Le parole politiche dovrebbero avere una data di scadenza. Passata la
quale andare obbligatoriamente fuori corso, salvo i casi in cui venissero
impiegate nel loro significato originario, sotto il controllo, però, di
un qualificato organismo tecnico di certificazione, quale l´Accademia
della Crusca o la direzione lessicografica dello Zanichelli. Non se ne può
più, infatti, delle parole multiuso che cominciano bene e finiscono
malissimo, imbrogliando le idee e confondendo le acque. Prendiamo l´attuale
inflazione di «riformismo» e «riformisti».
Chi
sono i veri riformisti
Usi e abusi di una parola
Gli acrimoniosi dissidi stanno a indicare che l´opposizione non sa dare
risposte esaurienti
L´antico vizio di attaccare la sinistra per essere più indulgenti verso
la destra
Un governo capace di elaborare una salda politica industriale nel quadro
europeo
Il lessico della politica può ingenerare confusione Ecco un
"breviario" per distinguere neofiti e vecchi seguaci del
riformismo
All´inizio, e per
quasi un secolo, la definizione identificava quei socialisti che
rifiutavano finalità di palingenesi rivoluzionaria e ambivano, invece,
assicurare per via democratico-parlamentare un miglioramento graduale
delle condizioni delle classi lavoratrici. Per contro i comunisti
(affiancati in Italia dalla corrente massimalista del Psi, che, come dice
la parola stessa, propugnavano un «programma massimo») inalberavano, sia
pure in chiave più teorica che pratica, l´obiettivo finale di una
rivoluzione proletaria, per instaurare un sistema alternativo a quello in
vigore. Nella lunghissima fase intermedia - chè altre, almeno da noi,
fortunatamente non se ne son viste - le lotte sociali e sindacali, sia
quelle di matrice riformista che quelle di stampo comunista, non si
differenziavano molto, se non, talvolta, per una qualche maggiore o minore
attenzione alle compatibilità del sistema, ovverosia all´equilibrio
economico. Come, ad esempio, quando, a cavallo del '68, venne escogitata
la formula del «salario, quale variabile indipendente». Ma furono, quasi
sempre, febbri passeggere, il buon senso riformista avendo la meglio in
ambedue i campi, a dispetto del fatto che quell´aggettivo suonasse
allora, per gli uni, timbro di autenticità e, per gli altri, sanguinosa
ingiuria.
Poi, con la caduta del Muro di Berlino, la corazzata comunista si trasformò
inopinatamente in un vascello fantasma, evocatore di incubi e tragedie,
disertato da equipaggio e passeggeri, mentre il barcone riformista si
presentò come un mezzo di salvataggio su cui tutti si aggrapparono. I più
lesti a salire a bordo furono anzi proprio i postcomunisti che occuparono
quasi tutti i posti di coperta, mentre i pochi, autentici titolari del
marchio sociale, sopravvissuti alla tempesta casalinga di Tangentopoli,
che aveva imperversato nel frattempo, dovettero accontentarsi di
strapuntini nella stiva o rifugiarsi su scafi corsari di dubbia compagnia.
Non sempre, peraltro, «nomina sunt consequentia rerum» e la riprova fu
fornita da numerosi neoriformisti, i quali, pur non rinnegando formalmente
il battesimo salvifico, riscoprirono presto la convenienza di andare dove
batteva il cuore di tanti che, pur non sognando ormai la rivoluzione
proletaria, avevano conservato, a guisa di rane di Pavlov, il riflesso
automatico ad autodipingersi come alternativi al sistema, alle regole
condivise, alle compatibilità (di Maastricht e no), agli impuri connubi
internazionali (la Nato ma presto anche l´Onu) e a quant´altro la
ragione suggerisse. Il barcone riformista, tra chi lo tirava secondo il
suo verso e chi volgeva le vele dall´altra parte, concluse così nelle
secche un periplo avviato col vento di Euro in poppa. A rendere ancor più
confusa e impasticciata la competizione anche gli skipper avversari
pensarono bene di innalzare stendardi riformisti, in nome della devolution,
dell´art.18, del presidenzialismo e di tutto l´armamentario caro ad una
destra, anch´essa obbligata a incanalare nell´alveo riformista le sue
pulsioni rivoluzionarie.
Questa forse inutile premessa dovrebbe servire a cogliere il senso di un
libro da poco uscito con l´intenzione di fornire sia un breviario di
riconoscimento per i «veri riformisti», sia, ad un tempo, sulla base
dell´esperienza vissuta nell´ultimo biennio, una mappa o portolano per
riprendere la navigazione. Lo hanno scritto i riformisti doc di prima
fascia (quelli che in funzione di teste d´uovo gravitavano attorno ai
governi Prodi, D´Alema e Amato): Boeri, Debenedetti, Ichino, Lombardi,
Manghi, Onofri, Ranieri, Rossi, Salvati, Targetti, Treu. Si intitola Non
basta dire No!, con il punto esclamativo finale piazzato, a mo´ di
riformismo grafico, al centro della ultima O e non, pedissequamente, al
termine della riga, mentre la prefazione è del direttore dell´eponimo
quotidiano, Il Riformista, giornale che, fedele alla tradizione e agli usi
di famiglia, per tre quarti fa le pulci alla sinistra e per un quarto alla
destra. Infine, per non smentire il carattere paradossale e trasversale
dell´attuale riformismo, il volume è pubblicato da Mondadori, la casa
editrice del presidente del Consiglio.
Scherzi a parte, i vari contributi sono fertili di spunti innovativi,
critiche argomentate, tentativi intelligenti per orientare la sinistra su
sentieri promettenti. Se, peraltro, un difetto ricorrente è dato
riscontrare, esso riguarda l´eccessiva attenzione prestata alla riforma
del mercato del lavoro, mentre «questa non era la vera priorità per il
paese, ma la continuità dell´intero processo di riforme», come spiega
Paolo Onofri nel suo saggio. Certo, «la radicalizzazione ideologica del
dibattito sull´art.18» non ha consentito di concludere con una
soluzione, a nostro avviso davvero riformatrice, quale quella proposta da
un altro degli autori del libro, Pietro Ichino, che consisteva nell´estendere
la protezione dai licenziamenti senza giusta causa anche ai dipendenti
delle piccole aziende che ne sono esclusi, demandando, per contro, al
giudice se imporre il reintegro o stabilire una congrua indennità
pecuniaria sostitutiva. Resta, quindi, ben vero «che la sinistra avrebbe
potuto e dovuto in questa occasione marcare la propria identità
riformista» (Nicola Rossi), ma, ciò detto, che senso ha oggi dedicare a
questo tema così ampio spazio?
Dopo tanto dibattere e manifestare, tonitruanti impegni del governo e
fermissimi «no pasaran» cofferatiani, sventolar di referendum e di patti
per l´Italia, tutto è stato riposto in soporiferi cassetti. La legge che
doveva sventrare l´art. 18 è stata rinviata a tempi migliori e, nel
frattempo, sembrano essersi volatilizzati i fondi promessi a Cisl e Uil
per aumentare le indennità di disoccupazione. Mai «tanto rumor per nulla»;
ma, se così è, perché sovrabbondare, come si fa nel libro, nel
discettare in proposito, a ogni pié sospinto, sotto le più diverse
angolature? Tanto valeva che i nostri autori, con la testa girata all´indietro,
senza cambiar postura, si tuffassero a rievocare l´altra virulenta
battaglia che, appena trascorsi 500 giorni di governo, su intimazione
improvvida di Bertinotti, si concluse nell´ottobre del '97, con le prime
dimissioni di Prodi sulla Finanziaria, peraltro rientrate qualche giorno
dopo, grazie all´impegno del Presidente del Consiglio di presentare un
disegno di legge sulla riduzione dell´orario di lavoro a 35 ore
settimanali, a partire dal primo gennaio 2001, in tutte le aziende con più
di 15 dipendenti!
Gli intellettuali riformisti che hanno collaborato al libro non stanno,
peraltro, volti solo con lo sguardo al passato e alle occasioni perdute.
Un programma qualificante per il futuro (un futuro che, però, può
cominciare fin da oggi, con un ripensamento nell´azione quotidiana) viene
articolato a più voci, con l´obbiettivo di «uscire - come teorizza
Michele Salvati - dal modello mediterraneo di tutela del posto di lavoro
per dirigerci verso una tutela del mercato del lavoro». Il punto di
partenza è dato dalla verifica del persistente alto livello di
disoccupazione (femminile e meridionale) nel nostro Paese, cui si
accompagna un bassissimo livello di occupazione. Peraltro, l´area,
relativamente ristretta, di addetti ai vari rami della produzione, appare
tuttora più rigidamente protetta di quanto non avvenga nei paesi dell´Europa
settentrionale, per non parlare degli Stati Uniti, dove, alla minor tutela
sul posto di lavoro, si accompagna, non solo una più bassa disoccupazione
e una più alta occupazione, ma anche un sistema di ammortizzatori sociali
orientato a garantire chi resta disoccupato. Di qui l´ambizione di
trasformare tutto il sistema degli ammortizzatori sociali, tenendo ben
conto - avverte Ferdinando Targetti - che «non si può chiedere ai
lavoratori di abbandonare l´antica liana della tutela a livello d´impresa,
senza che sia offerta in cambio una nuova liana di tipo europeo». Come
spiega Tito Boeri, che approfondisce l´argomento, «all´indomani dell´Euro
e con un allargamento della Ue verso paesi con un più basso costo del
lavoro, è legittimo cercar di trovare un diverso modo di proteggere i
lavoratori contro il rischio di disoccupazione, un modo che sia meno
costoso in termini di riduzione della crescita potenziale della nostra
economia». Ma è in grado la sinistra italiana e il sindacato, senza
lacerarsi tra chi difende la cittadella degli occupati a tempo
indeterminato e chi cerca spazio per gli esclusi, di proporsi un modello,
nel campo del lavoro, di Welfare sostitutivo: reddito minimo garantito,
consistente indennità di disoccupazione, istituzioni di formazione
continua in cambio di meno rigide difesa all´entrata e all´uscita dall´azienda,
come anche degli ammortizzatori di vecchio tipo, quali la cassa
integrazione, i prepensionamenti o altro ?
Questo resta, comunque, un crocevia obbligato se si vuol ricomporre un
quadro unificatore del mondo del lavoro, proponendosi, ad un tempo, un
rilancio produttivo. Si tratta - deve essere chiaro - di una riforma che
implica un notevole spostamento di risorse e di investimenti sociali, che
i nostri autori indicano in almeno mezzo punto del pil.
L´interrogativo che, comunque, ci siamo posti non sarà, peraltro,
risolto solo dalla maggiore razionalità della nuova impostazione rispetto
a quella oggi predominante. In quest´ultima si identificano, infatti,
strati e segmenti sociali deboli, non tanto in termini monetari, ma, come
dice Nicola Rossi «in termini di saperi e di conoscenze non conseguite o
ormai non più conseguibili... che chiedono di essere rassicurati e
protetti rispetto ai mutamenti... di poter difendere una identità
costruita spesso faticosamente e fatta non solo di posizioni di rendita ma
anche di conquiste di civiltà». E, allora, come può il riformismo, oggi
all´opposizione, «definire i termini di un nuovo compromesso sociale
capace di tenere insieme le ragioni della competitività con quelle del
modello sociale europeo... come liberarsi dai pesi del proprio passato per
tornare a riflettere liberamente sull´evolversi della società italiana
ed europea?».
Gli acrimoniosi dissidi all´interno della sinistra, la tenzone degli
eterni duellanti, D´Alema e Cofferati, il proliferare patologico di clan
e sigle del tutto superflue stanno ad indicare, oltre al persistere di
personalismi esasperati, anche la difficoltà di fornire una risposta
esauriente a quegli interrogativi. A meno di non concludere che in questa
fase non esiste una prospettiva di governo per una sinistra riformatrice
ma solo un arroccamento di lungo periodo all´opposizione. Se altro non è
dato, sarebbe bene che quanti lo credono lo motivassero esplicitamente, e,
del resto, il Pci è stato all´opposizione per quasi un cinquantennio
senza smarrire la sua ragion d´essere né l´aspirazione a presentarsi
come «un partito di lotta e di governo».
Chi, per contro, reputa ancora aperta una strada di rivincita sul centro
destra non può limitarsi ad elaborazioni per quanto razionali o a
impiegare il tempo attorno a temi quali «il portavoce unico» o le
primarie per il 2006. L´Italia sta perdendo i pezzi, le grandi industrie
tramontano, la scuola affonda, la ricerca scompare, la giustizia sembra
ferita a morte. La prova governativa di Berlusconi appare largamente
fallimentare ma anche alcune delle riforme varate dal centro sinistra,
soprattutto quelle federalistica e scolastica, hanno inferto colpi
gravissimi al Paese. La vicenda Fiat è esemplare. Come scrive Franco
Debenedetti nella postfazione del libro di cui ci occupiamo, essa, a
sinistra come a destra e nel governo, ha risuscitato l´invocazione all´intervento
pubblico e al mantenimento delle vecchie rigidità. L´ipotesi di un
ritorno all´auto di Stato, per quanto economicamente aberrante, può,
peraltro, trovare molti ascolti compiacenti. Se i riformisti vi si
accodassero o se vi contrapponessero, per contro, la loro tardiva
vocazione alle privatizzazioni e liberalizzazioni, ne uscirebbero,
comunque, perdenti. Occorrerebbe, forse, avere invece il coraggio di
riproporre, in termini aggiornati, il discorso che caratterizzò la
stagione del centro sinistra degli anni Sessanta e Settanta: il discorso
di un governo capace di elaborare e applicare una programmazione economica
indicativa, attraverso meccanismi selettivi ma automatici (e, quindi, non
clientelari e politici) d´incentivazione. Tornare, quindi, ad avere una
politica industriale che non risponda solo alla domanda immediata del
mercato ma agli interessi a più lungo termine della competitività
italiana nel quadro della nuova Unione europea e della globalizzazione.
Una visione di questo tipo potrebbe avere due effetti: il primo, di
ricostruire le basi oggettive per una riunificazione del popolo di
sinistra e delle sue rissose rappresentanze; il secondo, di riempire di
contenuti concreti un programma riformista che non si limiti a «dire No».
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