1 Dicembre 2005
Amare
l'Italia: relazione di Pierluigi Bersani
Care compagne e compagni, cari amici, gentili ospiti,
siamo giunti fin qui dopo otto mesi di lavoro della Commissione Progetto che
ha impegnato più di 200 persone e dopo trenta iniziative programmatiche
promosse dal Partito. Voglio ringraziare tutti quelli che hanno partecipato
al nostro percorso. Voglio anche ricordare lo splendido lavoro che si è
svolto nella sala macchine del Partito: il Coordinamento, l’Organizzazione,
la Comunicazione, la Tesoreria. Il frutto di questo lavoro, adesso, è a
vostra disposizione.
Consegnando a Prodi, due settimane fa, il nostro contributo programmatico
alla coalizione dicemmo che a Firenze avremmo cercato di dare l’anima a quei
materiali. Proviamoci dunque, in queste tre intense giornate, con il
contributo di interlocutori nazionali ed europei che ringraziamo vivamente
per la loro presenza, e avendo alle spalle l'importante appuntamento di
Milano della Margherita rispetto al quale non ci è difficile, come si potrà
vedere, intrecciare positivamente temi e proposte.
Amare l’Italia. E’ questo il tema che dobbiamo svolgere. Qui non si parla
del futuro di un partito o di una coalizione. Qui si parla del nostro Paese,
del timore che possa non farcela a mantenere il suo posto nel mondo e ad
ospitare un futuro davvero migliore per le nuove generazioni. Si parla della
fiducia che abbiamo nella riserva enorme di energie che l’Italia può
esprimere e che devono essere suscitate attorno a un progetto. Un progetto,
una idea di Paese: sintetizzabile finché si vuole e comunicato al meglio,
auspicabilmente, ma non banalizzato in pillole demagogiche e miracolistiche.
Perché i problemi sono seri, perché non è più tempo di miracoli, perché noi
non siamo Berlusconi.
Se diciamo “progetto per l’Italia” allora ci prendiamo un primo impegno. Non
metteremo la bandierina sulle nostre opinioni programmatiche. Ci mettiamo
attivamente a disposizione di una sintesi che abbia quel tanto di radicalità
e quel tanto di moderazione che la situazione richiede e riconosciamo la
convenzione dell’Unione come luogo di quella sintesi e Romano Prodi come
responsabile primo di quella sintesi. In altre parole, stiamo dicendo che
non c’è bisogno di un classico governo di coalizione; c’è bisogno
semplicemente di un governo, di un governo di centrosinistra, di un governo
per l’Italia. Stiamo dicendo che il patto sottoscritto da 4 milioni e
trecentomila elettori dovrà trasferirsi in un accordo programmatico fra
forze politiche che garantisca la direzione di marcia e preservi e tuteli
l’autonomia della funzione di governo e cioè la voce univoca del governo
rivolta al Paese.
Un programma allude necessariamente ad azioni di governo, a fatti da
determinare. Ma i fatti, diceva Pirandello, sono sacchi vuoti e non
stanno in piedi da soli. I fatti hanno bisogno di senso, hanno bisogno
di una cifra, di una direzione. Su questo, fondamentalmente deve venire un
contributo dalle giornate di Firenze. Il compito dei Democratici di Sinistra
è di dimostrare che la grande e antica cultura riformista della sinistra
politica italiana può portare frutti nuovi e utili al progetto comune.
La prima grande e antica parola della nostra tradizione che vogliamo
pronunciare ancora, portandola al progetto comune è “umanità”. Una parola
che risuonò ai tempi delle primissime forme di auto organizzazione sociale e
di riscatto collettivo suscitato dal movimento socialista italiano ed
europeo. Sembrò allora, nel pieno di una cultura positivista, che
l’emancipazione sociale potesse darsi la mano con l’avanzamento impetuoso,
inimmaginabile, della scienza e della tecnica e con l’improvviso
avvicinamento dei luoghi e dei tempi del mondo: con l’irrompere insomma di
una fase inedita di globalizzazione. Si generò invece uno spaesamento; si
generarono prima nella cultura e poi nella politica reazioni difensive,
protezioniste, nazionaliste, razziste: si generò un desiderio di guerra nel
cuore dell’Europa. I grandi avanzamenti tecnologici e scientifici vennero
intensificati e piegati a trent’anni di violenza immane. La storia non si
ripete mai, ma non accetta mai di essere ignorata. Più di cento anni dopo
noi vogliamo ancora guardare alla nuova globalizzazione con gli occhi
dell’umanità, con l’idea che possa venirne un bene incomparabile per tutti
gli uomini e le donne del mondo. Ma il positivismo romantico è morto e anche
lo storicismo non sta benissimo. Il nostro sguardo adesso è critico; adesso
pensiamo che niente è scontato e che la politica deve intervenire nella
globalizzazione. Vediamo con chiarezza che non c’è controllo politico di
fattori essenziali all’equilibrio planetario e alle fondamentali relazioni
umane: i grandi pericoli ambientali, ad esempio, l’equa disponibilità di
materie prime essenziali, le grandi migrazioni, i flussi finanziari
fondamentali, la circolazione incontrollata della ricerca più sensibile, la
formazione di gravi zone d’ombra nella crescita mondiale e di divaricazioni
sociali nella divisione internazionale del lavoro, effetti dumping che
tolgono diritti a chi ce li ha prima di darli a chi non ce li ha, la
disseminazione planetaria del terrorismo, la proliferazione delle armi,
l’uso della forza senza legittimazione e la conseguente perdita di confini
fra la pace e la guerra. Immaginare un controllo politico delle grandi
criticità del mondo significa, se non si ha paura delle parole, immaginare
l’avvicinamento progressivo ad un governo democratico del mondo. Nessun
paese da solo, nemmeno il più forte, può infatti caricarsi di questo
compito. Multilateralismo, corresponsabilità, reciprocità, aggregazioni
regionali, riforme e rafforzamento di tutte le organizzazioni internazionali
come avvicinamento ad un nuovo ordine mondiale e come progressiva
globalizzazione della politica. Noi vogliamo riprendere i tratti distintivi
della politica estera repubblicana segnata dal dettato costituzionale che è
più attuale che mai. L’articolo 11 nasce non dalla testa di pochi uomini
illuminati ma dalla tragedia di milioni di uomini e parla del mondo di
domani. Noi siamo per una applicazione rigorosa dell’articolo 11 che indica
la strada di una sovranità via via condivisa fra le nazioni e che consente
l’uso della forza solo come mezzo di sicurezza collettiva, secondo i dettati
della Carta delle Nazioni Unite e secondo criteri che distinguono la
funzione di polizia internazionale dalla guerra, con l’unica deroga del
genocidio imminente. L’insieme di questi principi illumina le indicazioni di
politica estera che stiamo discutendo ai tavoli dell’Unione e che orientiamo
alla ricostruzione della reputazione e del ruolo dell’Italia nella comunità
internazionale. Se ne parlerà qui già da stasera. Io voglio solo ribadire
che i criteri con i quali condurre la battaglia senza quartiere contro il
terrorismo non sono per noi i criteri della guerra. Ribadiamo che la guerra
in Iraq è avvenuta fuori dalla legalità internazionale, ha colpito il
principio di una governance multilaterale del mondo, ha fornito spazi
ulteriori al terrorismo aggravando il problema che dichiarava di voler
risolvere. Oggi occorre una discontinuità. La gestione della crisi irachena
va internazionalizzata e posta al di fuori di ogni possibile logica di
occupazione. Se vinceremo le elezioni proporremo immediatamente al
Parlamento un calendario di rientro delle nostre truppe e rafforzeremo
l’iniziativa politica ed economica per sostenere una transizione democratica
in Iraq: una prospettiva molto difficile ma che comunque si è aperta dopo la
caduta di Saddam Hussein.
Nella costruzione del mondo nuovo non può mancare un grande protagonista,
l’Europa. L’Europa è la seconda grande parola che vogliamo pronunciare qui a
Firenze. A differenza della destra, noi parliamo di Europa criticamente non
perché ce ne è troppa ma perché ce ne è troppo poca. Così come è oggi
l’Europa non può parlare al mondo, non può partecipare davvero ad una nuova
regolazione dei processi globali, non può portare il suo contributo
peculiare, il suo proprio modo di declinare i valori democratici e
universalistici dell’occidente, dei quali è giustamente orgogliosa,
ponendoli al servizio di un nuovo assetto globale. La storia europea (che
alla fine, è l’unica vera identità dell’Europa) ci ha insegnato
drammaticamente che chi porta grandi valori sulle proprie bandiere può
calpestarli lui stesso; che quei valori dunque sono sottoposti ogni giorno
all’onere della prova e che la superiorità di quei valori sta nella capacità
di rispettarli e di evitare i doppi standard. La ricchissima e multiforme
storia europea ci predispone anche a riconoscere che, come ricorda Amartya
Sen, valori universalistici e forme democratiche di discussione pubblica
sono presenti in tante tradizioni del pianeta e che l’irrinunciabile
principio di maggioranza deve essere arricchito dalla permanenza di
istituzioni liberali, da presidi di partecipazione, dall’acquisizione di
diritti sociali. Dunque dall’Europa può ben venire l’idea che la democrazia
non è una formuletta, che si può essere orgogliosi di sé senza disprezzare
gli altri; che si può essere occidentali cercando la reciprocità e il
dialogo; che insomma si può essere occidentali senza fare la guerra. Se ci
fosse più Europa forse tutto questo lo si vedrebbe più chiaramente.
Tuttavia non potrà esserci più Europa se le difficoltà delle politiche
nazionali continueranno a scaricarsi sull’Unione Europea e se l’Unione
Europea continuerà a rimanere in mezzo al guado fra dimensione
intergovernativa e dimensione federale, fra allargamento e rafforzamento,
fra zona di scambio e soggetto politico. Noi diciamo che l’Italia deve
lavorare perché a partire dalla zona euro ci sia una assunzione di
responsabilità politica. La sfiducia e l’incertezza dell’opinione pubblica
europea e il prevalere di riflessi difensivi hanno radici ben evidenti. Tali
radici stanno all’incrocio fra economia e società, fra esigenze di
innovazione e di rassicurazione, fra crescita economica e riforma del
welfare. L’euro diventa una camicia di forza se non è accompagnato da una
politica economica comune, ma la politica economica comune non può esistere
senza la costruzione di un vero mercato interno dei servizi, dei prodotti,
della conoscenza, e un vero mercato interno non viene consentito senza
presidi sociali e di welfare rinnovati sì, ma percepibili e sicuri.
Così, in questo incrocio irrisolto, in Europa maturano elementi di distacco
e di sfiducia. La giusta ricetta di Lisbona stenta a diventare concreta. E’
giusto dire che in Europa non si può rilanciare l’economia distruggendo la
società. E’ giusto dire che l’Europa non può immaginarsi competitrice nel
nuovo mondo senza orientarsi alla conoscenza, alla qualità dei prodotti,
alla qualità sociale e ambientale. Ma tutte queste giuste affermazioni non
possono risolversi semplicemente in linee indicative; devono tradursi in
politiche di riforme comuni a cominciare dall’area dell’euro che deve
promuovere politiche di convergenza per i 25 e, se del caso, praticarle
direttamente. Il mercato interno deve essere integrato attraverso
liberalizzazioni e norme di concorrenza e semplificazione che si mettano in
equilibrio con processi di armonizzazione e di standardizzazione dei diritti
e delle garanzie. Non possiamo consentirci effetti dumping a cominciare dai
diritti del lavoro che colpirebbero al cuore il concetto stesso di
competitività europea; e ci sono tuttavia spazi enormi per smantellare
meccanismi corporativi e protezionistici, barriere improprie che impediscono
l’affermarsi di una figura di consumatore europeo. Inoltre, il
consolidamento industriale e tecnologico deve essere condotto secondo linee
di politica industriale a dimensione europea; devono essere finanziati a
scala europea progetti riferiti alle infrastrutture materiali e immateriali
e alla ricerca. Bisogna procedere a graduali armonizzazioni in campo
fiscale, a partire dalle basi imponibili, bisogna determinare i contenuti di
base delle politiche di welfare e di tutela sociale europee, rafforzare il
bilancio comune (che invece è a rischio in questi stessi giorni!) e così
via. Su tutto questo vogliamo che l’Italia assuma una iniziativa coerente,
forte, visibile uscendo da un balbettio euroscettico che non porta a nulla.
Noi partecipiamo ai problemi dell’Europa ma ne abbiamo di peculiari.
Problemi che ci fanno differenti e che hanno radici antiche. Abbiamo la
peggior demografia d’Europa e forse del mondo, e non risolveremo questo
problema con i baby bonus per ricchi e poveri, mentre le coppie non si
formano precocemente perché non si trova la casa e perché il lavoro è
precario; né lo risolveremo con un approccio emotivo ed irrazionale
all’immigrazione. Abbiamo un dualismo territoriale sconosciuto altrove e non
lo risolveremo mettendo le politiche per il sud all’ombra della devolution.
Abbiamo un debito pubblico che nessuno ha e che ci appesantisce e non lo
ridurremo lasciandolo crescere per la prima volta dal ’95 e gettando via il
patrimonio di avanzo primario che si era accumulato. Abbiamo il livello più
basso di istruzione e formazione e non lo alzeremo riducendo l’obbligo
scolastico. Abbiamo il più basso tasso di attività e non lo miglioreremo
edulcorando qualche statistica sull’occupazione.
Oltre a questi problemi strutturali le peculiari caratteristiche del nostro
assetto produttivo ci creano particolari problemi di fronte a questa fase di
globalizzazione e di fronte al ciclo tecnologico che è in atto. Con i nostri
settori di specializzazione e con la nostra dimensione di impresa è
indubbiamente più difficile metterci all’altezza della necessaria
internazionalizzazione ed è più difficile in particolare assorbire con
adeguate soluzioni organizzative le potenzialità enormi e pervasive delle
nuove tecnologie dell’elettronica, dell’ICT e di Internet. Va ricercato qui
il cuore del nostro problema che si manifesta come caduta della produttività
e che ci differenzia dal resto d’Europa (in due anni per noi meno 1.3, per
la Germania più 2.5, per l’Europa più 1.5, e pensare che eravamo i
Giapponesi d’Europa!). Questo è il problema e noi proponiamo di affrontarlo
con coraggio. Tutti devono essere chiamati a discuterne vedendone la
complessità senza scaricarselo addosso reciprocamente, fino a metterlo solo
sulle spalle del lavoro. Fin qui e in tutti questi anni questo problema non
è stato nemmeno visto dal Governo. Il passaggio di fase della nostra
economia e della nostra base produttiva non è stato visto dal Governo,
nonostante le battaglie politiche e parlamentari nostre e di tutta
l’opposizione e nonostante il ripetuto allarme delle forze sociali. Non è
stato visto che la selezione e la ristrutturazione che sono in corso, anche
a scala europea, da noi si traducono mediamente in un indebolimento; un
indebolimento che produce perdita di orizzonti e umor nero negli attori
economici, produttori o consumatori che siano. Ecco la responsabilità vera
dei governi di centrodestra: non aver guidato la reazione del Paese, aver
piegato le evidenti ragioni della realtà alle illusorie ragioni di un sogno
da vendere a buon mercato. Politiche a rovescio, politiche generiche,
politiche delle briglie sciolte e dell’asticella bassa, politiche della
rottura e dello scontro sociale, politiche del prender tempo aspettando che
faccia bel tempo, politiche dei condoni parossistici, delle una tantum,
politiche di aumento e di dispersione della spesa corrente, di azzeramento
progressivo degli investimenti e dell’avanzo primario, di aumento del
deficit senza stimolo alcuno alla crescita, politiche infine di riforme a
orologeria con il timing dei costi politici o economici puntato sulla
prossima legislatura.
Dentro a tutto questo, la crescita incontrollata sotto la pelle del Paese di
una nuova e grande questione sociale sulla quale qui a Firenze vogliamo
accendere i riflettori. Molti fenomeni nuovi hanno in questi anni
determinato una redistribuzione a rovescio: l’asimmetria degli effetti della
globalizzazione sulle diverse componenti del corpo produttivo e sociale; lo
spostamento verso la rendita e l’intermediazione e non verso la produzione e
il lavoro dei benefici inediti di una stagione di bassi tassi di interesse,
la singolare incuria con cui da noi, e solo da noi, è stato introdotto
l’euro: questi fenomeni hanno alleggerito alcuni e appesantito altri degli
effetti della bassa crescita. Alcuni si sono arricchiti, molti altri si sono
impoveriti: le fasce di reddito medie, medio-basse e basse e le imprese più
esposte alla competizione, rispetto a quelle che potevano tenersene più al
riparo. Sono emersi problemi acuti e vere emergenze che pensavamo di avere
alle spalle. La quarta settimana per i redditi più bassi, la casa per chi
non la possiede e così via. Pensionati, lavoratori, giovani, famiglie hanno
misurato il peso di una vita più difficile e più insicura.
Ancora una volta tutto questo non solo non è stato visto; non solo non è
stato corretto ma è stato invece aggravato. Si è fatta una redistribuzione a
rovescio dentro alla Waterloo delle politiche fiscali. Si è abbandonata ogni
politica dei redditi. Non si è restituito il fiscal drag, si è preso a
riferimento un tasso di inflazione irrealistico, si è rinunciato ad ogni
iniziativa sui sistemi tariffari e sul condizionamento dei prezzi più
sensibili, si è colpito il welfare locale, si è consentito che abitualmente
i contratti si chiudessero con almeno un anno di ritardo, come sta avvenendo
per i metalmeccanici che domani sono in sciopero e ai quali facciamo
giungere da qui il nostro saluto e la nostra solidarietà. Insomma si è
guardata l’Italia con gli occhi e con il cuore di chi si arricchiva e non di
chi si impoveriva. Per lui solo frasi demagogiche, misure ingannevoli e
promesse a ruota libera (ne ascolteremo altre, di queste promesse, già nelle
prossime ore; sulla casa, ad esempio, con un piano che se applicato vedrebbe
i primi risultati tra 5 o 10 anni e che non darà nessuna risposta concreta
ai bisogni di oggi). Dunque il nostro Paese non è cresciuto e ha
ridistribuito al contrario, eppure nessuno può dire che in questi anni la
priorità dell’azione di governo abbia avuto qualcosa a che fare con tutto
questo. La maggioranza di governo ha esercitato la sua forza, la sua
convinzione, la sua tenacia, la sua efficienza in tutt’altra direzione, una
direzione totalmente avulsa dalla vita reale del Paese: lo stravolgimento
costituzionale, il ribaltamento del sistema elettorale (che più lo si
guarda, più si rivela un pasticcio di proporzioni bibliche!), l’adattamento
meticoloso e pervicace delle norme giuridiche ad esigenze personali, lo
smantellamento con le parole e con i fatti di elementi essenziali dell’etica
pubblica, l’apertura aggressiva e revanscista di fronti ideologici usati
come diversivo.
Tutto questo ha creato delusione in grande parte dell’elettorato. Non sarà
facile per il centrodestra coprire i fallimenti vecchi con promesse nuove,
così come cercherà di fare. Nè gli sarà facile il gioco delle tre carte con
i tre leader, che sono in realtà le facce diverse della stessa delusione e
degli stessi fallimenti. L’elettorato ha mostrato in questi anni la
disponibilità a sostenere attivamente l’alternativa dell’Unione. Non è una
acquisizione scontata, ma una possibilità che si apre alla nostra proposta.
Noi desideriamo che l’Unione si rivolga al Paese con un linguaggio di verità
e con la serenità e la fiducia che derivano dalla consapevolezza dei
problemi e dalla volontà concreta di affrontarli. Chi governerà troverà una
situazione molto, molto difficile. Lo sappiamo noi e lo sanno gli italiani.
Non prometteremo tuttavia lacrime e sangue. Tanti cittadini vanno sollevati
da condizioni di debolezza e di disagio, di insicurezza e di precarietà.
Dovremo farlo. Non lacrime e sangue dunque ma rigore sì, spirito civico sì,
fedeltà fiscale sì, sforzo collettivo e condiviso, reciprocità,
concertazione.
La prima parola che vogliamo dire a proposito della questione economica e
sociale è la parola più naturale e vera per un grande partito della
sinistra. Vogliamo un’Italia più giusta, ecco la parola. Senza equità
non risveglieremo le energie di questo Paese e non ci rimetteremo in
cammino. Proponiamo di cominciare a ridurre da subito la forbice che si è
aperta nelle condizioni sociali. Si potrà ritrovare questa chiave nelle
nostre proposte di politica fiscale (rafforzamento degli effetti
redistributivi, imposta negativa, strumenti concreti di lotta all’evasione).
Si potrà ritrovare questa chiave nel progetto di riduzione degli istituti
della flessibilità e di contrasto alla precarizzazione. Si potrà ritrovarla
negli impegni sulle punte più acute del disagio sociale (la non
autosufficienza, la casa), nell’approccio universalistico, di responsabilità
pubblica e non di mercato ai bisogni fondamentali (salute, sicurezza,
istruzione), nel rilancio di luoghi e strumenti di politica dei redditi e di
osservazione attiva delle dinamiche delle tariffe e dei prezzi e
nell’attenzione al ruolo degli Enti locali e alla funzione decisiva del
welfare locale.
L’idea di un’Italia più giusta emerge inoltre in punti cruciali della nostra
proposta, laddove in modo più evidente economia e società si danno la mano.
Deve essere chiaro ad esempio che per noi è inaccettabile mettere un
tredicenne al bivio fra il sapere per il sapere e il sapere per il fare. Per
noi è un’ingiustizia e questo già basterebbe; ma è un’ingiustizia che si
traduce in una inefficienza e che già oggi sta mettendo in discussione
inevitabilmente il ruolo centrale della formazione tecnica. Per noi è
inaccettabile, come ingiustizia e come inefficienza, il grado di
precarizzazione e di sottosalario cui è costretta parte grande della nuova
generazione. Per noi è inaccettabile e inefficiente che a parità di lavoro,
a parità di tempo e a parità di qualifica ci sia differenza di salario fra
donne e uomini, o fra immigrati e cittadini italiani; così come è assurdo e
non tollerabile che il ripiegamento dei dati sull’occupazione nel
mezzogiorno torni a colpire i giovani e le donne. In questi e in altri casi
ci sono ingiustizie che disperdono risorse e che immobilizzano energie
necessarie per la riscossa del Paese. Ce ne occupiamo nelle nostre proposte
in modo concreto su ogni punto collegando intimamente le politiche sociali
alle politiche della crescita sostenibile. Del resto, lo ha detto spesso
Romano Prodi e lo ripetiamo anche noi, non ci può essere una politica dei
due tempi nè fra crescita ed equità né fra crescita e risanamento della
finanza pubblica. Certamente la fiducia di investitori e consumatori non può
muoversi senza la certezza di una finanza pubblica sotto controllo. Oggi
questo controllo non c’è perché non c’è governo vero dei grandi aggregati di
spesa corrente, aggregati che non si lasciano dominare con le politiche
inique ed illusorie degli tagli o dei tetti, ma solo con una qualificazione
razionale ed efficace dei meccanismi interni che determinano la spesa. Oggi
questo controllo non c’è perché non c’è sicurezza nelle entrate fiscali, una
sicurezza che non si ottiene derogando di volta in volta alle leggi, ma
allestendo invece una fiscalità più rispettosa del contribuente ma che non
deroga e non strizza l’occhio a nessuno. Nelle nostre proposte non si
troverà l’impegno ad una generalizzata riduzione fiscale ma l’impegno ad un
riorientamento del carico fiscale secondo una ispirazione più nettamente
redistributiva ed un privilegio del lavoro e della produzione rispetto alla
rendita con l’allestimento altresì di strumenti e di politiche capaci di
scoraggiare l’evasione e l’infedeltà fiscale.
Nelle nostre proposte c’è una riforma del meccanismo di formazione del
bilancio dello stato, c’è in particolare l’allestimento di una
corresponsabilità nel controllo a tempo reale della spesa fra Stato, Regioni
ed Enti locali, c’è l’attenzione ai meccanismi di sostenibilità
finanziaria nei comparti più cruciali , come la sanità. Noi siamo per
una seria politica di bilancio. Non ci piacciono i buchi perché non ci
piacciono le stangate, perché non ci piace lasciare ai figli solo problemi e
debiti, perché vogliamo ricostruire un minimo di spazio per rafforzare gli
investimenti e quindi il capitale sociale del nostro Paese. L’equilibrio di
bilancio, lo ripetiamo, è un problema serio da affrontare con linearità e
rigore. Ma non lo vediamo come la stella polare dell’azione di governo. La
stella polare dell’azione di governo è l’economia reale del nostro Paese e
la sua possibilità di crescere in modo sostenibile e socialmente
equilibrato. A proposito di priorità teniamo ben a mente un dato. Fatta
cento la produzione industriale manifatturiera del 2000 nel settembre 2005 i
Paesi della zona euro sono a 103.3, la Germania a 107.3 e l’Italia a 94.5.
Vogliamo ancora stupirci che il nostro PIL viaggi a 0.1-0.2 e quello europeo
a 1.2-1.3, e che siamo cioè finiti in fondo alla classifica europea quando
nel 2000 eravamo nelle zone alte? Per questo, dopo quindici anni chiediamo
con forza che la struttura e l’azione di governo vengano organizzate
puntando all’economia reale. Innanzitutto dobbiamo stimolare una riscossa
sul piano della produzione industriale e dei servizi e rispondere con
chiarezza ad una domanda radicale: quale struttura industriale immaginiamo
per l’Italia fra dieci anni nella nuova divisione internazionale del lavoro?
Noi rispondiamo a questa domanda attorno a tre punti chiave che si
possono sintetizzare così.
1. Nei settori a grande economia di scala (dall’aerospazio alla
siderurgia, dall’auto alla chimica, dal ferroviario alla cantieristica) noi
dobbiamo predisporci per tempo a partecipare in modo non subalterno ad una
ulteriore fase di consolidamento, di concentrazioni e di alleanze che si
determineranno a scala continentale e a scala mondiale. Dovremo a questo
fine organizzare risorse di diplomazia economica, di sostegno alla ricerca,
di committenza pubblica;
2. Noi a differenza di altri Paesi europei non potremo rinunciare alla
manifattura dei beni di consumo. Possiamo immaginare un
ridimensionamento quantitativo per addetti e per numero di imprese ma in
forme tali da essere compensato da un più alto valore aggiunto, da mix
professionali più elevati, dallo sviluppo dei servizi collegati. Servirà
dunque una politica energica di accompagnamento al rafforzamento e alla
selezione del nostro sistema di piccole e medie imprese. O da sole, o in
filiera, o in rete, o in consorzi molte nostre imprese dovranno dotarsi di
complessità organizzative tali da trarre vantaggio dal ciclo tecnologico e
tali da consentire lo sviluppo di funzioni indispensabili per
l’internazionalizzazione: funzioni di commercializzazione e di logistica,
marchi, ricerca e innovazione, finanza. Bacini di subfornitura dovranno
essere tenuti in rete con operazioni di qualificazione da promuovere e
sostenere. Anche le piccole e medie imprese di successo a cominciare dalla
meccanica, dovranno consolidarsi, accorparsi, crescere per reggere le nuove
sfide. A tutto questo le politiche pubbliche, industriali e fiscali dovranno
fare sponda organizzando le energie (associazioni, banche, terziario
professionale) attorno ad obiettivi chiari e condivisi. Intanto, (e avremmo
già dovuto farlo in questi anni!) dovremo prendere un po’ di tempo con
ragionevoli misure difensive nazionali ed europee consentite dalle norme sul
commercio e sulle quali fin qui si sono fatte molte chiacchiere demagogiche
ma ben pochi fatti; dovremo avere qualche strumento nuovo per le crisi e le
transizioni industriali;
3. Tutto questo non basterà. Bisognerà sviluppare attività economica in
settori nuovi.
4. Noi individuiamo questi settori nei nuovi ambiti tecnologici, nell’ambiente,
nella logistica, nel turismo e nei beni culturali. Più
in generale abbiamo margini evidenti di iniziativa nel grande campo dei
servizi, a cominciare da quelli di utilità sociale. Abbiamo proposte in
ciascuno di questi campi molti dei quali investono direttamente il
Mezzogiorno. Voglio citare in particolare l’efficienza energetica come
grande campo di attività economica. Il singolare privilegio di avere
l’energia più cara d’Europa ci consente di attivare risorse di mercato per
l’efficienza energetica e per il risparmio energetico sia nel campo
industriale sia nei luoghi di vita, l’abitazione e la città.
Non sarà difficile cogliere nei materiali che presentiamo una idea di
crescita largamente collegata a dimensioni qualitative e a concetti di
sostenibilità. Ad esempio, non ci sfugge che l’agricoltura italiana è
davanti al passaggio più impegnativo della sua storia moderna, con una
riduzione grave di margini e di redditività. Non ci sfugge che anche qui ci
sono regole della concorrenza da ridefinire, politiche di rafforzamento
delle imprese agricole e di trasformazione da attivare, una riforma europea
da perfezionare, un legame industria-agricoltura da stringere meglio e di
più. Ma la grande scelta strategica è comunque l’agricoltura di qualità,
sono le produzioni distintive, è il rapporto creativo fra valori
imprenditoriali, valori ecologici, valori della ricerca, valori del
territorio da proporre al mercato e al consumatore. La valorizzazione a fini
economici ed occupazionali dei beni culturali e ambientali e delle
potenzialità turistiche avviene sempre secondo linee di qualificazione e di
preservazione attiva delle enormi risorse disponibili (il calo del turismo è
impressionante e chiameremo tutti a questo proposito ad una grande
operazione nazionale). Lo sviluppo di settori tecnologici avviene secondo
linee di inserimento delle tecnologie nella vita sociale, nella pubblica
amministrazione, nelle imprese e secondo linee di sviluppo di nuova impresa
in settori strategici e “leggeri” (elettronica, telecomunicazioni e spazio,
biotecnologie, nanotecnologie, nuovi materiali) anche in relazione positiva
con i nostri settori di tradizione. La rivisitazione delle città come nuovi
distretti della produzione della conoscenza e come luogo di nuove risposte
sociali, a cominciare da quella abitativa e della casa in affitto, avviene
secondo linee di riqualificazione di comparti urbani e di forte logica
ambientale. Invito a leggere, a questo proposito, l’approccio originale che
assumiamo nel progetto città. Anche per le infrastrutture proponiamo quel
ribaltamento concettuale che fu alla base del Piano Generale dei Trasporti,
in questi anni dimenticato e tradito, in nome della mitizzazione impotente
dell’opera pubblica che ha generato mille priorità e nessuna vera
realizzazione ed ha dato luogo ad un processo che, lo abbiamo denunciato più
volte, ha ridotto la logistica alla mobilità, la mobilità
all’infrastruttura, l’infrastruttura all’opera pubblica, l’opera pubblica
alla lavagna propagandistica allestita in uno studio televisivo. L’obiettivo
per noi è la mobilità sostenibile e lo sviluppo di una logistica moderna.
Per questo ci vogliono nuove regole, nuovi attori industriali, sviluppo di
tecnologie e ci vogliono certamente opere che partano dai colli di bottiglia
e dagli snodi fondamentali del sistema, dai grandi assi di comunicazione
continentale (Torino-Lione compresa), dal ferro e dal mare secondo priorità
onestamente dichiarate e compatibili con le risorse, e secondo modelli di
“democrazia efficiente” che garantiscano sia la partecipazione, sia la
decisione. Secondo questo modello si sono fatte le uniche grandi opere che
si vedono, tutte quante cantierate dal centrosinistra. Secondo questo
modello di partecipazione, di compromesso, di decisione si sta ad esempio
realizzando l’impressionante galleria ferroviaria tra Firenze e Bologna.
Quando parliamo di energia, non parliamo di cose per l'Italia ormai
totalmente antieconomiche come il nucleare (al netto naturalmente della
ricerca sul nucleare di nuova generazione): parliamo di efficienza
energetica, di fonti rinnovabili, e in particolare di regole e di
infrastrutture capaci di aumentare la disponibilità di gas metano
abbassandone finalmente il costo; parliamo di investimenti diretti a mettere
in campo produzioni elettriche a più alto rendimento per espellere via via
quelle più costose ed inquinanti, come sta già avvenendo dopo la riforma.
Quando parliamo di sviluppo industriale dei servizi parliamo di servizi di
utilità sociale, come l’acqua, ma parliamo altresì di servizi
professionali e gestionali e di servizi alla persona in grado di
accompagnare (se aiutati a crescere in qualità e dimensione), sia le nuove
esigenze dell’apparato produttivo sia i bisogni più articolati e più
complessi delle famiglie e delle persone; fino al ruolo non di mercato
ma di grande rilievo economico e sociale del terzo settore che dovrà
assumere nelle prospettive del paese un ruolo più qualificato e più
strategico. Insomma, nel nostro lavoro c’è l’idea che la sostenibilità possa
essere anche un motore e non solo un condizionamento della crescita.
Tutte le politiche che ho elencato fin qui, sociali, economiche e
industriali che siano, hanno l'occhio rivolto al mezzogiorno. Per la
prima volta da anni il sud cresce addirittura meno di un paese che cresce
quasi nulla. Siamo quindi alla prova conclamata del fallimento delle
politiche di governo; ma soprattutto siamo di fronte a dati davvero molto
preoccupanti che non posso riprendere qui, ma che sono ben noti. Noi
organizziamo la nostra proposta per il sud sulla priorità sicurezza -
legalità - etica degli affari; sulla opportunità - mezzogiorno come
piattaforma logistica ed economica fra Europa ed Asia, oltre che fra Europa
mediterraneo e Balcani; sulla risposta alle condizioni di povertà essendo
chiaro che la forte ispirazione redistributiva del nostro programma
economico e fiscale interessa in particolare il sud; sugli investimenti in
settori come la mobilità, l'acqua ed i centri urbani; sull'animazione di
attività economiche come l'agricoltura di specializzazione, il turismo,
l'industria oltre la specializzazione e verso i settori tecnologici. Per noi
le risorse disponibili di derivazione europea nazionale e regionale dovranno
essere utilizzati in parte per forme di fiscalità di vantaggio su
investimenti e occupazione; in parte su interventi selettivi a favore
dell'industria e della ricerca secondo procedure stabili e chiare. Per la
parte principale, tuttavia le risorse dovranno essere indirizzate a beni e
servizi collettivi sulla base di un numero più ridotto di programmi e di
misure e con progetti di soglia adeguata, meno numerosi, dunque, ma più
incisivi e con garanzia di essere completati. L'esigenza principale tuttavia
è che “mezzogiorno” torni ad essere una parola pronunciabile con serietà e
che venga espulso dal governo del paese il cinismo irridente di chi ha
smobilitato ogni politica per il sud, ha praticato spesso vere e proprie
politiche di svantaggio per il sud e in cambio dispensa con tono saccente
idee, balorde per lo più, come quella della “banchetta del sud”.
Cari compagni, cari amici,
noi vogliamo definire così i nostri grandi obiettivi di politica economia e
sociale: una società più giusta, più dinamica e aperta, più colta. Più
politiche pubbliche e più mercato.
Partiamo dunque anche dall’esigenza di aprire e regolare nuovi mercati fuori
da assetti monopolistici e corporativi, su standard che garantiscano
sicurezza e qualità per il consumatore, fondamentali clausole sociali per
gli operatori, investimenti e crescita industriale. Quando una
liberalizzazione ha queste caratteristiche, per noi è di sinistra! Ci
predisponiamo dunque con convinzione ad azioni coraggiose in questa
direzione. Non posso fare qui il lunghissimo elenco dei settori nei quali
intervenire. L’elenco va dalla capacità di venire a capo del prezzo
esorbitante del latte in polvere, fino alla simpatica ipotesi di avere un
po’ di treni che viaggiano adesso che abbiamo i binari raddoppiati dell’alta
capacità! Treni che portino merci, treni che ci sgombrino le strade e che
sarà possibile veder correre solo aprendo le regole a nuovi investitori e a
nuovi attori industriali.
Il tema cruciale dell’apertura di nuovi mercati non può in nessun modo
essere sovrapposto al tema delle privatizzazioni o a quello del rapporto
pubblico-privato. Le due cose devono rimanere distinte sul piano concettuale
e sul piano pratico. Nei prossimi anni abbiamo bisogno di risultati. Bisogna
insomma che il gatto mangi il topo e che si raggiungano obiettivi
industriali in termini di investimenti, di crescita dimensionale, di nuove
attività economiche in particolare nel Mezzogiorno. Bisogna che tutto questo
avvenga sotto l’occhio vigile dell’Antitrust, dentro a trasparenti regole di
mercato e nel pieno rispetto delle regole europee. Diciamo pure che se per
questa strada corre il gatto privato non c’è ragione che corra il gatto
pubblico. Diciamo che la vocazione del pubblico sta ovviamente più nelle
reti che nelle attività. Diciamo che andrà disboscata e riorganizzata la
confusa pletora di società pubbliche a finalità indefinita che il
centrodestra ha prodotto. Aggiungiamo che, avendo noi promosso le più grandi
privatizzazioni d’Europa, non si potrà certo attribuirci un pregiudizio. Ma
una privatizzazione, in particolare nei servizi (e scontando, lo ripeto,
l’ovvio rispetto delle regole europee) deve motivarsi anche per ragioni
industriali e non solo per ragioni ideologiche o per la cassa, che può
svuotarsi di nuovo il giorno dopo. La questione per noi va presa da un altro
lato. Abbiamo bisogno di investimenti in nuove attività economiche, nella
produzione e nei servizi. Se si determina il clima giusto (ed è il governo
che ne ha la prima responsabilità) si possono creare spazi per tutti, per
l’impresa capitalistica italiana e non, per l’impresa cooperativa, per le
municipalizzate e le imprese a proprietà pubblica, per i soggetti della
finanza, con pari dignità e pari condizioni. L’importante è che le regole di
concorrenza riducano progressivamente i luoghi meno esposti alla
competizione che tendono a diventare il rifugio più comodo per i capitali.
Abbiamo detto fin qui: politica dei redditi e dell’equità sociale, politica
della produttività, politica della crescita sostenibile. Ecco allora il
campo dentro al quale organizzare lo sforzo collettivo e rilanciare una
concertazione che viva su obiettivi leggibili che toccherà al Governo
indicare e che possono impegnare l’arco della legislatura. Un patto insomma
che si lasci misurare dai risultati e che valorizzi non nelle ritualità ma
su scelte impegnative il ruolo degli attori sociali, sindacali e di impresa.
Nessuno di questi obiettivi può essere raggiunto, secondo noi, se si
persegue una svalorizzazione del lavoro. Non è compatibile con la
qualificazione e la competitività del sistema lo sviluppo parossistico del
numero delle figure contrattuali, l’atomizzazione delle relazioni sociali,
la scelta di imprese che si organizzano solo sulla precarietà del lavoro, la
disponibilità unilaterale del tempo di vita e di lavoro delle persone. Noi
non neghiamo la flessibilità. Noi vogliamo superare la legge 30 cancellando
le tipologie più precarizzanti e peraltro più estranee alle esigenze delle
imprese. Vogliamo rafforzare con presidi di welfare essenziali forme di
flessibilità ed evitare che coincidano con il sottosalario. Vogliamo
incoraggiare la prevalenza del tempo indeterminato che peraltro non coincide
più né con il concetto di rigidità né con l’idea di un solo lavoro per tutta
la vita. Vogliamo sostenere processi di qualificazione e di formazione lungo
l’intera vita professionale. Non a caso la parte forse più ambiziosa delle
nostre proposte è organizzata attorno all’idea di un welfare promozionale.
Proposte ambiziose per le quali immaginiamo meccanismi di avvicinamento nel
breve, nel medio e nel lungo periodo, ma con immediata legislazione attorno
ad alcuni grandi capisaldi: riforma degli ammortizzatori, graduale
unificazione dei trattamenti previdenziali, promozione dei centri di
servizio all’occupazione, graduale rivalutazione dell’indennità di
disoccupazione, promozione dell’invecchiamento attivo. L’idea è quella di
riorientare il welfare da un ruolo prevalentemente risarcitorio a un ruolo
di espansione delle capacità in una logica appunto di un welfare
promozionale. È un modello con un grado di coerenza non certo inferiore a
quello danese di cui oggi giustamente si parla tanto. Questo modello ha una
comune ispirazione con le proposte che avanziamo sui servizi socio sanitari.
Qui prendiamo le mosse dalle migliori esperienze di governo in campo
sanitario presenti in Italia e che non hanno, almeno per una volta, troppo
da invidiare al meglio dell’Europa e del mondo: sono idee nelle quali
universalismo, finanziabilità, appropriatezza delle risposte, integrazione
sociosanitaria e prevenzione si tengono concretamente e si tengono in una
logica sola.
Come si potrà vedere noi non abbiamo previsto una sessione specifica della
Conferenza sui temi della formazione, della conoscenza, della ricerca. Ci
sembrava di ridurre la portata centrale e assolutamente pervasiva di questo
tema che ricorre ovunque nei nostri materiali, pur avendo una sua evidente
specificità. Nessuna delle cose che proponiamo può davvero essere efficace
senza il rafforzamento dei circuiti di produzione, riproduzione e
circolazione del sapere. Inutile elencare le difficoltà, le arretratezze:
non c’è indicatore che non ce le segnali a volte in modo davvero
sconsolante. Proprio perché così pervasive, le strutture della conoscenza
sono per noi la “priorità 1” delle politiche di investimento. Ci si chiede:
“Che cosa volete cambiare adesso? L’istruzione non può essere un cantiere
sempre aperto!” E’ vero. Ma è vero anche che per fortuna in questi anni
alcuni cantieri si sono aperti solo a parole. Ed è vero che noi abbiamo
un’idea della scuola diversa da quella del centrodestra, una idea che faremo
valere perché più giusta e più utile alle prospettive del Paese. La pensiamo
in modo molto semplice: scuola inclusiva, senza dispersioni e scuola di
qualità; scuola che è già scuola vera nell’infanzia; scuola dell’obbligo
fino al biennio, seppur articolato, per non divaricare a tredici anni i
destini di vita. Ma non vedete che le Regioni che hanno sperimentato
l’obbligo nella formazione professionale di base raccolgono ormai in quel
percorso solamente gli immigrati? E non vedete che la riforma Moratti che
doveva avvicinare scuola e impresa ha fatto il contrario, spiazzando la
formazione tecnica? Ancora: noi vogliamo obiettivi formativi uguali in tutto
il Paese. La devolution non ci piace. Siamo per una istruzione nazionale e
per la programmazione regionale dell’offerta formativa; dell’offerta non
degli obiettivi formativi! Nella scuola siamo in tempo per fermare scelte
sbagliate, sentiamo la responsabilità di farlo e lo faremo. Vediamo i limiti
del processo di riforma dell’Università, che è stato lasciato in mezzo al
guado dal centrodestra. Abbiamo cominciato a risolvere parzialmente i
problemi di quantità, non ancora quelli di qualità. Ma si deve camminare su
due gambe, non si torna indietro all’Università di élite; su due gambe come
avviene nel resto d’Europa e del mondo. Ci servono più laureati e laureati
migliori, ci servono meccanismi autorevoli e indipendenti di valutazione
delle attività, una governance diversa del sistema, ci servono eccellenze,
ci serve probabilmente una formazione tecnica superiore non universitaria e
ci serve comunque proseguire nell’aumento del numero dei laureati per
avvicinare le medie europee. Noi dichiariamo una emergenza nazionale sulla
ricerca, stremata ormai dai colpi che ha subito in questi anni e
raffiguriamo questa emergenza con il profilo del giovane ricercatore, figura
ormai rara e negletta e prima priorità per il nostro programma. Libertà,
merito, valutazione indipendente dei risultati. Sono questi i cardini di
riferimento delle nostre proposte. Se ci saranno poche risorse andranno
spese qui. E troveremo meccanismi di reciproca convenienza per la
collaborazione fra Università e imprese; e faremo una piattaforma comune con
le Regioni per garantirci che dalla libera ricerca fondamentale e di base
possano venire benefici di ricerca applicata e di trasferimento tecnologico.
Cari compagni, cari amici,
questi anni hanno portato ferite gravi all’impianto democratico del nostro
Paese ed alla sua etica pubblica. Il Presidente della Repubblica ha operato
efficacemente per rafforzare il senso della comunità nazionale attorno a
valori condivisi. Gliene siamo grati. Maggioranza e Governo hanno operato in
senso opposto. Parti fondamentali della Costituzione, legge elettorale,
norme penali e sul conflitto di interessi, assetti della comunicazione sono
stati resi disponibili a logiche di parte o addirittura personali. Il
rapporto fra Istituzioni è stato spesso trascinato nell’agone politico. Si è
messo veleno nei pozzi della fedeltà fiscale e del civismo. Si è persa
compostezza nell’esercizio di funzioni istituzionali e non ci si è
preoccupati che il linguaggio di governo diventasse linguaggio di fazione.
Si è spinto il principio di maggioranza oltre i suoi confini. E’ apparso
improvvisamente evidente che il nostro bipolarismo, ormai radicato nella
coscienza dei cittadini, si è conformato tuttavia in modo squilibrato e
senza bilanciamenti con il rischio evidente di degenerare in un
insostenibile bipolarismo delle regole, in un bipolarismo costituzionale, in
un bipolarismo dei valori. Il nostro impianto democratico si è dunque
complessivamente indebolito; siamo più deboli oggi di fronte ai nuovi
interrogativi che stanno davanti a tutte le democrazie del mondo ed anche
alla nostra. Come proteggere la democrazia dal terrore e dall’insicurezza
senza deformarla o rinnegarla? Come organizzare il pluralismo in un’epoca di
migrazioni e di confronto inedito fra culture, civiltà, religioni? Come
legiferare di fronte a temi eticamente sensibili ed alle nuove frontiere
aperte dalla scienza? Come contrastare l’irrilevanza dei processi
decisionali nazionali e locali di fronte alla dimensione ormai planetaria
dei problemi e dei poteri? Ci permettiamo di avanzare un monito e di
prendere un impegno.
Noi dobbiamo avere più cura della nostra democrazia e con la prossima
legislatura proporremo un modo più alto di discuterne. Non saremo speculari
al centrodestra, cambieremo registro. Cominciamo col dire che quando
chiameremo i cittadini a dire no all’assurda riforma costituzionale di
Calderoli, non lo faremo da posizioni conservatrici. Proporremo noi stessi
subito la riforma dell’articolo 138 prevedendo l’obbligo di maggioranza
qualificata per le modifiche costituzionali. Su quella base si procederà,
laddove necessario, con proposte di aggiornamento della Costituzione e
comunque con modifiche normative, regolamentari e dei meccanismi elettorali
allo scopo di ridurre la frammentazione del sistema politico (che oggi viene
portato al diapason!), promuovere coesione delle coalizioni, stabilità di
governo e maggioranza, bilanciamento del sistema bipolare (statuto
dell’opposizione, controlli parlamentari, poteri di garanzia del capo dello
stato, pluralismo dell’informazione, indipendenza di magistratura e di corte
costituzionale). Nei nostri materiali si trovano proposte precise su tutto
questo e su altri temi ancora crucialissimi per il Paese: l’efficienza della
pubblica amministazione e il diritto ad avere una giustizia certa in tempi
accettabili, non perché riduci la prescrizione ma perché cambi i meccanismi!
(temi totalmente trascurati in questi anni e che vogliamo riprendere con
assoluta priorità sulla base di proposte che in molti casi sono già al
dettaglio).
Ci sono cose che non vanno nel rapporto tra Stato, Regioni ed Enti locali.
Problemi veri che non si risolvono con l’umiliazione delle autonomie come è
avvenuto fin qui. Certamente si dovranno portare alcuni correttivi
nell’assetto delle competenze fra Stato e Regioni. Certamente si dovrà dare
seguito alla riforma dell’assetto fiscale (il cosiddetto federalismo
fiscale) e tuttavia bisogna finalmente riconoscere che non può esserci
nessun federalismo e tanto meno il federalismo cooperativo che vogliamo,
senza luoghi negoziali e di composizione in cui si eserciti la
corresponsabilità e si garantisca comunque la decisione. Oltre un certo
limite la discussione astratta e un po’ avvocatesca sulle competenze urta
contro il principio di realtà, contro la vita reale. Regolare ad esempio la
finanza pubblica, e il patto di stabilità, diffondere le migliori pratiche
nella gestione dei servizi, garantirsi che fasce di popolazione siano al
riparo dalla povertà estrema, produrre politiche industriali e di
trasferimento tecnologico per la piccola impresa, raggiungere livelli minimi
di produzione energetica e di infrastrutturazione non è possibile senza
procedure nelle quali sia riconosciuta la pari dignità delle istituzioni e
si determinino obiettivi condivisi, impegni esigibili, e garanzie di
giungere comunque alla decisione. La strada che indichiamo nella nostra
proposta è dunque quella di “strumenti efficienti di conciliazione e
corresponsabilità fra Stato, Regioni ed Enti locali”, a cominciare dalla
riforma e dal rafforzamento della Conferenza unificata. Sono certo che i
nostri amministratori regionali e locali, che voglio qui salutare
calorosamente, sapranno essere protagonisti attivi e responsabili di questa
novità.
Un tessuto istituzionale e politico più saldo e condiviso, un senso più alto
della comunità nazionale può aiutarci ad affrontare le sfide inedite a cui
facevo riferimento. Noi abbiamo qualche risposta da proporre. Abbiamo già
detto che per noi dare nuova efficacia alla democrazia significa
necessariamente e progressivamente estenderla alla dimensione
sopranazionale, a cominciare dall’Europa. Noi siamo inoltre per la legalità
costituzionale e repubblicana. Dobbiamo difenderci dalla minaccia del
terrorismo senza ingenuità ma senza deroghe ai principi costituzionali così
come facemmo in tempi difficili e non dimenticati. Dobbiamo risvegliare le
coscienze e rafforzare gli apparati contro la grande criminalità e fare
intendere a chi deve intendere, in particolare nel Mezzogiorno, che lo Stato
non scherza, che i cittadini onesti non sono soli, che non si accetta il
quieto vivere con le mafie, che non si accettano, come ha detto Prodi, i
voti che puzzano. Dobbiamo affermare la legalità nella vita economica e far
vedere con chiarezza che non basta avere i soldi o il potere per mettersi al
riparo della giustizia. Dobbiamo affermare la legalità nella vita delle
nostre città, affermare la sicurezza nella vita delle nostre città. Per noi
sicurezza vuol dire libertà, libertà di ciascuno ed in particolare dei più
deboli. Non si contrapponga solidarietà a sicurezza. Qualsiasi anziano che
vive in un quartiere conosce l’importanza sia della solidarietà sia della
sicurezza. Ha bisogno di tutte due le cose e noi dobbiamo dargli tutte e due
le cose. Legalità a tutti i livelli, legalità nei processi di immigrazione e
di integrazione. Una legalità nuova, tuttavia, nella quale l’immigrato
conosca, riconosca e rispetti le regole della nostra comunità, ma conosca e
possa praticare altresì i propri diritti e le proprie libertà. Noi arriviamo
dopo altri Paesi al grande appuntamento con i fenomeni migratori e possiamo
far tesoro di pregi e limiti di esperienze altrui. Siamo in condizioni di
sconfiggere le irrazionalità della Bossi-Fini. Siamo in condizioni di uscire
dall’alternativa fra multiculturalismo ingenuo e integrazionismo giacobino.
Siamo ancora in tempo per progettare e praticare un modello italiano di
integrazione flessibile. Questa è la nostra proposta. Possiamo prevedere una
programmazione meno stupida e più duttile dei flussi, possiamo costruire
l’avvicinamento ai diritti di cittadinanza attraverso una nostra
particolarità non ancora utilizzata nella legislazione: le comunità locali,
i territori. Una risorsa enorme per una integrazione intelligente,
articolata e flessibile. Possiamo affermare una legislazione impegnativa
sulla cittadinanza, sul diritto di voto, sulla libertà religiosa facendo
così evolvere le grandi acquisizioni normative della prima stagione del
centrosinistra e guardando finalmente e razionalmente l’immigrazione come
una condizione del nostro futuro.
C’è infine una questione da dirimere nella nostra vita democratica, una
questione che si è fatta particolarmente acuta. Come legiferare su temi
eticamente sensibili che riguardano la vita, la morte e la generazione. La
scienza apre orizzonti che possono essere di rilevanza eccezionale per il
miglioramento della condizione umana, ma al contempo la scienza subisce una
perdita di innocenza di fronte al rischio che la vita e l’uomo diventino
materia prima per la volontà di potenza dell’uomo stesso. Si affacciano
domande nuove e non è detto che le risposte che non si trovano più
semplicemente nella scienza, si trovino per ciò stesso nella religione o
nella fede. Ci può essere invece uno spaesamento, un ritrarsi dagli
interrogativi. Ne abbiamo avuto forse una conferma nel recente appuntamento
referendario.
Su questi temi delicati noi non cerchiamo risposte che riducano la voce di
chi vuole parlare, di chi vuole affermare le sue opinioni o la sua verità
per proporle come criterio generale di regolazione. Chiunque decide di
partecipare alla discussione pubblica, comprese dunque le gerarchie
ecclesiastiche, accetta necessariamente le logiche della discussione e cioè
la dialettica e il confronto pluralistico. Vogliamo occuparci invece dei
criteri a cui deve attenersi il legislatore di fronte a problemi eticamente
sensibili e dei criteri cui deve ispirarsi la mediazione politica. Noi siamo
perché il legislatore assuma le sue responsabilità organizzando la
discussione pubblica, ricercando un bilanciamento fra i valori, un
compromesso fra concezioni etiche, un equilibrio di soluzioni, mitigando
così su questioni tanto radicali il principio di maggioranza. Siamo perché
la laicità dello Stato si esprima attivamente nella capacità di fare vivere
il pluralismo. Siamo perché il legislatore sia laico in quanto non pretenda
di esaurire nella norma ciò che è giusto e ciò che è sbagliato ma riconosca
invece la frontiera mobile che deve sempre esistere fra ciò che conviene
deliberare e ciò che va lasciato alla convinzione ed alla responsabilità
della persona ed in particolare della donna. Solo il riconoscimento di uno
spazio più o meno grande di responsabilità personale su temi controversi ed
eticamente sensibili può garantire, come una prova del nove, che non si è in
uno Stato etico o in uno Stato confessionale. Questi principi e questi
metodi, purtroppo, non li abbiamo visti riconosciuti nella discussione della
legge sulla procreazione assistita. Li vediamo, anzi, calpestati nel
tentativo di delegittimare surrettiziamente la 194, tentativo che
respingiamo fermamente.
Concludendo sono certo che da questo appuntamento di Firenze verrà fuori in
modo comprensibile quale Italia abbiamo in mente. Se ci si chiedono parole
riassuntive del nostro progetto, siamo pronti a dirle. Più politiche
pubbliche e più mercato. Politica concertata con le forze sociali sui
redditi e sulla produttività. Conoscenza e ancora conoscenza. Riduzione
della precarietà, qualità del lavoro e welfare promozionale. Politica
industriale e rafforzamento delle imprese. Ambiente ed efficienza
energetica. Opportunità Mezzogiorno. Città e casa. Una democrazia migliore,
più diritti più sicurezza. Alcuni osservatori ci scoprono adesso
“programmisti”, temono amichevolmente che noi si porti il cervello sulla
luna e ci suggeriscono di avanzare proposte emblematiche, pillole di
concretezza. Sarebbe davvero curioso che ne fossimo privi, dopo tanto lavoro
e che ne fossimo privi proprio noi, Democratici di Sinistra, la forza
politica che accumula in Italia (sarà ora di dirlo) la più grande esperienza
di governo e l’esperienza di governo più concreta, quella amministrativa,
quella dove le chiacchiere valgono poco.
Elenchiamo dunque qualche proposta emblematica. Un fisco che dà e non solo
che prende e che dà a chi ha meno (imposta negativa). L'obbligo scolastico a
16 anni ed il divieto di lavorare fino a 18 al di fuori di contratti a
finalità formativa. Il voto agli immigrati. Un fondo per la non
autosufficienza. La delegificazione completa dell’organizzazione interna
degli atenei. Un piano per l'affitto. Un piano per 5.000 nuovi ricercatori.
Una riforma dell'RC auto. L'abolizione delle tariffe minime dei
professionisti e l'avvio delle società professionali. L'impegno, a petrolio
costante, di ridurre del 10% il costo dell'energia elettrica. La
liberalizzazione della vendita dei medicinali da banco. Il rilancio del
cosiddetto 36% per le ristrutturazioni delle case esclusivamente finalizzato
all'efficienza energetica e all'antisismica. La riforma dei poteri di
BankItalia. La condivisione degli archivi e delle banche dati delle
amministrazioni con codici di accesso per gli operatori abilitati e
conseguente eliminazione totale dei certificati, naturalmente, potrei
continuare. Utilizzeremo, in accordo con l'Unione, queste e molte altre
proposte.
Per spiegare il nostro progetto più semplicemente e riassuntivamente ancora,
possiamo dire (e abbiamo lavorato tanto su questo!) che vogliamo guardare
l’Italia con l’occhio della generazione che sta fra i venti e i trentacinque
anni; con gli occhi dunque non dei giovani ma dei nuovi adulti, di coloro
che dovrebbero avere già una stabile vita di coppia, un lavoro definito e un
accesso alle professioni, un bagaglio culturale e tecnico adeguato, un
percorso segnato da valutazioni di merito e non da relazioni con questo o
con quello, un accesso al credito non impossibile, un accesso alla casa non
impossibile, un po' meno debito pubblico sulle spalle, qualche prima
responsabilità nei luoghi dell’impresa, della ricerca, dell’amministrazione,
della politica e così via. Tutto questo non c'è, o non c’è abbastanza e così
l’Italia si gioca il futuro. Alla fine, stare con chi bussa alla porta e non
con chi la tiene chiusa resta l’unica ricetta possibile per il nostro Paese.
Ci vuole dunque il coraggio di scelte radicali, come ci ricorda Prodi. Amare
davvero l’Italia vuol dire amare soprattutto l’Italia di chi ha bisogno,
l’Italia di chi merita, l’Italia di chi ci prova. Ho concluso.
Con questa ispirazione siamo pronti a dare un nostro contributo forte alla
sintesi dell’Unione e di Romano Prodi. Ma il compito dei Democratici di
sinistra non si esaurisce in questo. Se davvero vogliamo dare obiettivi
nuovi al Paese dobbiamo avere la forza di dare obiettivi nuovi anche alla
politica. La lista dell’Ulivo sarà il più grande e forte punto di
riferimento nella battaglia per l’alternativa alla destra e il segno di una
volontà di rafforzamento e di riorganizzazione del campo del centrosinistra
che la realtà del Paese invoca. Noi lavoriamo perché l’Ulivo sia anche un
percorso praticabile non solo verso la composizione amichevole di cose
antiche ma verso una prospettiva più aperta che parli a questo secolo e alle
generazioni di oggi, che metta a frutto su discriminanti più grandi e più
attuali l’ispirazione riformista. Non pensiamo ad un gioco a somma zero fra
diverse tradizioni, o a un loro disarmo, o tanto meno ad una loro
dissociazione dalle grandi aree socialiste, democratiche e progressiste del
mondo. Pensiamo ad una sintesi culturale e politica nella quale far
esprimere i grandi ideali della sinistra che abbiamo avuto in eredità e che
dobbiamo saper investire nei tempi nuovi e nelle nuove condizioni.
Cari compagni,
se sapremo tenere assieme progetto per l’Italia e nuova prospettiva politica
allora avremo trovato il modo di guardare oltre la transizione, una
transizione di cui Berlusconi crede di essere il demiurgo essendone invece
solo una scomposta espressione. Ci aspetta una battaglia difficile. Già
incombono nelle città i manifesti 6 x 3 e si muovono le montagne. Montagne
di soldi, intendo. Noi, rivolgiamoci con serenità al Paese, con le nostre
idee, il nostro volto e il nostro linguaggio; con l’ottimismo e la fiducia
che derivano dalla serietà, dalla semplicità, dalla vera condivisione dei
problemi. Diamo agli italiani l’idea che, assieme, ce la facciamo. Cerchiamo
di trasmettere un po’ di passione per il futuro. E soprattutto guardiamo la
gente all’altezza degli occhi, non da sopra. Perché noi non siamo loro. Noi
siamo la sinistra.
Grazie e buon lavoro. |