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Il «continuismo» di
sinistra
Ma Togliatti fu
sconfitto
I conti del Pci con la cultura del liberalismo furono fatti poco e male
di Biagio De Giovanni
dal Corriere - 23 agosto 2004
C’è un elemento che non convince dell’intervista concessa da Piero Fassino a
Paolo Franchi, pubblicata sul Corriere della Sera del 21 agosto, intorno al
ruolo e all’eredità di Palmiro Togliatti. E’ l’assenza di una parola, di una
espressione che, utilizzata, nominata, ne avrebbe mutato alcuni toni e avrebbe
consentito di trarre altre conseguenze. E la parola è: sconfitta. Sconfitta
della visione strategica di Togliatti, della sua visione del XX secolo, e delle
lotte accanite (e si potrebbe dire filosofiche) che lo hanno distinto. Senza
questo orizzonte essenziale, tutto il corso dell’azione di Togliatti sembra in
continuità con la storia presente, d’Italia e della sinistra italiana, e in
questa continuità, all’ultimo gradino di una successione di eventi e di nomi -
Longo, Berlinguer, Occhetto - compare, quasi risultato ultimo di essi,
«l’Ulivo». So di forzare le tesi di Fassino, che sono, per molti aspetti, più
ragionevoli e «discontinue» di quanto non abbia or ora segnalato. Ma francamente
non sembra sufficiente indicare lo stalinismo e l’Ungheria come due «errori»,
incastonati, per così dire, in una visione mirabile e compiuta sia della storia
nazionale sia delle forze che in essa si sono mosse, in grado di far da sfondo a
tutto ciò che viene dopo. Il secolo «di ferro e di fuoco» non ammette questa
divisione per sezioni. Le responsabilità politiche e morali in un secolo segnato
da una lotta all’ultimo sangue, e dall’irrompere dei totalitarismi, sono ancora
parte della storia presente. Tanto più che la ricordata sconfitta strategica
implicava sia un errore profondo nelle previsioni storiche e dunque nell’azione
politico-culturale (la vittoria finale del sistema organizzato intorno alla
rivoluzione d’Ottobre) sia il principio di uno scontro mortale con le
socialdemocrazie, il che ha impedito che la modernizzazione italiana potesse
esser retta da un governo della sinistra e il riformismo impiantarsi stabilmente
nella sua costituzione mentale. Conseguenze gravi per la storia italiana,
confrontata con quella di altre nazioni europee.
Tutto questo non è certo cosa da poco, anche se Togliatti rimane ovviamente un
fondatore della Repubblica costituzionale. Nell’orizzonte della grande storia,
l’errore di visione strategica (che, non dimentichiamolo, coinvolse solo in
parte minima la sinistra europea) implicò una battaglia campale contro la
collocazione occidentale - e per un lungo tratto europea - dell’Italia, che ha
straordinariamente pesato sulla storia della sinistra, e ancora ne condiziona,
nonostante tutto, alcune movenze. In quell’orizzonte, segnato da eventi
decisivi, la democrazia sembrava destinata a risolversi in una visione organica
della società, irreversibilmente governata dalla forza degli apparati di
partito. La storia italiana ne subì conseguenze: non basta ricordare la
prefazione di Togliatti al Trattato sulla tolleranza di Voltaire per dimenticare
i vuoti e le assenze che hanno pesato sulla storia nazionale. I conti con il
liberalismo, come cultura politica, furono fatti poco e male in Italia, non
tanto nel rapporto con gli intellettuali - dove genialmente la politica di
Togliatti conquistò l’egemonia, con effetti contrastanti - quanto nelle
rappresentazioni istituzionali della democrazia «progressiva», nelle forme
realizzate del compromesso italiano che non possono esaurirsi nel dettato
costituzionale, e nelle finalità generali dell’azione politica. Tanto più gravi
in un Paese postfascista, in cui la presenza storica del Vaticano aveva per suo
conto segnato alcuni tratti di una cultura politico-istituzionale illiberale (o
poco liberale) che solo la Democrazia cristiana storica, almeno in certe sue
componenti, ha contribuito più di altri a combattere.
Tutto ciò non è lontana premessa del presente, e anzi le questioni riaperte
dalla intervista di Fassino possono esser cruciali. La verità è che più la
sinistra italiana accentua le continuità, più ogni discorso sul suo rinnovamento
appare inutile e superfluo, e il conservatorismo politico-intellettuale diventa
vincente, come sembra che stia accadendo.
Perciò, il discorso sulle radici è parte dell’azione politica, e non si è
affatto più forti quanto più ci si assesta sulla continuità. Non dico che sia
stato fatto poco in questi anni, soprattutto nella pratica politica, e non solo.
Ma permane un senso di insoddisfazione e di parzialità, e continuamente si
rischia di esser risucchiati da un mondo che solo lo sforzo di un pensiero
costituente può lasciare definitivamente alle spalle. E’ ancora attuale, e in
che forma, una rivoluzione liberale nel nostro Paese, quella «rivoluzione» che
il centrodestra sta velocemente gettando alle ortiche? E’ paradossale dire che
questo è oggi il compito della sinistra riformista, dare alla socialità la forma
della libertà? E’ contraddittorio chiedere alla sinistra di essere parte
veramente convinta dell’Occidente liberaldemocratico? Di vincere l’antagonismo
di sistema che continuamente si riaffaccia? E’ possibile ridefinire in questa
luce l’interesse nazionale, dopo aver per l’ennesima volta riconosciuto (e certo
giustamente) che il partito di Togliatti guardò ad esso in modo nuovo?