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TORNA A: SOCIETA', POLITICA, CULTURA: saggi ed articoli
“Partiti e nuovo
populismo”
di Giuliano Amato
26 Aprile 2002
Il tema del populismo e delle nuove forme con cui questo fenomeno si manifesta
nelle democrazie contemporanee è presente nei dibattiti e negli studi politici
da diversi anni.
Certo gli esiti delle recenti elezioni francesi gli hanno conferito nuova
attualità, ma da tempo autori che si occupano di sistemi politici hanno
dedicato a questo argomento un’attenzione crescente. Sono stati pubblicati nel
giro di pochi anni, ad esempio, libri come quello di Mény e Surel, uscito nel
2000 e quest’anno tradotto dal Mulino con il titolo Populismo e democrazia, o
come il lungo saggio di Margaret Canovan, pubblicato nel 1999 su “Political
Studies” e tradotto in italiano nel numero 31 della rivista
“Trasgressioni” con il titolo Abbiate fede nel popolo! Il populismo e i due
volti della democrazia; sullo stesso numero della rivista appaiono anche il
saggio di Yannis Papadopulos Il nazionalpopulismo nell'Europa occidentale: un
fenomeno ambivalente ed un lavoro di Marco Tarchi; ma già nel 1996 era uscita
la traduzione italiana edita da Comunità di un volume di William Riker
intitolato Liberalismo contro populismo.
Stiamo perciò parlando di un tema che esiste da moltissimo tempo, utilizzato
per la prima volta nei confronti dei populisti russi nella seconda metà del
secolo scorso, e da allora destinato a vivere diverse esperienze.
È lecito allora chiederci che cosa sia il populismo e quali caratteristiche
abbia il fenomeno che identifichiamo con questo termine.
Una prima risposta a queste domande possiamo trovarla nel Dizionario di politica
(Tea, 1990) curato da Bobbio, Pasquino e Matteucci in cui leggiamo questa
definizione: “Il populismo è la sindrome secondo la quale, assunto
l’establishment a proprio nemico, è possibile immaginare che vi sia qualcuno
in grado di rappresentare in modo totalitario il popolo in una sua presunta unità
contrapposta”, qualcuno cioè, che si dichiari capace di realizzare le
aspirazioni neglette, calpestate o tradite dallo stesso establishment.
L’ideale populista, aggiungeva Riker nel libro citato, una volta raggiunte
posizioni di governo, ritiene intollerabile qualunque vincolo costituzionale che
ritardi l’attuazione delle scelte attribuite alla volontà popolare,
dimostrando così una propensione all’intolleranza verso le procedure
democratiche.
La definizione è abbastanza autoesplicativa, ma dobbiamo cercare di capirla
meglio, perché lo schema al quale questi autori riconducono il populismo
storico si compone di una varietà di articolazioni.
L’aggregato sociale sul quale il populismo costruisce il suo processo
identitario può essere di volta in volta diverso.
Si può trattare di una parte limitata della popolazione che il populismo
considera “sana”, le cui aspettative ed i cui diritti sono stati calpestati:
in concreto si è rivolto ai contadini, ai piccoli commercianti o ai piccoli
industriali, ai veterani una volta rientrati in patria dopo la guerra.
Più in generale si è rivolto agli esclusi da processi di cambiamento sociale
in corso, processi in genere definiti con il termine di modernizzazione.
Destinatari di discorsi populisti possono allora essere coloro che, assolvendo
ad un lavoro artigiano in una prima fase di industrializzazione, stanno perdendo
il loro lavoro, oppure i ceti sociali che nei nuovi processi trovano sì una
collocazione, ma fortemente subalterna ed in genere non accompagnata da diritti.
Può succedere anche che il populismo si rivolga non solo ad una parte specifica
della popolazione, ma che riesca a parlare ad un aggregato che coincide con
l’intera società, grazie a parole d’ordine trasversali capaci di cogliere
forme di ostilità diverse ma tutte riducibili ad un fattore comune, tutte
indirizzate alla volta di chi sta attualmente governando. Accade così che il
populismo riesca a mettere insieme l’ostilità accompagnata da insicurezza
personale di chi è impaurito dall’immigrazione per ragioni identitarie o per
ragioni di lavoro, con l’ostilità di chi ad altri livelli sociali è irritato
perché le tasse che paga sono troppo alte o perché le procedure burocratiche a
cui la sua azienda è assoggettata sono troppo lente. Il risultato che ne
scaturisce è la formazione di un coagulo di dissenso nei confronti di chi
governa in modo tale da identificare l’establishment come il responsabile dei
diversi disagi e malesseri.
Il populismo può quindi avere diverse forme e differenti cause; a seconda di
queste il nemico verso cui si dirige può essere di volta in volta diverso: sul
finire dell’Ottocento, ad esempio, negli Stati Uniti, il nemico era
identificato nei grandi monopoli, i grandi trust, e la politica americana mosse
toni populisti in nome dei piccoli produttori contro i grandi industriali, come
i Rockfeller e le compagnie petrolifere; ma nemici possono essere considerati
anche la plutocrazia, la burocrazia, la tecnocrazia, o addirittura un soggetto
esterno come ad esempio le grandi potenze o l’Europa nel suo insieme.
Per trarre da queste diverse ipotesi una formula generale, proviamo a disegnare
un modello che le possa racchiudere in forma coerente.
Si può dire che il populismo si rivolge contro l’establishment, intendendo
con questo termine chi si trova in posizioni di potere e lo usa beneficando se
stesso e portando via, ovvero negando qualcosa agli altri.
Quando parliamo di populismo, quindi, parliamo di qualcuno che si fa interprete
di un aggregato sociale che non sempre è il medesimo ma che presuppone
categorie sociali che hanno, o ritengono di avere, ragioni di risentimento verso
il mondo com’è; ragioni che possono essere più o meno vaste e che possono
allargarsi fino all’intera società. Il leader populista (il populismo è un
movimento che si incarna sempre in un leader, su cui concentra l’autoidentificazione
e le speranze dei seguaci) da una parte esalta l’intollerabilità della
situazione vissuta dall’aggregato sociale di riferimento, dall’altra
sottolinea la sicura responsabilità di un “nemico” che è visto come causa
delle insoddisfazioni, delle insufficienze, delle insicurezze che portano questo
aggregato sociale a sentirsi vilipeso, reietto, abbandonato, dimenticato.
Il leader populista e il suo movimento hanno davanti due fasi: quella della
propaganda e, se questa ha successo, una fase di governo.
La propaganda populista è caratterizzata da quello che nel gergo dei politologi
è definito con l’espressione overpromising, esorbitanza di promesse. Il
leader promette tutto il contrario di ciò che induce con forza a lamentare come
intollerabile: se si è in condizioni di “intollerabile insicurezza”, i suoi
discorsi verteranno sulla promessa che, una volta raggiunta la fiducia
dell’elettorato, non ci saranno più delitti; se vi è un’intollerabilità
di tasse, le sue parole diranno “non ci saranno più tasse”; se il
malcontento riguarda pensioni poco elevate, prometterà di aumentarle; a volte
queste due ultime promesse si legano e si sommano in modo da creare un esplosivo
consenso incrociato nel tessuto elettorale.
Una volta che la propaganda ha raggiunto il suo effetto, inizia la fase di
governo che può prendere, a seconda delle situazioni, due diverse direzioni.
Una di queste è la perdita di consensi in ragione dell’incapacità di
governare mantenendo le promesse fatte. L’esempio più recente possiamo
rintracciarlo nell’esperienza del partito della libertà austriaco e del suo
leader Haider: c’è stata una caduta dei consensi e a causarla è stato
l’evidente divario tra le promesse fatte in campagna elettorale ed i risultati
conseguiti una volta al governo (sia pure in regime di coalizione con un partito
più forte).
L’altra direzione, che invece può determinare una situazione di tenuta, è
quando la risposta alle aspettative create nell’elettorato con tante promesse,
viene data in termini ideologici e non corrispondenti alle domande sociali di
partenza. Non essendo in grado di soddisfare le promesse fatte in campagna
elettorale, il leader cerca di produrre un surrogato in termini ideologici; in
altre parole continua a scaricare sul nemico l’impossibilità di mantenere la
parola data, in modo da mantenere elevato tra gli elettori un sentimento
identitario e di identificazione reciproca tale da raffigurare la scena politica
come una lotta permanente in cui le promesse fatte non possono avanzare ma in
cui egli riesce comunque a controllare da vicino i propri avversari. Nei limiti
in cui questa risposta ideologica funziona, il leader populista riesce a
mantenere intorno a se’ il consenso in virtù di un appagamento ideologico, e
non reale, dell’elettorato.
Certo è che quale che sia l’esito, l’effetto del populismo è una
radicalizzazione sociale. Costruendo la propria ragione d’essere sul
contenzioso con il nemico, tanto nella fase ascendente verso la conquista del
potere o della maggioranza quanto nella fase successiva, il populismo mette
fortemente a repentaglio tessuti coesivi generali; tanto più che, una volta
giunto al potere, investendosi della pretesa di rappresentare unitariamente
l’intero popolo, esso produce forti tensioni attraverso un progetto che porta
a definire coloro che non si riconoscono nelle idee populiste come estranei
all’identità collettiva, se non addirittura nemici.
Di sicuro stiamo parlando di qualcosa che è all’opposto di quello che i
grandi politici inglesi chiamano Statemanship (l’essere uomini e donne di
stato) secondo la quale primo compito della politica è dimostrare moderazione
in presenza di esasperazioni, pur tenendo conto delle ragioni che le hanno
originate.
Proviamo ora a cercare di capire in quali contesti ed in quali gradazioni si
presenta il populismo.
Finora abbiamo parlato del fenomeno cercando di descriverlo nelle sue
caratteristiche più pure ed estreme, ma in realtà dobbiamo prendere atto che
un tasso di populismo è presente ovunque e che l’esplosione del fenomeno
nelle sue forme più esasperate è frutto di determinati contesti.
Facciamo un passo indietro fino al punto di partenza della politica quale siamo
abituati a conoscerla nell’ultimo secolo. Tra XVIII e XIX secolo la politica
vive il passaggio da un fondamento aristocratico o teocratico, che la legittima
a prescindere formalmente dal consenso popolare, ad un fondamento legato
necessariamente all’affermazione elettorale. La legittimazione democratica
emerge poco alla volta, prima nei confronti di una limitata opinione pubblica e
di un elettorato ristretto ai possidenti, per poi allargarsi fino all’insieme
della società. Da questo momento in poi la politica è chiamata a cambiare
perché i modelli dei secoli precedenti sono assolutamente inadeguati.
Come ha scritto Pizzorno, questo mutamento della legittimazione politica, una
volta fondata sulla deferenza ed ora invece basata sulla lealtà e sul consenso,
apre il problema, tanto lucidamente presente in Hegel, di come ricondurre ad
unità o quanto meno ad un qualche ordine miriadi di interessi sociali che,
fuoriusciti dalle canalizzazioni delle società feudali, possono ora pretendere
ciascuno per se’ uno spicchio di azione pubblica. Esplosione degli interessi
particolari, impossibilità ormai per chi governa di farlo in nome di uno Stato
che coincida con interessi personali, di famiglia o di casta: da questi
presupposti nasce la consapevolezza della necessità di mettere insieme volontà
diverse, quelle dei più deboli e quelle dei più forti. Ma come fare?
Una risposta è stata trovata con i partiti politici. Sono stati loro a svolgere
la funzione di grandi collettori delle separate individualità di singoli e di
gruppi; i partiti hanno cercato di ricondurre le diversità particolari ad
insiemi di cui si potesse dire che erano produttori di volontà generali.
Svolgere questa funzione essenziale per la nascita e l’esistenza dello Stato
democratico ha significato per i partiti realizzare due operazioni parimenti
importanti. Da una parte essi sono riusciti a farsi rappresentanti delle diverse
esigenze e richieste, dall’altra sono stati capaci di filtrarle in base a
visioni generali.
Le visioni generali dei partiti caratterizzanti del XX secolo si sono formate
attorno alle fratture sociali create dall’economia nel corso della prima
industrializzazione. Una destra e una sinistra c’erano sempre state, e già
prima erano esistiti partiti conservatori e progressisti, ma la prima
industrializzazione ha posto il cleavage (la linea di frattura, di separazione
tra parti diverse del tessuto sociale) sul conflitto di classe tra chi era
lavoratore dipendente e viveva del proprio salario e chi invece viveva
autonomamente del proprio lavoro o utilizzando il lavoro di altri. Proprio
all’interno di questa frattura sono nate le due tradizioni politiche dei
partiti socialista e cattolico-popolare che rappresentavano i medesimi esclusi,
il primo nel filone che parte da Marx, il secondo in quello che parte dal
solidarismo cattolico.
Affiorano dunque tre elementi da considerare per capire il populismo.
Il primo elemento è costituito dai cleavages della prima industrializzazione,
dai modi in cui essi conformano le visioni generali dei partiti, le loro
aspettative e gli spazi di conflitto e di possibile incontro; il secondo
riguarda i partiti come strumento attraverso il quale si organizza la
rappresentanza degli interessi collettivi; il terzo elemento, forse il più
importante, è l’interazione tra i grandi ideali di cui i partiti si avvalgono
per aggregare e la negoziazione tra i diversi interessi a fini di governo.
Insomma, se da una parte ciascun partito è tenuto insieme dai grandi ideali,
dall’altra cerca di negoziare con le altre forze ( e, via via che si estende e
si articola la sua rappresentanza, con gli stessi interessi che include) affinché
ci siano azioni politiche produttive di effetti sulla realtà concreta. I
partiti, in sostanza, devono far in modo che la parte più realistica,
negoziale, venga sempre ritenuta coerente ai grandi ideali che fanno da collante
dell’insieme.
Nell’interazione tra questi due elementi si infila il populismo. Quando un
partito nasce, ha fortissimo l’elemento ideologico-simbolico del grande
valore. Alle loro origini, i partiti socialisti, così come i popolari, usarono
molto il modulo populista, perché si rivolgevano a soggetti sprovvisti di
diritti promettendo di dar loro ciò che non avevano, mentre attribuivano
energicamente al nemico, al padrone, la responsabilità di tutti i mali
presenti. Nella tradizione socialista, però, da qui inizia una fase negoziale,
una politica realista che non può essere guidata esclusivamente
dall’aspirazione del “grande ideale”. Nascono allora fratture interne e si
sviluppano le tensioni tra massimalisti e riformisti, tenuti insieme, quando ci
si riesce, dal delicato equilibrio fra programma massimo e programma minimo.
I partiti totalitari, invece, hanno scaraventato tutta la loro azione politica
sul versante ideologico, il “grande ideale” è diventato un valore a se’
stante che ha chiuso la strada del percorso democratico: è stato attraverso la
capacità di scaricare l’intera responsabilità del malessere sociale su
altri, e in primis sugli ebrei,che ha potuto vedere la luce il progetto di
dominio della razza ariana.
Ecco il nodo della questione: quand’è che le democrazie perdono
l’equilibrio tra il polo valoriale ed il polo razional-negoziale, lasciando
aperta la strada all’insinuarsi ed all’estendersi dello spazio populista?
Per poter trovare una risposta dobbiamo confrontarci con alcuni cambiamenti che
coinvolgono la democrazia tradizionale quale l’abbiamo conosciuta nel
ventesimo secolo.
Innanzi tutto il vecchio cleavage non opera più come operava nel vecchio
secolo; mutamenti tecnologici e produttivi hanno avuto come effetto il
post-fordismo, hanno individualizzato i lavori, li hanno parcellizzati, hanno
fortemente diminuito il peso dei grandi aggregati industriali e dei moduli di
organizzazione politica e sociale costruiti attorno ad essi. Il confine fra i
soggetti sociali non è più quello lungo il quale si erano collocati i grandi
partiti sin dalla loro nascita. Il cleavage si è fatto mobile ed i partiti ne
hanno fortemente risentito; la loro forza di aggregazione basata
sull’evocazione di quella frattura originaria è di molto diminuita.
Sono altri, o almeno anche altri, i fattori che possono aggregare o disgregare,
esistono paure che contano più di quel cleavage e che riescono ad accomunare
persone diverse a prescindere dal loro ruolo nei processi produttivi. Oggi le
aggregazioni sociali possono assumere una direzione trasversale nel corpo
sociale, i temi con cui la politica deve confrontarsi sono completamente
cambiati, riguardano il clima, la globalizzazione economica e finanziaria, le
insicurezze sul posto di lavoro, l’immigrazione.
Un altro rilevante elemento di cambiamento riguarda il nostro essere diventati
molto più ricchi di cultura e di informazione rispetto agli anni passati. Sono
diminuiti gli analfabeti, è fortemente aumentato il numero delle persone che
ragionano da sole e che hanno informazioni dirette su ciò che le interessa.
Questo ci ha reso tutti molto più esigenti di prima, fino al punto che se non
otteniamo ciò che pretendiamo diventiamo insofferenti. In altre parole è
diventato labile il confine tra il cittadino di una democrazia esigente ed il
cittadino che diventa populista contro la stessa democrazia perché non viene
riconosciuto nelle sue ragioni e quindi diventa intollerante perfino della
ricerca di un compromesso.
In buona parte legato ai mass-media è l’effetto di personalizzazione della
politica. Si tratta di un dato ineliminabile dalla politica del nostro tempo e
di una strana contraddizione: se da una parte la grande quantità di
informazioni che siamo capaci di interpretare ci mette nelle condizioni di
pensare in maniera autonoma con la nostra testa, dall’altra la televisione ci
aiuta moltissimo a identificarci in un leader, a sentirne il bisogno, a
trasformare in tifo la nostra partecipazione politica.Il nostro contro
l’altro.
Mettiamo insieme tutto questo. Ed ecco allora che il meccanismo di
semplificazione che ruota intorno alla sollevazione emotiva e
all’identificazione di un nemico cui attribuire ogni responsabilità, ha
davanti un’autostrada da percorrere.
Non è un caso che in questi ultimi anni abbia avuto una grande presa
nell’elettorato l’outside-leader, cioè chi si afferma in politica cercando
di dimostrare che non ha alcuna caratteristica della tradizionale figura
politica cui sono abituati gli elettori. In un libro uscito nella metà degli
anni Ottanta nel Regno Unito, la figura di Ronald Reagan veniva raccontata come
il primo outside-leader, tanto bravo nell’incarnare tale ruolo da riuscire a
mantenerlo anche durante il suo mandato: era già Presidente degli Stati Uniti,
eppure continuava a prendere le distanze dai burocrati della capitale, “quelli
di Washington”, che accusava di non essere in grado di capire le esigenze
della gente.
In virtù di questi mutamenti, cambiano i leader, e cambiano morfologicamente i
partiti perché l’antipolitica, cioè la politica populista, sta guadagnando
spazio. La vecchia ed essenziale interazione fra richiamo valoriale-identitario
e trasposizioni realistiche della politica governante cede a beneficio pressoché
esclusivo di quel richiamo. Di conseguenza, c’è rappresentanza, ma
esasperata, e si indebolisce sempre più la funzione di filtro. Emergono nuovi
partiti schiettamente populisti, mentre partiti che non lo sarebbero si
sintonizzano largamente sui medesimi moduli.
I partiti schiettamente populisti del nostro tempo si collocano in genere su due
versanti: o etnico (come il Front National francese, che però sta ora coprendo
anche l’altro versante, o la DVU tedesca) o liberista-anti Stato (come il
Partito del Popolo danese o quello del Progresso norvegese), oppure su entrambi
(come la Lega Nord italiana). Tra i partiti che hanno assunto moduli populisti
senza che la propria origine si richiami a una tradizione in tal senso, non si
può non menzionare Forza Italia, soprattutto per lo stile del suo leader.Pur
non guidando un partito populista, l’uso che Silvio Berlusconi fa della
categoria del nemico è magistrale: il suo nemico è il comunista, il nemico
tradizionale del populismo è l’establishment, facendo coincidere questi due
fattori con la descrizione di anni di domino comunista in Italia, Berlusconi ha
potuto moltiplicare l’efficacia del suo messaggio ideologico.
Ma anche a sinistra è entrato a suo modo il modulo populista. È un populismo
di sinistra quello tutto identitario, tutto agitatorio, quello che rifiuta la
politica che guarda alla stabilità e alla moderazione per giocare tutto su
un’identità che va alla ricerca di un nemico responsabile dei mali del mondo.
La sinistra diventata governo, invece, che aveva largamente coperto i bisogni
valoriali di tutta una fascia della popolazione, si è poi rinchiusa nel secondo
dei due elementi, quello della negoziazione moderata e responsabile, e delle
politiche razionali. E’ una sinistra che tende ad avere come ceto sociale di
riferimento i cosiddetti bobos, un’élite intellettuale di persone colte,
genericamente progressiste sul piano dei sentimenti e delle idee, ma
inesorabilmente medio borghesi e come tali dotate di una sensibilità lontana da
segmenti sociali che, abbandonati dalla sinistra, sono pronti a sentire la
sirena populista. Ha avuto così luogo una nuova separazione tra una sinistra
estrema tutta tesa verso l’elemento valoriale ed identitario, ed una di
governo troppo razionalizzante.
La lezione che la democrazia può trarre da un’analisi del populismo è che
non deve perdere l’equilibrio su cui si fonda, altrimenti si ammala, la
malattia rapidamente si estende e quando sia a destra che a sinistra prevale
l’antipolitica, il recupero può diventare difficile. Il populismo –lo
abbiamo visto- è una sorta di virus che abita ab initio nell’organismo della
politica e tanto più allarga il suo spazio quanto più la democrazia si ammala.
Certo sono tanti i versanti su cui un sistema democratico può ammalarsi, ma
sicuramente tre cose, segnalate da Mény, vanno tenute presenti: il cittadino di
una democrazia del nostro tempo le volta le spalle, se vede che le élites si
arricchiscono, se ha la sensazione che le élites di esperti o presunti tali
vogliono sovrapporre il loro giudizio al suo, se le regole che da queste élites
vengono formulate sono insopportabilmente incomprensibili o pesanti rispetto ai
comportamenti che gli stanno a cuore. Non è tutto, anzi si tratta solo di tre
detonatori; ma è davvero stupidamente suicida farli esplodere.
Per la sinistra la lezione forse è ancora più complicata, ma possiamo
rintracciare anche qui qualche elemento.
Potrà sembrare banale dirlo, ma ci sono due derive che tutto questo
ragionamento induce ad evitare: la prima è quella di trasformarsi in una sorta
di elitario Partito d’Azione; si deve perciò rappresentare, e non solo con le
parole, anche chi non è bobo. La seconda però è di non cadere all’opposto
nel populismo, di non reagire alle sconfitte tuffandosi in quello che abbiamo
definito l’elemento valoriale-identitario e scaricando ogni responsabilità di
ciò che accade sul nemico. Ma come avere radici e visione in una società tanto
cambiata?
È necessario saper capire la politica del nostro tempo e non chiudersi di
fronte ad essa. A proposito della difficoltà che hanno i partiti a far politica
perché rinchiusi nei loro vecchi riti, Ulrich Beck, un sociologo che secondo me
è tra quelli che hanno più contribuito a far capire il tempo in cui viviamo,
dice che caratteristiche della politica di oggi sono la spontaneità, la libertà
nell’impegno politico, l’autorganizzazione, il rifiuto dei formalismi e
delle gerarchie, l’improvvisazione, la determinatezza ad impegnarsi solo dove
è possibile rimanere soggetti della propria azione. Buona parte dei movimenti
del nostro tempo hanno queste caratteristiche.
Di sicuro la sinistra deve ritrovare il futuro, con la capacità di saperlo
legare ai sogni e ai bisogni dei più, non alle fantasie dei pochi.
Fare tutto questo significa rischiare, e la sinistra oggi deve rischiare essendo
umile, perché c’è molto da imparare da un tempo così diverso da quello in
cui siamo cresciuti. Bisogna avere la forza della Statemanship, ma anche una
straordinaria umiltà nel capire gli altri. Chissà che una leadership fatta di
persone più giovani, forse meno osannabili dei messia di turno in cui cerchiamo
via via di riconoscerci, non sia però più attrezzata a un compito del genere.