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CONVERSAZIONE.
DUBBI SULLA «GUERRA AMERICANA», NON SU QUELLA UMANITARIA
di DARIO BESSARIONE (il Riformista 17/12/2002)
Neutralità è complicità, l'ingerenza è un dovere La pace si conquista anche
con l'uso della forza Per Kouchner, fondatore di Médecins sans frontières,
bisogna aiutare i curdi e ottenere libere elezioni in Iraq
«Non possiamo accontentarci della neutralità. Perché essere neutrali tra la
vittima e il carnefice - soprattutto quando portiamo soccorso alle vittime dei
conflitti - equivale ad essere complici del carnefice». Bernard Kouchner ha
inventato l'azione umanitaria così come oggi la conosciamo. Fondatore di Médecins
sans frontières nel 1971 e di Médecins du monde nel 1979, ministro della Sanità
con Jospin e rappresentante Onu in Kosovo dal 1999 al 2001, Kouchner ha
attraversato i conflitti e la politica di fine '900 con la passione del medico e
del riformista. Comunista in gioventù, dopo l'espulsione dal Pcf è in Biafra
per spendere la sua laurea in medicina nel sostegno alle vittime della guerra
civile. Ne torna con la consapevolezza che l'azione della Croce Rossa fosse
ormai insufficiente. «Non bastava più chiedere al dittatore di turno
l'autorizzazione ad entrare nel paese per curare le vittime delle sue stesse
azioni repressive. Occorreva superare i confini della sovranità nazionale e
scegliere di fare politica per prevenire le vittime dei conflitti». Partì di
qui il movimento dei French doctors da cui sarebbe nata Médecins sans frontières.
Un Gino Strada francese? In realtà le differenze sono molte più delle affinità.
«Non critico l'azione di chi si concentra sulle vittime. Io stesso continuo a
farlo, ma questo non basta. Nell'azione umanitaria occorre sapere chi fa cosa,
chi è responsabile di quali sofferenze. Abbiamo il dovere di intervenire nella
prevenzione, senza attendere di curare le vittime. È questo il senso
dell'ingerenza umanitaria, la nuova frontiera della politica internazionale che
la sinistra ha il dovere di difendere con coerenza. Mi sono sempre battuto
affinché il diritto all'ingerenza fosse riconosciuto dalle organizzazioni
internazionali. Ci siamo riusciti nel 1988, quando l'Assemblea generale dell'Onu
ha riconosciuto il "diritto di accesso alle vittime dei conflitti".
Abbiamo dato personalità giuridica alle vittime di guerra, modificando di fatto
il diritto internazionale. E oggi le vittime hanno il potere di fare appello
all'intervento anche militare della comunità internazionale. Il Kosovo e Timor
Est sono esempi positivi di difesa delle minoranze, seppur tardiva». E come
risponde Kouchner all'obiezione secondo la quale l'ingerenza è sempre parziale,
esposta all'ipocrisia del double standard, non in grado di intervenire ovunque?
«E' una obiezione inaccettabile. Non possiamo lasciar morire coloro che oggi
possiamo salvare nell'attesa di poter salvare tutti. È molto facile essere
pacifisti sulla pelle delle minoranze massacrate. È vero che esiste un rischio
di double standard. Ma questo non deve impedirci di agire affinché l'azione di
ingerenza sia estesa progressivamente al più ampio numero di casi». Ma la
questione oggi riguarda, concretamente, le prospettive di un intervento in Iraq.
«Quando si è trattato di opporsi agli Usa non ho avuto esitazioni. Sono stato
in Afghanistan per otto anni durante l'occupazione sovietica. Ripetevo spesso -
mentre sorgeva il movimento dei talebani con il sostegno statunitense - che
avremmo finito col rimpiangere i sovietici. Ma le cose sono cambiate. Gli Usa
hanno difeso Massud quando nessuno in Europa lo faceva. Per questo sono stato e
resto a favore dell'intervento in Afghanistan. Come medico sono contro la
guerra. Ma in questo caso è stato lo stesso popolo a chiedere l'intervento, per
impedire che i talebani continuassero il massacro. L'intervento ha avuto
l'obiettivo di fermarlo». Eppure Strada non la pensa così. «Che chieda ai
civili di Kabul se vivono meglio oggi o due anni fa sotto il tacco dei talebani.
Talvolta penso che chi critica le azioni di ingerenza umanitaria abbia bisogno
di vittime civili per esaltare il proprio ruolo mediatico. La verità è che
l'antiamericanismo non è una politica, ma soltanto uno strumento retorico.
Quando non si ha più niente da dire ci si limita all'antiamericanismo. Abbiamo
bisogno di un nemico unificante, e l'immagine degli Stati Uniti che circola tra
di noi europei - soprattutto a sinistra - serve a questo scopo». Questo
significa che gli obiettivi di Bush in Iraq vanno sostenuti? «Niente affatto.
Sono contrario all'intervento in Iraq così come lo sta progettando
l'amministrazione Usa. Il pretesto non è credibile. Non esistono prove
sufficientemente chiare di un legame tra Saddam e Al Qaeda. Come ha scritto
Madeleine Albright, e come ha sostenuto una parte della sinistra europea,
rischiamo di non completare la nostra azione in Afghanistan. E non mi convince
affatto l'immagine usata dal governo Bush, secondo cui c'è bisogno di
"scuotere la baracca mediorientale". Al contrario, c'è da fare molta
attenzione in quella regione. Piuttosto il problema è di altra natura e
riguarda direttamente le sofferenze del popolo iracheno. Le vere vittime delle
armi di distruzione di massa sono i civili iracheni, perché il regime di Saddam
è uno dei più feroci e sanguinari dei nostri giorni. Le sue politiche di
arabizzazione forzata hanno provocato centinaia di migliaia di vittime. La sua
capacità distruttiva rimane infinitamente superiore a quella di Milosevic. È
un assassino che deve essere fermato dalla comunità internazionale, perché a
chiederlo è la popolazione civile del suo paese. Non possiamo evitare di
affrontare la questione della natura di quel regime e dei metodi usati per
difendere il suo potere. Questo è il problema che dobbiamo porci. Ed a farlo
deve essere soprattutto la sinistra europea e internazionale. A differenza del
Kosovo, la popolazione irachena è già oggi pronta e disponibile alla
democrazia. Sono appena tornato dal Kurdistan iracheno, nella no-fly zone, dove
di fatto governa un'amministrazione autonoma. In quella regione i curdi hanno un
Parlamento, amministrazioni locali elette democraticamente, 23 giornali di
diverso orientamento politico, un vivace associazionismo civile, un'ottima
università con 7.500 studenti per metà donne. Sono pronti. E noi dobbiamo
aiutarli. Anche costringendo Saddam a tenere libere elezioni. L'obiettivo della
comunità internazionale deve essere chiaro: preparare adesso le condizioni
perché all'Onu venga affidato il mandato di tenere elezioni democratiche in
Iraq. Evitando, possibilmente, l'uso della forza, ma anche facendo ricorso alla
forza se questo sarà inevitabile».