Il
dibattito sulla «scossa» da dare all'economia italiana si concentra
ovviamente su misure da prendere ora e subito, altrimenti che scossa
sarebbe? Sono queste le misure che i politici chiedono agli economisti,
alla vigilia di consultazioni elettorali in cui si sentono minacciati
dall'esasperazione dei loro potenziali elettori. Gli economisti rispondono
sostenendo che rimettere in moto una macchina ingrippata è molto
difficile. La via maestra sarebbe quella di un forte afflusso di nuova
domanda verso le imprese. Escluso che essa possa provenire da ulteriori
disavanzi pubblici - il nostro Paese, oberato da un debito superiore al
Pil, dovrebbe scrupolosamente attenersi al Patto di stabilità - com'è
possibile che lo Stato riduca le aliquote d'imposta fidando in un
miracoloso incremento di reddito? I paragoni con gli Stati Uniti di Laffer
e Reagan (o anche di Bush) hanno poco senso: la potenza egemone ha una
capacità di sostenere disavanzi imparagonabile, non dico con la povera
Italia, ma con l'intera Europa. Ma non potrebbe, la nuova domanda che
riavvia il sistema, provenire dall'estero? Non potrebbe provenire da un
ritorno alla capacità di esportare che caratterizzava il nostro Paese ai
bei (?) tempi in cui si poteva svalutare la lira? C'è metà del mondo, la
metà lambita dal Pacifico, che sta crescendo a ritmi forsennati: non
potremmo agganciarci a loro? Per ora questa metà del mondo, e soprattutto
la Cina, le nostre imprese la soffrono come un pericoloso concorrente e
non la godono come un grande mercato: espressi in dollari, i nostri costi
e i prezzi delle nostre merci sono troppo alti. E' in questo contesto che
l'idea dell'abolizione di qualche festività non è poi così insensata
come gran parte dei politici (fiutando, immagino, l'umore dei loro
elettori) hanno subito gridato. E' solo un'idea modesta, che aumenta di
poco e una tantum la produttività per addetto. Basterà a dare la scossa
richiesta?
Gran parte dei nostri esperti ne dubitano. E così, bloccati sul lato
della domanda e dubbiosi sul lato dell'offerta, essi si rifiutano di
fornire le ricette miracolose che i politici richiedono loro per
l'immediato e il loro coro unanime è che occorre un'iniezione di fiducia.
Verissimo, la fiducia, e con essa la voglia di rimboccarsi le maniche, di
fare bene il proprio mestiere, di non perdersi in recriminazioni
reciproche, sarebbe una gran bella cosa: le imprese investirebbero, le
famiglie tornerebbero a consumare e a fare figli, la produzione
crescerebbe e con essa anche la produttività, e senza perdite per
l'occupazione. Ma la fiducia è di due tipi. C'è una fiducia facile,
quella che si alimenta spontaneamente quando le cose vanno bene, quando la
domanda tira e la produzione aumenta: «Niente ha più successo del
successo», recita una frase famosa. E c'è una fiducia difficile, quella
che Churchill riuscì a infondere negli inglesi durante la guerra,
promettendo loro lacrime e sangue. La fiducia di cui avremmo bisogno,
purtroppo, è più vicina a questo secondo tipo e, se è così, solo la
politica può darla: gli italiani devono poter credere che i politici che
li governano hanno la volontà e la competenza di tirar fuori il Paese,
con i tempi e i sacrifici che occorrono, dalla palude di bassa produttività
e bassa crescita in cui si è insabbiato, per colpe antiche e recenti.
Credere una cosa simile diventa sempre più difficile. Martedì sera
Berlusconi ha annunciato che «entro aprile» intende ridurre le tasse di
almeno 6 miliardi di euro: si tratta di mezzo punto del Pil, circa un
terzo dell'intero pacchetto Tremonti (un quarto circa era già stato
attuato con la prima tranche , quella relativa ai redditi medio-bassi, e
probabilmente il governo terrà come ciliegina di fine legislatura il
regalo per i redditi più alti) e dovrebbe essere compensato da un (quasi)
equivalente taglio di spese. Ci sono due problemi: quanto il governo
taglierà e dove; e quale sarà l'effetto di «scossa», di riavvio della
macchina, derivante dall'intera manovra. Esclusa esplicitamente una
riduzione delle spese sociali, probabilmente non rimane che disboscare la
selva dei trasferimenti alle imprese, come suggeriva Giavazzi martedì 30
sul Corriere . Si farebbe comunque opera meritoria, sia che le risorse
recuperate fossero spese per altre destinazioni, sia che venissero
restituite ai cittadini.
Nel caso in cui questa fosse la manovra (che immagino verrà annunciata
nel prossimo Dpef e attuata con la finanziaria, e dunque andrà ad effetto
nel 2005), quale sarà il suo effetto di «scossa»? Difficile dire: se
l'effetto negativo dei tagli di spesa non sarà troppo forte e forte
invece la propensione al consumo di chi si vede aumentare il reddito
disponibile, una scossetta potrebbe pur esserci. Non è invece difficile
intendere la logica politica dell'operazione: più che di una scossa
economica il Berlusconi si è fatto guidare dall'esigenza di una scossa
elettorale, perché è indubbiamente apprezzabile un governo che cerca di
tener fede al suo programma nonostante le avversità. Apprezzabile,
naturalmente, da chi condivide un programma fiscale dalle connotazioni del
pacchetto Tremonti: se neppure gli alleati di Forza Italia lo condividono,
il premier rischia di perdere sia la scossa economica sia quella
elettorale.
Michele Salvati
|