizione
della sinistra italiana.
Onorevole Fassino, come risponde all'invito rivolto al centrosinistra dal
presidente Casini?
“Vorrei dire in premessa che il tema che Casini pone non riguarda solo la
sinistra. Riguarda tutti. E la questione, a dirla in due parole, è: la
necessità, in un mondo caratterizzato da un grado di interdipendenza sempre più
alto, di battersi perché democrazia, diritti e libertà siano anch’essi valori
affermati ovunque. Non si può pensare che la globalizzazione investa soltanto la
sfera economica e non anche quella politica. E' un grande tema: e cioè, come si
costruisce una strategia capace di dare al pianeta quell'ordine democratico che
non ha”.
Non
è questione di oggi, in verità ...
“Si, ma oggi la contraddizione si è fatta insostenibile, perché viviamo in un
mondo globale in tutto, dalla produzione all'informazione, ma non nella
sovranità politica. Ci misuriamo ormai ogni giorno con processi globali che di
fatto non sono più governabili dai singoli Stati e dalla loro sovranità. In
fondo, perfino la vicenda della Cina e il dibattito sui dazi ci pone questo
problema. Quando si evocano i dazi, si fa riferimento a uno strumento puramente
difensivo e per questo non praticabile: e allora perché viene invocato? Perché
non ci sono altri mezzi che per ora appaiano in grado di governare il pianeta”.
E'
certamente cosi, ma qual è il nesso con la questione posta al centrosinistra del
presidente Casini?
“A me pare evidente. C'è un grande tema di fronte a noi e riguarda, in qualche
modo, anche 1a guerra in Iraq: c'è bisogno di un ordine nuovo e di un luogo di
governo democratico del mondo che ancora non c'è e per il quale bisogna
battersi. La vicenda irachena, se vuole, è la prova che non è la guerra, da
sola, la soluzione di questo problema, perché non è immaginabile che ogni crisi
si affronti con le armi. In più, nessun paese – da solo – può risolvere le
questioni di cui parliamo: perché sempre l'Iraq dimostra che gli Stati Uniti, da
soli, hanno grandi difficoltà a dare un ordine al mondo. Il problema, in realtà,
è ormai chiaro: come si costruisce quella che io chiamo una "politica
preventiva" che sostituisca la filosofia della guerra preventiva?”.
In
fondo è l'interrogativo che pone anche il presidente della Camera. Che però vi
chiede di riconoscere, per esempio, che molti dei fermenti democratici avviati
nel mondo arabo non possono essere considerati casuali. Come risponde?
“Che sta cambiando qualcosa, nel mondo. Siamo sempre più interdipendenti e
globalizzati. Saltano tutte le barriere, e assieme ai protezionismi economici
entrano in discussione anche le autarchie politiche, le dittature che pensano di
poter governare senza i diritti e le libertà che ormai sono un valore
riconosciuto in tutto il pianeta. Quel che sta accadendo nel mondo arabo è
straordinariamente importante. Siamo di fronte a una sequenza di avvenimenti
appunto non casuali”.
E
originati da cosa, allora? Casini dice: forse una certa mano dura avuta dagli
Stati Uniti e, in parte, anche dall'Europa non è estranea a quel che accade. Lei
concorda?
“Io penso che i processi che investono soprattutto il mondo islamico - e che
vanno dalla massiccia partecipazione alle elezioni in Iraq e in Palestina alla
decisione di Mubarak di passare al multipartitismo, dalle riforme che
riconoscono diritti alle donne in Marocco
fino alla primavera di Beirut - segnalano una novità enorme: le società
islamiche sono investite da processi di secolarizzazione che mettono in
discussione il rapporto tra politica e religione, fino a ora in questi paesi
inscindibile. Si introduce un grande fatto di modernità: il principio di
laicità, di separazione tra la sfera religiosa, quella politica e quella
istituzionale. E' straordinariamente importante, perché è la secolarizzazione
che in quei paesi porta alla democrazia”.
Detto tutto questo, lei però non arriva ad affermare, come fa invece Casini, che
questi fermenti democratici sono - in parte - anche uno dei risultati della
guerra in Iraq, è così?
“Non ho alcuna difficoltà a riconoscere che questi processi sono anche il frutto
di una maggior intransigenza dell'occidente verso chi nega i valori di libertà.
Anche se non mi pare fondato stabilire un nesso automatico tra la guerra in Iraq
e la democrazia. Non c'è dubbio, tuttavia, che quando Bush dice "io mi batto
perché nei paesi arabi ci siano libertà e democrazia", questo sia un
atteggiamento molto diverso da quello dei repubblicani americani, che negli Anni
80, con Kissinger – in nome del realismo politico - sostenevano le dittature
militari fasciste in Sud America, fingendo di non sapere che torturavano e
uccidevano gli oppositori. Oggi c'è un rovesciamento. E anche in Europa comincia
a esserci una intransigenza nuova nei confronti di chi nega le libertà. E'
importante: vuol dire che in Occidente ci stiamo liberando di una grave
contraddizione”
A
cosa si riferisce?
“Accettavamo che in altre parti del mondo libertà e diritti fossero violati, e
giustificavamo quelle violazioni invocando le differenze. Se non c'era libertà
in un paese islamico, dicevamo "beh, certo, è una società islamica!". Era una
equivalenza infondata: non è scritto da nessuna parte che una società islamica
non possa essere democratica. Perché, per esempio, è così importante quel che
accade in Turchia? Perché lì si sta giocando esattamente questa scommessa:
dimostrare che Islam e democrazia sono compatibili. Perché è importante la
primavera di Beirut? Perché in un paese multireligioso - in cui una delle
religioni fondamentali è quella musulmana - i giovani vanno in piazza e dicono:
vogliamo vivere in una società laica, libera, ognuno pratichi la sua religione
ma la religione non comprima la libertà di nessuno. E' un fatto straordinario,
che noi dobbiamo sostenere. Dico tutti noi. Ecco, allora, cosa replico a Casini.
Lui rivolge una sollecitazione alla sinistra, io dico: attento, non è solo la
sinistra, è tutto l'occidente che deve liberarsi di un certo relativismo
culturale che lo ha portato ad essere distratto sul tema della violazione dei
diritti e delle libertà altrove”.
Va
bene, m a per quel che riguarda la sinistra italiana?
“Visto che io sono il leader dei Ds, non ho alcun dubbio a parlar chiaro: noi
siamo dalla parte dei giovani in piazza a Beirut, degli otto milioni di iracheni
che sono andati a votare, delle donne marocchine che si battono per i propri
diritti. La sinistra non può che stare dalla parte della libertà. Dovunque.
Proprio per questo dico che per realizzare il salto verso un mondo che individui
i luoghi e le sedi di governance globale e riesca ad affermare la democrazia
ovunque, occorre un mutamento anche degli strumenti. abbiamo bisogno di quella
che io chiamo una "politica preventiva", che non aspetti, non assista
passivamente al precipitare delle crisi. Se non si vuole la guerra preventiva,
allora si ha il dovere - tutti - non solo di dire che si è contro la guerra, ma
anche di costruire una strategia politica che agisca in tempo, così da evitare
il ricorso alle armi. Penso all'Iran. Aspettiamo che la la crisi diventi così
acuta che non resti altro da fare che mandare gli eserciti, oppure si avvia
subito un negoziato, si discute con le autorità iraniane, le si sollecita con
strumenti politici, economici, diplomatici per arrivare a un accordo che
garantisca che il nucleare iraniano non è pericoloso? Insomma, si mette in campo
una strategia preventiva o no? Perché, guardi, ce n'è molti di dittatori in giro
per il mondo: che facciamo, li togliamo tutti di mezzo con una sequenza infinita
di guerre, o proviamo con la politica?”.
Questo vale anche per Cuba? Ha letto l'altro giorno il maestro Abbado lodare,
sul “Corriere della Sera”, la sanità, i livelli di istruzione e l'attenzione per
l'arte che ha Castro.
«E' sicuramente vero che a Cuba c'è un'assistenza sanitaria e livelli di
istruzione che i bimbi delle baraccopoli di Caracas o Bogotà nemmeno sognano.
Questo è certo: ma non legittima la negazione della libertà, l'incarcerazione
degli oppositori e la riduzione di diritti inviolabili. Quindi da uomo di
sinistra dico: mi batto perché a Cuba ci sia la stessa libertà che c'è in Italia
e nel resto del mondo. Naturalmente capisco da quali considerazioni muove
Abbado: dal fatto che, in fondo, a Cuba sono garantiti alcuni diritti materiali,
e non è certo poco. Ma credo che non sia accettabile l'idea che in nome di
questo si limitino libertà e democrazia. Per altro, è la storia a dimostrare che
dove c'è libertà c'è anche maggiore prosperità”.