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TORNA A: SOCIETA', POLITICA, CULTURA: saggi ed articoli
Massimo
D'Alema |
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Il tema di questo
mio intervento può apparire circoscritto ma è in realtà immenso: cosa hanno
rappresentato i partiti riformisti, nelle loro diverse esperienze nazionali, per
la vicenda politica del Novecento? Vorrei anche rivolgere la mia attenzione al
futuro e dunque a cosa possa essere oggi in Italia e in Europa un partito
riformista, con quali problemi si debba misurare, quali prospettive possa avere,
quali funzioni possa svolgere, quali innovazioni siano necessarie sul piano
della cultura politica e delle forme organizzative per ridare vigore ad un
partito riformista. Tuttavia credo che sarebbe pressoché impossibile svolgere
questo tema senza abbracciare quello del ruolo che il riformismo socialista, o
di matrice progressista, ha svolto in passato. Tanto più questo mi pare
necessario in un'epoca nella quale tutti si dicono riformisti: non solo i
massimalisti ma persino i reazionari, chiamando riforme i loro programmi di
restaurazione sociale. Credo quindi che valga la pena iniziare gettando uno
sguardo alle nostre spalle. E riflettere su cosa abbia rappresentato il
riformismo nella storia d'Europa, quale sia il frutto della sua esperienza
storica e il lascito dell'esperienza riformista.
Nella conclusione del suo bel volume “Cent’anni di socialismo” Donald
Sassoon traccia un bilancio in questi termini: nell'Europa occidentale, egli
scrive, la principale conquista del socialismo è stata l'incivilimento del
capitalismo. Un ruolo importante hanno avuto su questo piano anche altre
tradizioni politiche: le tradizioni cristiane sociali sul continente, la
tradizione liberale in Gran Bretagna. E tuttavia il ruolo che la tradizione
socialista ha svolto in quest'opera di incivilimento è stata fondamentale e
insostituibile. Persino un critico severo del socialismo come Leszek Kolakowski
ha scritto che “qualunque cosa sia stata fatta in Europa occidentale per
creare più giustizia, più sicurezza, maggiori opportunità di istruzione, più
welfare, più responsabilità dello Stato nei confronti dei poveri e degli
indifesi, non sarebbe mai stata raggiunta senza la pressione dell'ideologie
socialiste e dei movimenti socialisti, a dispetto di tutte le loro ingenuità e
illusioni”. E non si è trattato soltanto dell'istituzione di un sistema di
protezione sociale. In realtà il riformismo europeo di matrice socialista si
pone come il vero erede dell'illuminismo europeo. E come tale esso è stato
protagonista delle lotte per i diritti civili e della democrazia. Il riformismo
socialista ha combattuto per l'estensione del suffragio universale laddove era
limitato, per i diritti delle donne prima e più tenacemente di ogni altro
partito, per l'abolizione dei diritti acquisiti e dei privilegi dell’ancién
règime, contro la discriminazione razziale, per l’abolizione della pena di
morte, per il rispetto delle differenze sessuali e per la depenalizzazione
dell'aborto.
I socialisti, ovvero coloro che hanno svolto questo ruolo storico, non avevano
l'obiettivo di abolire il capitalismo né quello di costituire una società
“altra”. Anzi, questo fu il punto su cui si ruppe il movimento socialista,
all'alba della rivoluzione d'ottobre, tra chi si schierò per una prospettiva
rivoluzionaria e chi rimase nell'alveo di un movimento di carattere riformista.
Il riformismo socialista ha cercato di regolare il capitalismo, operando
all'interno di un duplice ordine di condizionamenti: in primo luogo entro un
quadro di regole che non impedissero il funzionamento del capitalismo, al
contrario il riformismo ha lavorato allo scopo di agevolare - condizionandolo -
il capitalismo (almeno fino alla fine degli anni Settanta, quando si sviluppò
quella grande offensiva culturale e politica di segno neoliberista che agevolò
il processo di globalizzazione e che individuò proprio nello Stato sociale di
matrice riformista un impedimento allo sviluppo delle forze produttive di tipo
capitalistico). In secondo luogo il riformismo ha operato entro il quadro e con
gli strumenti propri dello Stato nazionale. Perché il riformismo si è
identificato con lo Stato nazionale e lo Stato nazionale ha rappresentato la
leva per promuovere socializzazione e per costruire welfare.
Il partito riformista in questa sua opera si è fondato sull'equilibrio di tre
elementi. In primo luogo il partito vero e proprio: i suoi iscritti, gli
associati. In secondo luogo le molte forme di legame con la società: il
sindacato, le leghe, le cooperative, e dunque le varie forme associative che
nella tradizione e nella struttura del partito riformista hanno sempre
rappresentato gli strumenti di un rapporto più largo del partito. In terzo
luogo la rappresentanza parlamentare e la presenza nei diversi livelli di
governo locale. Nella combinazione di questi tre elementi si racchiude, almeno
in parte, la differenza strutturale tra diversi tipi di partito. Il partito
riformista classico si è composto di iscritti, di associati, di club, di
sezioni, della rappresentanza istituzionale (che ha avuto un grande ruolo in un
partito che faceva della “risorsa governo” la risorsa essenziale a livello
locale e nazionale) e dei diversi strumenti di legame con la società e di
rappresentanza più diretta degli interessi, a partire dal sindacato. Non c'è
dubbio che il partito riformista si differenzia dal partito conservatore o dal
partito rivoluzionario anche per l’equilibrio tra questi tre aspetti della sua
struttura, del suo rapporto con la società. Il partito conservatore di tipo
classico è soprattutto un partito della rappresentanza, un partito elettorale:
per rimanere alla divisione classica, un “partito della rappresentanza
individuale”. Il partito leninista è invece soprattutto un
“partito-apparato”, è partito dei militanti; l’elemento
economico-corporativo vi appare subordinato. Com’è noto, tutto il “Che
fare?” di Lenin è imperniato sulla preminenza del partito come strumento di
superamento di una rappresentazione economico-cooperativa degli interessi di
classe, sul carattere esterno della coscienza di classe. Mentre la
rappresentanza istituzionale ha nella concezione leninista carattere puramente
strumentale: il parlamento è tribuna. Nella visione leninista è il partito che
ha assoluta preminenza e la sua struttura, per potere subordinare a sé gli
altri aspetti, ha un carattere quasi militare. Il partito riformista, è stato
una grande forza dell'integrazione sociale. Nel dopoguerra anche altri partiti
di segno moderato hanno adottato il modello del partito di integrazione sociale,
diverso sia rispetto al partito elettorale e della rappresentanza individuale di
segno conservatore che rispetto al partito rivoluzionario centralizzato che
deriva da un modello giacobino e poi blanquista della rivoluzione francese. Il
partito dell’integrazione sociale evolve nel corso del dopoguerra verso quello
che gli studiosi hanno chiamato “il partito pigliatutto”. E’
un'espressione che può apparire deteriore: in realtà nell'analisi che ne ha
fatto Otto Kirchheimer tale descrizione dell’evoluzione dei partiti riformisti
non ha affatto una connotazione negativa. Si riferisce infatti allo sviluppo di
una capacità dei partiti riformisti di rappresentare una pluralità di
interessi sociali e di deideologizzare il loro rapporto con la società in
funzione di una moltiplicazione del consenso anche in termini elettorali. Il
partito pigliatutto riflette quel necessario adattamento ad una crescente
complessità sociale che i partiti riformisti hanno dovuto compiere, insieme ad
una progressiva tendenza al pragmatismo (seppure ispirato a quei valori che sono
propri e caratterizzanti delle forze di ispirazione socialista).
Secondo alcuni autori il partito comunista italiano e il partito comunista
francese, pur da analizzare nel quadro dei partiti di matrice socialista che
operano nell’Europa occidentale, non avrebbero invece vissuto questa
evoluzione. Gli studiosi mettono l'accento sull’anomalia e sull’originalità
dell'esperienza italiana dal punto di vista teorico: e non c'è dubbio che
l'adattamento gramsciano del modello leninista, così come l’invenzione
togliattiana del partito nuovo, si caratterizzino in modo piuttosto diverso
rispetto ai classici partiti socialdemocratici, perché la matrice comunista
(ovvero l'idea che il ruolo fondamentale del partito politico è la conquista
del potere e non l'integrazione sociale) rimane centrale anche nell'ispirazione
del comunismo italiano. E tuttavia soprattutto Togliatti, che da questo punto di
vista è indubbiamente il più grande innovatore della tradizione comunista sul
terreno della teoria del partito, è stato l'inventore di una forma di partito
dell'integrazione dei cittadini nella repubblica democratica che ha svolto una
funzione, nei fatti, per molti aspetti simile o paragonabile alla funzione di
integrazione sociale svolta dai grandi partiti riformisti in Europa. Tale
funzione ha avuto effetti diseguali nel paese ma non c'è dubbio che ciò che i
comunisti italiani hanno costruito soprattutto in alcune aree del paese, e penso
alle grandi regioni rosse, somiglia molto alle migliori esperienze del
riformismo europeo come esperienza di riformismo dal basso: un riformismo
fondato sulla partecipazione, sulle leghe, sulle cooperative, sulle case del
popolo, sull'uso del potere locale. Tuttavia questo riformismo nei fatti -
giacché da un punto di vista teorico questo tipo di definizione è stata sempre
respinta dai comunisti italiani - hanno pesato due limiti: in primo luogo il
persistente legame con l'Unione sovietica nel quadro della guerra fredda e la
conseguente esclusione (da parte degli altri) e autoesclusione del PCI dalla
possibilità di governare; in secondo luogo i persistenti sistemi finalistici
della cultura del PCI che hanno determinato una irrisolutezza nel rapporto tra
programma minimo e programma massimo, tra riforme e trasformazione sociale, tra
riforme e potere. Questo è stato un tema molto tormentato dell’elaborazione
dei comunisti italiani. Ricordo il tema delle riforme di struttura, il cui
carattere strutturale consisteva appunto nel modificare gradualmente i rapporti
di potere nella società. Si trattava di una concezione delle riforme collegata
a una strategia della conquista del potere, una strategia di medio periodo delle
conquista del potere, che nella visione del comunismo italiano si sostituiva
alla strategia della vittoria elettorale, della conquista del governo, ovvero a
quella strategia che è stata il modo in cui le socialdemocrazie hanno svolto il
loro ruolo all'interno delle società capitalistiche avanzate e democratiche.
L'esperienza italiana conosce quindi da una parte un originale partito
comunista, capace di costruire esperienze di riformismo dal basso assai
significative ma in un quadro strategico e ideologico segnato da queste
contraddizioni; e dall'altra parte un partito socialista, che soprattutto nel
dopoguerra non è mai stato in grado di assumere i caratteri strutturali di un
grande partito riformista europeo, non è mai stato in grado di disporre di
quelle risorse nel rapporto con la società, con i sindacati, con le
cooperative, che hanno caratterizzato l'esperienza riformista europea e che ha
vissuto il riformismo più come identità di una sinistra di governo
contrapposta ad una sinistra rivoluzionaria, non riformista perché comunista;
più come differenza rispetto all'altra sinistra che non come pratica di una
trasformazione sociale in competizione con le forze conservatrici. Ciò va
considerato uno dei tratti fondamentali dell’esperienza del socialismo
italiano, con l'eccezione del periodo del primo centrosinistra e in una certa
misura del primo periodo craxiano (che indubbiamente ebbe una forte che impronta
riformista, in modo particolarmente spiccato intorno ai temi della riforma dei
sistemi politici e istituzionali). Ma il riformismo socialista si è definito
piuttosto attorno ad un tratto di identità, di distinzione rispetto al PCI, che
non sulla capacità di costruire una stabile esperienza riformista nella
società italiana.
La vicenda italiana è quindi segnata da due partiti incompiuti, specularmente
anomali, ciascuno dei quali porta in sé un tratto dei partiti del riformismo
europeo senza aver saputo rappresentare nella società italiana qualcosa di
paragonabile a quello che i laburisti in Gran Bretagna o i socialdemocratici in
Germania hanno saputo rappresentare nei paesi europei più avanzati. Credo che
questo ci aiuti a capire le ragioni per le quali, nel lungo processo di
trasformazione del PCI, l'assunzione progressiva di elementi di cultura
democratica liberale in forma quasi omeopatica (come ha scritto Piero Ignazi)
abbia contato di più di un vero confronto con l'esperienza socialdemocratica.
Qui certamente ha pesato moltissimo la divisione della sinistra italiana, la
reciproca ostilità tra i due maggiori partiti della sinistra italiana. E
l’innestarsi sulla tradizione democratica del comunismo italiano di elementi
di cultura democratico-liberale ha caratterizzato l'evoluzione culturale del
quadro dirigente delle forze intermedie del PCI, più che la capacità di fare i
conti con l'esperienza socialista e socialdemocratica. Dunque anche il processo
di trasformazione della sinistra italiana in questi anni ha scontato una
debolezza delle sue basi riformiste. Si è alimentata l'illusione che fosse
possibile compiere un salto in avanti, pur necessario, ma che questo salto in
avanti lo si potesse compiere saltando a pie’ pari l'esperienza del socialismo
europeo. Ragioni anche politicamente comprensibili (come il conflitto egemonico
tra PCI e PSI) hanno tuttavia legato la trasformazione del PCI ad un’asse
culturale particolarmente incerta e indeterminata. La grande e necessaria svolta
del ‘89 non ha proceduto per quella che avrebbe potuto essere la via maestra e
dunque quella che avrebbe potuto, una volta conclusa l'esperienza del movimento
comunista, ricongiungere nell’alveo del riformismo socialista le grandi forze
della sinistra italiana. Essa si è bensì mossa su un terreno assai più
incerto, alimentando la speranza di costruire qualcosa che si proiettasse oltre
quella che è stata raffigurata come una duplice crisi: crisi del comunismo e
crisi del socialismo. Indubbiamente vi erano elementi di verità in queste
analisi, e tuttavia la natura di questa crisi era radicalmente diversa: nel
senso che il movimento socialista ha affrontato la sua crisi avviando una
trasformazione, sia pur incompleta, mentre il movimento comunista ha esaurito la
sua funzione storica almeno in Europa. Si è dunque trattato di due passaggi
molto diversi. Secondo uno studioso che ha scritto un libro discutibile ma
certamente interessante e ricco sul piano della ricerca, Carlo Baccetti (“Il
Pds”), la trasformazione del PCI ha oscillato tra due modelli diversi e a sua
detta poco compatibili: un partito radicale legato ai movimenti e aperto alla
società civile oppure un partito di programma ispirato alle socialdemocrazie
europee, costruito sulle competenze e volto verso l'obiettivo del governo. Non
so se questa alternativa sia così drastica; tuttavia il giudizio secondo cui la
trasformazione del PCI ha finito per oscillare tra esiti e modelli diversi mi
appare fondato.
Questa lunga premessa sulla vicenda del socialismo europeo, sulle sue conquiste
e sulla particolare vicenda italiana, mi serve per cominciare a descrivere un
quadro che si presenta assai problematico, nel nostro paese e in Europa. In
definitiva non c'è dubbio che il partito riformista di tipo tradizionale sia in
Europa sotto l'effetto di una trasformazione e di una crisi, che in Italia
insistono su una struttura che, per ragioni nazionali, mostra già una sua
peculiare incompiutezza e fragilità. Quali sono i fattori determinanti di tale
crisi del partito riformista? Credo che i suoi fattori determinanti siano stati
e siano tuttora due: da un lato l'aumento della complessità sociale e del
processo di individualizzazione del lavoro; dall’altro l'impoverirsi
progressivo del policy-making nazionale. L'analisi di due studiosi, Katz e Mair,
ha portato ad una definizione molto interessante, ripresa da Mauro Calise nel
suo saggio “il partito personale”, secondo la quale in Europa i partiti –
e in particolare i partiti riformisti - si sono sostanzialmente identificati con
lo Stato nazionale. Ora, l'impoverirsi progressivo delle risorse dello Stato
nazionale, delle sue risorse politiche, sotto l'incalzare della globalizzazione
economica e dei processi di integrazione politica sovranazionale, rappresenta
l'altro grande fattore di spiazzamento e di crisi del partito riformista. Il
grande interrogativo che si è aperto è se questa crisi segni l’esaurirsi
della funzione storica dei partiti riformisti, e in particolare del riformismo
di matrice socialista ridotto ormai ad essere una forza residuale in Europa; e
se in definitiva la stagione che abbiamo vissuto tra la metà degli anni Novanta
ed oggi, nella quale le forze socialiste sono state forze di governo in quasi
tutti i principali paesi europei, non abbia rappresentato una sorta di canto del
cigno del socialismo. D'altro canto se noi guardiamo al panorama dei risultati
elettorali, dei problemi aperti nel campo politico in Europa, troviamo riscontri
fattuali a questa analisi. Ma esiste un’ipotesi alternativa, e riguarda la
possibilità e la necessità di una rinascita del partito riformista in Europa.
E dunque dobbiamo chiederci se, in questo quadro, l’obiettivo non debba essere
quello della nascita di un partito riformista di tipo nuovo in Italia e su quali
basi una rinascita di questo tipo sia pensabile. Naturalmente nell'esaminare
questo problema non si può prescindere dalla forza dell'esperienza storica, pur
guardando coraggiosamente ai problemi di oggi e alle prospettive del futuro. Io
sono convinto di questa seconda tesi: ovvero che la crisi della forma storica
del partito riformista coincida in realtà con il massimo bisogno di riformismo.
Perché l'anarchia della globalizzazione capitalistica porta con sé rischi di
instabilità, di conflitti drammatici, di diseguaglianze, e diffonde paure che
la destra (anzi le destre, divise tra una destra apologetica-neoliberista che
cavalca l'idea della fine della politica e della storia ed esalta il dominio del
mercato come pieno compimento della vicenda umana, e una destra
neo-nazionalistica, neo-localistica, corporativa) non è in grado di domare. Le
destre non appaiono in grado di governare la nuova complessità neanche con
soluzioni neoliberiste: perché in definitiva quel tipo di destra ha come suo
postulato la rinuncia al governo della complessità e la convinzione che il
mercato di per sé risolverà il problema del progresso e del benessere. Anche
se questa convinzione ha vissuto una drammatica smentita nei fatti recenti:
pensiamo alla tragedia dell’11 settembre, al problema del terrorismo che non
è altro che l'altra faccia di una globalizzazione dominata dall’anarchia
capitalistica. E quelle destre che cavalcano una paura neo-nazionalistica,
neo-localistica nei confronti della globalizzazione, certamente non appaiono in
grado di guidare quel processo di costruzione di nuove forme politiche che la
globalizzazione richiede per essere indirizzata verso obiettivi di civiltà e
progresso.
La mia opinione è che queste destre, pur registrando una crescita di consensi
in Europa, non appaiono in grado di dare una risposta ai grandi problemi che le
nostre società vivono. Una vera risposta a tali problemi può venire soltanto
da una rinascita su basi nuove del riformismo. Ma la prima condizione per una
rinascita del partito riformista è innanzitutto che essa avvenga in un quadro
diverso rispetto a quello del riformismo nazionale. Il partito riformista può
riprendere vigore soltanto se si lega ad un progetto di carattere sovranazionale.
E oggi questo per noi significa concretamente un progetto europeo. La sconfitta
dei singoli partiti del socialismo europeo nasce anche dall'assenza di un loro
progetto comune sull'Europa, da un loro rinserrarsi dentro una visione tutto
sommato nazionale e tradizionale della funzione dello Stato-nazione. L'unità
politica dell'Europa non è mai stata in quanto tale l'obiettivo dei riformisti,
anche se indubbiamente le forze di ispirazione socialista e le forze di
ispirazione democratica, cristiana e liberale sono quelle che hanno concorso di
più al processo di integrazione europea. Tuttavia il progetto di un forte
potere democratico sovranazionale al centro di un nuovo federalismo europeo non
ha mai assunto il carattere di un obiettivo distintivo, qualificante del
riformismo in Europa. I diversi partiti del socialismo europeo sono rimasti
piuttosto prigionieri delle diverse ottiche nazionali con cui si è guardato al
processo di unità europea considerando questa prospettiva più come una
tendenza inevitabile che come un obiettivo per cui impegnarsi. La mia
convinzione è che questa sia una delle ragioni di fondo della sconfitta del
socialismo oggi in Europa. Le forze socialiste hanno guidato il processo di
avvicinamento dei diversi paesi europei alla moneta unica, hanno guidato
l'aggiustamento delle politiche di bilancio, hanno pagato un prezzo alto da
questo punto di vista in termini di politiche di austerità, senza riuscire ad
alimentare l'utopia concreta di un’Europa politica in grado di restituire ai
cittadini in termini di sicurezza, di politiche comuni per la pace, di politiche
comuni per l’immigrazione, la criminalità, l'innovazione, per il lavoro, ciò
che è stato loro tolto in termini di riduzione della disponibilità delle
risorse nazionali, delle possibilità di bilancio, per favorire una politica di
aggiustamento e di integrazione monetaria. La mia convinzione è che porre
questo tema - l'unità politica dell'Europa - al centro dei programmi riformisti
come cuore di un nuovo progetto riformista è la prima condizione per una
rinascita del riformismo in Europa.
Unità politica dell'Europa è un concetto che non può essere disgiunto da
un'idea forte del ruolo dell'Europa nel mondo. Non c'è dubbio che oggi viviamo
una crisi della concezione che le classi dirigenti europee hanno avuto della
funzione dell'Europa occidentale nel mondo. L'Europa occidentale nell'epoca
della guerra fredda è stata alleata degli Stati Uniti lungo la grande frontiera
di una competizione con il blocco comunista. Erano chiari i valori costitutivi:
la democrazia e il riformismo anche come risposta all'esperienza comunista. Il
riformismo si è fatto forte di una competizione in cui l'Occidente doveva
dimostrarsi superiore anche dal punto di vista dell’integrazione sociale,
della tutela degli interessi e dei diritti dei lavoratori. Il carattere del
modello europeo era fortemente definito nel quadro della guerra fredda, della
divisione del mondo. L'89 ha posto un interrogativo sul ruolo dell'Europa, un
interrogativo a cui le classi dirigenti europee non sono state in grado sin qui
di dare una risposta. Ha aperto grandi opportunità di unificazione dell'Europa
ma nello stesso tempo ha indubbiamente aperto una dialettica nel rapporto tra
Europa e Stati Uniti. È emersa l'insofferenza europea verso un mondo unipolare
senza che tuttavia gli europei si rendessero capaci di sviluppare politiche in
grado di promuovere l'Europa come attore globale: non in termini di antagonismo
con gli Stati Uniti ma sicuramente in termini di crescente assunzione di
responsabilità. Penso alla lentezza con cui ci si è mossi sul terreno di una
politica estera e di difesa comune dell'Europa. Ora non c'è dubbio che l'unità
politica dell'Europa cammina di pari passo con la ridefinizione del ruolo
dell'Europa nel mondo: attore globale in grado di sviluppare una partnership
responsabile con gli Stati Uniti, ma anche di sviluppare una propria autonomia.
Questa è a mio giudizio una condizione essenziale affinché si possa cominciare
a parlare di un governo della globalizzazione. Soltanto una pluralità di attori
sulla scena mondiale può dare un senso e una funzione alle istituzioni che
possono regolare la globalizzazione. Le istituzioni funzionano se c'è una
pluralità di soggetti, in un mondo unipolare le istituzioni sono strumenti
puramente tecnici. E c'è bisogno di un’Europa in grado di giocare il suo
ruolo sul terreno della riduzione delle diseguaglianze, sul terreno
dell'affermazione dei valori democratici che sono propri della tradizione
europea, sul terreno del riconoscimento di diritti universali, sul terreno della
costruzione della convivenza tra i diversi. Se pensiamo all'esperienza che
abbiamo vissuto dopo l'11 settembre ci rendiamo conto come una concezione
puramente militare del tema della sicurezza e della lotta contro terrorismo non
è in grado di garantire sicurezza né di sradicare il terrorismo o di prevenire
i conflitti, ma rischia soltanto di creare le premesse di nuovi laceranti e
drammatici scontri. In tutto ciò si registra una debolezza dell'Europa, una sua
peculiare incapacità a far valere il suo ruolo di attore politico globale.
Senza dubbio, da questo punto di vista, il Medio Oriente è il banco di prova
più evidente di una difficoltà dell'Europa politica. Se noi pensiamo che il
75% degli scambi commerciali di Israele sono con l’Unione Europea, che
l'associazione con l’Unione Europea è un pilastro della struttura economica
di Israele, che quasi il 100% degli aiuti ai territori palestinesi vengono
dall'Europa e mettiamo sulla bilancia quanto paga l'Europa e quanto conta
politicamente ci rendiamo conto di uno squilibrio insostenibile. Tale
difficoltà dell'Europa è una delle ragioni per cui fino ad oggi non si è
trovato una via della pace. L'assenza dell'Europa è, a mio giudizio, una delle
ragioni per le quali risulta più difficile trovare una via verso la pace.
Dunque una nuova stagione del riformismo deve muovere dall'assunzione di un
progetto sovranazionale che assuma il tema dell'unità politica dell'Europa come
cuore e che concepisca la costruzione europea nel quadro di una prospettiva di
governo della globalizzazione. Solo nella prospettiva Europa-mondo oggi è
pensabile una nuova stagione del riformismo. Il nuovo riformismo deve separare
il suo destino da quello dello Stato-nazione. Questo vale sia sul terreno del
rapporto con la costruzione dell'unità europea sia sul terreno delle sue
politiche. Le politiche riformiste di integrazione e promozione sociale non
possono più muovere intorno alla centralità dello Stato. Devono essere attente
alle comunità intermedie, sia a quelle di carattere istituzionale (e pensiamo
al ruolo cruciale che hanno le comunità locali come generatrici di un nuovo
tipo di welfare) che a quelle di carattere sociale. In un bel saggio di Giulio
Sapelli, comparso nell'ultimo numero della nostra rivista “Italianieuropei”,
si scrive che il nuovo riformismo deve essere cosmopolita e mutualistico.
Cosmopolita nel senso di separare il suo destino dal destino dello stato
nazionale, mutualistico nel senso di controbilanciare gli elementi di statalismo
propri della sua tradizione sulla base di una nuova visione del welfare. Un
riformismo capace di valorizzare la partecipazione, il volontariato e nuove
forme di welfare dal basso. È un riformismo ovviamente più aperto ad altre
culture perché questa visione della società appartiene a culture diverse da
quella socialista, che vengono sulla scena come elementi fondamentali per una
nuova stagione del riformismo.
Una nuova stagione del riformismo comporta una rottura con la tradizione
economicistica propria della sinistra che si è riconosciuta nel movimento
operaio. Ovvero l’emancipazione da quel primato della crescita quantitativa
che ha rappresentato a lungo, e ancora rappresenta in modo determinante, la
visione della società propria della sinistra di matrice socialista. Un
economista americano che è stato ministro del lavoro nell'amministrazione
Clinton, Robert Reich, ha scritto un bel libro su un tema cruciale: se cioè non
sia venuto il momento di mettere in discussione i criteri di valutazione del
successo, del successo individuale e del successo di una società o di una
politica. In questo libro egli testimonia la sua esperienza, la sua decisione di
cambiare vita. Talmente egli aveva introiettato la necessità di mettere in
discussione i criteri di valutazione del successo, che per poter vivere una vita
più serena e più felice ha deciso di interrompere il suo lavoro di ministro
del governo del paese più potente del mondo per dedicarsi ad un altro tipo di
impegno civile e sociale, umano e familiare. In questo libro egli scrive che
“il valore della nostra vita non si identifica con il nostro patrimonio, e la
società è cosa diversa dal Pil. Possiamo se vogliamo optare per una vita più
piene equilibrata così come più equilibrata può essere la società in cui
viviamo”. In definitiva indica un riformismo più attento alla qualità della
vita delle persone, alla riproduzione sociale oltre che alla produzione, alla
felicità individuale. Sono convinto che vi sia un rapporto di stretta
interdipendenza tra l'obiettivo di una più equilibrata ripartizione delle
opportunità di benessere su scala globale, e quindi l'obiettivo di un
riequilibrio del rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri, e l’affermarsi
all'interno dei paesi ricchi di una politica più attenta alle ragioni di
equilibrio della vita e meno attenta ad una rincorsa senza freni
dell’arricchimento individuale o collettivo. Una visione non economicista
della battaglia riformista spinge a pensare anche in modo nuovo alla
rappresentanza del lavoro.
Il testo di Giulio Sapelli a cui facevo riferimento analizza la crisi
irreversibile della rappresentanza socialista del lavoro. Certi dati sono
impressionanti: se noi pensiamo alla composizione sociale dei più recenti
risultati elettorali in Europa ci rendiamo conto che non esiste più una
rappresentazione politica lineare degli interessi del lavoro. D'altro canto
questo dato è già percepibile anche nel nostro paese. Quando molto tempo fa
dissi che la Lega Nord era una costola del movimento operaio non intendevo fare
l’occhiolino a Bossi, come è stato creduto a lungo. Si trattava semplicemente
di un’analisi dei risultati elettorali. Il Mulino pubblicò allora
un’analisi di grande interesse sul risultato elettorale nel Nord, da cui
emergeva che tra i tre milioni di voti presi allora dalla Lega un milione erano
voti operai e una parte non irrilevante dell'elettorato operaio della Lega era
iscritto alla CGIL. Ma questo fenomeno non è esclusivamente italiano: basta
pensare alla composizione del voto per Haider in Austria, o più recentemente,
ai voti per Le Pen in Francia. È interessante osservare come tutte le ricerche
mettano in evidenza anche una disgiunzione tra la rappresentanza sindacale - che
resiste e si trasforma – e la sua rappresentazione politica. Ciò tocca un
punto di fondo del partito riformista di tipo tradizionale, ovvero di quel
partito che ha concepito tradizionalmente il sindacato come uno dei canali di
rapporto con la società e con gli interessi della società. Mentre si conferma
la funzione insostituibile che il sindacato ha anche nell'epoca del lavoro
individualizzato, emerge una qualche separazione tra i destini del sindacato
rispetto a quelli della sinistra politica. Questa crisi della rappresentanza
socialista del lavoro non è soltanto rilevabile da un punto di vista
fenomenologico, come non linearità dell’espressione politica. Essa ha anche
ragioni profonde e strutturali: la rappresentanza socialista del lavoro si è
plasmata all'interno del riformismo nazionale. Oggi il lavoro non rappresenta
più una constituency i cui interessi siano rappresentabili in modo lineare sul
mercato politico, anche perché nel lavoro si rispecchiano interessi fra di loro
assai diversi e persino confliggenti. Ed è assai difficile pensare che questa
rappresentazione possa essere ricostruita attraverso un'idea tradizionale della
mediazione sociale. Un'esigenza di ricomposizione che certamente esiste e da cui
una forza di sinistra non può prescindere, ma che non può fondarsi sulla
rappresentazione lineare di un complesso di interessi di un mondo del lavoro
fortemente frammentato e conflittuale che sono difficilmente ricomponibili
attraverso tecniche tradizionali di composizione sociale.
Il vero grande problema, per una sinistra riformista, è puntare ad una
riunificazione che avvenga sul terreno progettuale. Un progetto che non può che
fare perno su due grandi idee forza: l'idea della libertà e l'idea della
sicurezza. L'idea della libertà come piena possibilità di affermazione delle
proprie facoltà, in un mondo nel quale sempre più l'autoimpiego, cioè la
pretesa di ciascuno di determinare il proprio destino lavorativo, diventerà la
condizione di tutti. La chiave di quest'idea della libertà come possibilità
per poter affermare se stessi è indubbiamente la cultura e la formazione. E la
sicurezza come costruzione di nuove reti di protezione del lavoro
individualizzato, che evidentemente dovranno avere una natura nuova rispetto
alle reti di protezione del lavoro tradizionale: anche perché la protezione del
lavoro tradizionale è nata largamente come proiezione nella società della
fabbrica. Se noi pensiamo al nostro paese, ma anche ad altri paesi, i diritti
dei lavoratori sono stati conquistati a partire dalla condizione di lavoratori
nella fabbrica. Le nuove reti di protezione debbono invece fondarsi su una
visione più universalistica della cittadinanza. Uno dei temi più d'attualità,
la riforma degli ammortizzatori sociali, che cos'è se non il passaggio da un
sistema di protezione costruito come proiezione della difesa della condizione
operaia a un sistema di tutela universalistico che si rivolge a tutti i
cittadini in modo più inclusivo? Soltanto l'affermazione di politiche volte a
promuovere sia la libertà, come possibilità di affermare pienamente se stessi
nel lavoro e nella vita sociale, sia la sicurezza, intesa come espansione della
cittadinanza e di una protezione sociale che non è più solo un diritto dei
lavoratori, consente di pensare a quella sinistra che parla a tutti, secondo la
bella espressione usata da Giuliano Amato nel suo ultimo libro. La sinistra che
parla a tutti è una sinistra che non pretende di rispecchiare una data
maggioranza sociale, che forse non c'è più, perché la politica non ha il
compito di rispecchiare le maggioranze che ci sono ma ha il dovere di costituire
le maggioranze intorno ad un progetto e ad una visione della società. Progetto
e visione della società che siano ricche di elementi di speranza e fiducia
verso un comune destino e che siano la condizione per combattere le paure delle
chiusure nazionalistiche, corporative, localistiche di cui si alimentano le
nuove destre.
Dunque il nuovo partito riformista, come lo si può immaginare, è un partito
europeo e cosmopolita. È un partito capace di nutrirsi di una pluralità di
culture. In questo senso è aperto il dibattito sul rapporto tra riformismo
italiano il socialismo europeo. È stato in questi anni un dibattito cruciale
che ha anche finito per alimentare molti equivoci perché, in qualche modo, lo
si è voluto raffigurare come una discussione di ceto politico, nel senso di
voler rimarcare una preminenza di un determinato segmento del centrosinistra. È
una discussione in parte inficiata da una battaglia di posizionamento dei
diversi settori del mondo politico del centrosinistra, ma se noi la liberiamo da
questi aspetti essa appare una discussione largamente superata. È infatti
evidente che se il riformismo italiano può affermarsi soltanto sulla base di
questa visione, esso non può confinarsi in un nuovo provincialismo e dunque in
una nuova anomalia italiana, ma deve collegarsi al riformismo europeo. E la gran
parte delle forze del riformismo europeo - non tutte ma certamente quelle
fondamentali - si organizzano nel socialismo europeo. Dunque questo legame è
essenziale, ma non perché vi sia una ortodossia socialdemocratica a cui ci si
deve ispirare (che come ortodossia è largamente messa in discussione dalla
storia) ma piuttosto perché vi è un campo di forze cui ci si deve collegare
per sviluppare una ricerca comune che punti a muovere oltre i confini della
tradizione socialdemocratica e a costruire una più vasta aggregazione di forze
riformiste e progressiste in Europa. Mi è capitato di sottolineare che in
qualche modo le forze moderate hanno avuto più coraggio nell'aprire il Partito
popolare europeo a componenti culturalmente molto diverse. Hanno fatto una
scelta che io non condivido, di tipo neoconservatore, ma indubbiamente hanno
avuto più coraggio nell'aprirsi di quanto non abbiano fatto i socialisti che
sono stati sin qui incapaci di chiamare a raccolta forze di matrice culturale
cristiana, liberale o ambientalista senza il cui concorso è difficile pensare
ad un nuovo riformismo in Europa. Dunque se questo è il tema o la prospettiva,
sul piano del modello di partito io non vedo l'alternativa tra partito
socialdemocratico e partito aperto alla società e ai movimenti. Credo che il
modello di partito cui si deve pensare è quello di un partito aperto, in grado
oggi di porsi al centro di una costellazione di forme antiche nuove di
partecipazione sociale e di ricerca culturale. D'altro canto la Fondazione che
io presiedo, guidata insieme a Giuliano Amato, non è un partito ma si propone
di essere una forma di partecipazione, di realizzazione di competenze, non
racchiusa in uno schema rigido di partito. E sempre di meno possiamo pensare che
le diverse forme di costellazione di sinistra si racchiudano nello schema rigido
di un partito.
Tuttavia resto convinto che questa costellazione deve essere innervata da un
partito politico di tipo nuovo, in grado cioè di essere collettore di diverse
forme di ricerca, di partecipazione, di collaborazione, in grado di formare
classe dirigente. Quello che è fondamentale ed è irrinunciabile
dell'esperienza socialdemocratica è proprio questo: il fatto che il partito
riformista europeo è volto al governo e mantiene l'obiettivo del governo come
centrale della sua azione. Come perno di questa costellazione c'è l'idea del
governo: la trasformazione sociale è governo della società. La vera
alternativa è dunque tra una sinistra che arretra rispetto una prospettiva di
governo, ma in quanto tale non sarebbe una sinistra riformista, e una sinistra
aperta alla società, culturalmente plurale e organizzata in una struttura non
centralistica e che tuttavia mantenga al centro di questa costellazione la
prospettiva del governo. L'obiettivo è elaborare progetti per il governo della
società e formare classe dirigente per il governo della società. Penso che la
possibilità di rilanciare su queste basi la prospettiva del riformismo in
Europa sia una prospettiva perseguibile. Troverei difficile trovare altre
risposte alle sfide e anche alle sconfitte. Perché le sconfitte sono spesso
momenti costruttivi che stimolano la riflessione e possono aiutarci anche a
vedere la realtà la italiana al di fuori di un'ottica provinciale. Abbiamo
discusso per circa un anno se la situazione italiana fosse qualcosa del tutto
singolare e legata addirittura ad una persona. Ovviamente c'è un'originalità
della vicenda italiana, ma è solo la versione nazionale di un processo più
complessivo. Così come anche la vittoria dell'Ulivo non fu il frutto di
un'invenzione italiana ma faceva parte di un ciclo: non a caso si accompagnò
alla vittoria dei laburisti inglesi, dei socialisti francesi, dei
socialdemocratici tedeschi ecc. Esiste un certo nostro provincialismo, per cui
siamo convinti che quello che ci accade, nel bene o nel male, sia frutto di una
straordinaria originalità del nostro paese. Ma il nostro paese fa sempre più
parte di una società politica europea ed è quindi più costruttivo rendersi
conto che un’opinione pubblica europea c'è già, perché in fondo dentro
questa società europea si manifestano tendenze abbastanza omogenea e le
risposte che si devono costruire sul piano politico sono omogenee, ferme
restando le diverse varianti nazionali. Credo che sia molto importante che la
sinistra italiana si metta in grado di partecipare a questa discussione. A me è
capitato di essere stato un profeta di sventura: qualche settimana fa a Parigi,
perché incalzato da tanti amici insieme solidali e sgomenti ma anche critici
dello sviluppo del caso italiano e preoccupati per la nostra democrazia, mi è
capitato di chiedere loro se fossero sicuri che quello che è successo in Italia
non fosse piuttosto l'anticipazione di problemi e di sfide europee. Oggi credo
che ragionerebbero in modo diverso. Effettivamente noi ci siamo resi conto che
siamo alle prese con qualcosa che va al di là della possibilità di essere
spiegato sulla base di un'analisi di corto respiro, tutta condotta sul terreno
della riflessione sulle tattiche politiche e non in grado di fornirci criteri di
interpretazione di processi più di fondo di sfide che richiedono più ambizione
anche sul piano culturale per poter essere affrontate. Per cui quello che è
essenziale è che la sinistra italiana si metta in grado di poter partecipare
pienamente ad una riflessione e ad un nuovo processo politico internazionale,
superando quelle divisioni e anche quel provincialismo del dibattito che hanno
rappresentato sin qui un limite.