A pagina 3 di La Repubblica - Il
Manifesto - L'Unità - Europa del 2005-11-22, Sandro Viola -Zvi Shuldiner -
Michele Giorgio - Leonardo Paggi - Imma Vitelli firma un articolo dal
titolo «Occasione storica in Palestina - Tsunami Sharon - Terremoto in
Medio Oriente - Peretz, “il marocchino” che fa sperare anche il mondo
arabo»
Nell’editoriale di Sandro Viola su
REPUBBLICA di martedì 22 novembre il terrorismo palestinese viene definito
“violenza armata”. Non si tratta solo di un problema di forma, ma anche di
comprensione, in quanto chi non accetta di chiamare terroristi gli autori
delle stragi suicidee i loro finanziatori e sostenitori, non potrà mai
comprendere la difficoltà e le esigenze del popolo israeliano.
Sandro Viola però, ha anche un problema di analisi di politica israeliana.
Pur di non riconoscere al premier israeliano il merito di una politica volta
alla pace , attribuisce le sue scelte all' “attaccamento al potere”. Chi
legge l’articolo di Repubblica penserà che il processo di pace tra
israeliani e palestinesi, èvoluto da un politico israeliano che pur di
rimanere “attaccato al potere”, compie repentine “inversioni di marcia”.
Infatti si può leggere che secondo Viola “lo sfondo politico israeliano
aveva cominciato a trasformarsi la scorsa estate, quando s’era capito che
esisteva ormai una maggioranza favorevole alla fine dell’occupazione dei
territori”. Non sarà che questo cambiamento sia dovuto al forte
indebolimento delle organizzazioni terroristiche di Al Aqsa, Hamas e Jihad
che, combattute dall’esercito israeliano, si sono trovate per motivi
logistici a dover diminuire gli attentati terroristici? Non avrà qualche
parte, nel determinare la possibilità della politica di ritiro unilaterale
voluta da Sharon, l'efficacia protettiva della barriera di sicurezza?
Il giornalista, in fondo all’articolo, riconosce che il processo di pace,
adesso come adesso, è tutto nelle mani della leadership palestinese, ma
facciamo presente che l’ “occasione storica” i leader palestinesi l’hanno
sempre avuta, dal momento della costituzione dello Stato d’Israele, poi nel
periodo di occupazione giordana ed egiziana, infine durante il processo di
pace, da Oslo a Camp David.
Ecco l'articolo, "Occasione storica in Palestina":
Non era
stato difficile prevedere che il ritiro da Gaza avrebbe avuto conseguenze
importanti nella politica israeliana: ma nessuno s´era spinto sino ad
immaginare il vasto, decisivo sommovimento di questi ultimi dieci giorni.
L´elezione del sindacalista – e sefardita – Amir Peretz alla leadership del
Labor, l´uscita di Sharon dal Likud per formare un nuovo partito, la
convocazione a marzo di elezioni anticipate. In meno di due settimane,
quindi, la scena politica d´Israele ha mutato faccia. Un cambiamento (un «big-bang»,
lo hanno definito i giornali israeliani) che riflette le attese createsi
nella maggioranza della società con lo sgombero da Gaza, e destinato a
migliorare le prospettive del negoziato da cui dovrebbe nascere, finalmente,
lo Stato di Palestina.
Cominciamo dalla rottura tra Sharon e il Likud, il partito che aveva
contribuito a fondare nel 1973 e di cui è stato per sei anni (sino alle
divisioni interne provocate dal suo piano di ritiro da Gaza) il leader
indiscusso. Lo strappo è clamoroso, per non dire drammatico, ed ha un solo,
chiarissimo significato. Sharon ha capito che restare legato al Likud e alle
sue appendici, i sionisti religiosi e l´estrema destra nazionalista, non gli
avrebbe consentito di portare avanti il processo di pace così com´è
delineato nella «road map». In una conferenza stampa, ieri sera, lo ha detto
in modo esplicito: se anche avesse vinto alla testa del suo vecchio partito
le prossime elezioni, il nuovo governo si sarebbe trovato esposto ad una
continua, turbolenta e logorante dissidenza interna.
Perciò ha lasciato, e andrà alle elezioni con un nuovo partito che egli
definisce «centrista», nel quale dovrebbero confluire una parte del Likud
(se non addirittura una metà, a sentire alcuni commentatori politici
israeliani), forse una frangia della sinistra e forse il partito Shinui di
Tony Lapid. Si tratta d´un azzardo, d´un gesto non abbastanza meditato? No.
Sharon conosce bene il suo paese e gli umori che vi circolano. E prevede
quindi che una maggioranza elettorale non si possa raccogliere in Israele,
oggi, senza un programma di trattative dirette e indirette con i
palestinesi, così da approdare a un compromesso territoriale e all´arresto,
sia pure non immediato e definitivo, della violenza armata.
Lo Sharon di quest´ultimo anno continua a stupire. La sua inversione di
marcia è sempre più spettacolare. Prima ha smantellato - lui, il massimo
architetto della colonizzazione ebraica dei territori occupati - le colonie
di Gaza; poi ha fatto capire di voler sgombrare in futuro gli insediamenti
più isolati della Cisgiordania; e ieri s´è sbattuta alle spalle la porta del
Likud, provocando così un probabile disfacimento del partito in cui ha
militato per tre decenni. Ma a guidarlo, adesso che è tramontato il sogno
del Grande Israele cui aveva dedicato quasi intera la sua vita, sono il suo
pragmatismo e l´attaccamento al potere. Da un lato il fallimento
dell´occupazione (fallimento politico, economico e morale) è divenuto
infatti evidente, dall´altro una maggioranza del paese e il governo degli
Stati Uniti premono perché riparta al più presto il negoziato con i
palestinesi. Deciso a guidare il prossimo governo di Gerusalemme, Sharon ha
quindi scelto la rottura con le destre.
Anche perché intanto c´era stato l´ingresso sulla scena di Amir Peretz. Col
suo solo emergere al vertice del Labor, il sindacalista che dirige
l´Histadrut, la potente centrale sindacale israeliana, aveva già in parte
terremotato il quadro politico del paese. Ex esponente del movimento
pacifista, da tempo sostenitore d´un contenimento del bilancio militare a
favore d´una più larga spesa sociale, Amir Peretz andrà alle elezioni
sbandierando il disastro della politica di colonizzazione nei territori
occupati.
Le enormi risorse finanziarie fagocitate dai coloni in questi trentott´anni,
la cui conseguenza è la povertà di quasi un terzo degli israeliani. Dunque
la necessità - anzi l´urgenza - d´un ritiro graduale e negoziato dai
territori occupati.
Non basta. D´origine marocchina, primo ebreo sefardita alla leadership d´un
grande partito come il Labor, Peretz potrebbe scollare dal Likud una parte
almeno del voto sefardita, da sempre agglutinato attorno alla destra. E
Sharon deve aver calcolato anche questo. Per Peretz, le probabilità di far
risorgere dopo anni di declino il partito laburista, e persino l´eventualità
d´una vittoria alle prossime elezioni, sarebbero state molto consistenti se
lo scontro elettorale fosse avvenuto come al solito tra Likud e Labor, tra
destra e sinistra. Mentre è diverso adesso che tra i due tradizionali
contendenti c´è un terzo partito. Uno Sharon che dalla sera alla mattina ha
preso a criticare la politica economica rigidamente liberista condotta da
Likud, e per quel che riguarda il conflitto con i palestinesi ribadisce con
forza l´intenzione di rimettere sui binari la «road map».
Lo sfondo politico israeliano aveva cominciato a trasformarsi la scorsa
estate, quando s´era capito che esisteva ormai una maggioranza favorevole
alla fine dell´occupazione dei Territori. Ma oggi è definitivamente
modificato. Basta pensare, oltre a quel che s´è già detto, all´ultimo atto
importante del governo in carica: l´accettazione d´una presenza
internazionale al valico di Rafah, tra Gaza e l´Egitto. Una presenza che nel
quadro del conflitto con i palestinesi, i governi israeliani avevano in
passato sempre respinto.
Insomma: chi vorrà vincere alle prossime elezioni, dovrà promettere agli
israeliani ogni sforzo possibile per approdare ad un compromesso
territoriale con i palestinesi. Il che vuol dire che l´incertezza, a questo
punto, non riguarda tanto la volontà di pace in Israele. Riguarda la
volontà, la capacità della leadership palestinese di cogliere un´occasione
storica e forse irripetibile.
IL MANIFESTO di martedì 22 novembre 2005
pubblica in prima pagina l'editoriale di Zvi Shuldiner "Tsunami Sharon".
Vi si sostiene la tesi paranoide per cui il governo Sharon colpirebbe nei
terrirori i membri di organizzazioni terroristiche impegnati
nell'organizzazione di attentati allo scopo di rafforzarle e provocare un'
escalation, imponendo così come tema centrale della contesa elettorale la
sicurezza, adiscapito dei temi sociali. Dunque, una strategia utile per
sconfiggere Peretz.
Nonostante siano l'Esercito e i servizi di sicurezza, non l'ufficio stampa
personale di Sharon, a dire che i gruppi terroristici non aspettano nessuna
azione israeliana per preparare attentati, nonostante i lanci di razzi
kassam immediatamente successivi al ritiro da Gaza.
Per Shuldiner l'idea che i terroristi vogliano colpire Israele
indipendentemente dalle azioni di quest'ultima è da scartare a priori.
Come continuare altrimenti a scrivere su un giornale che nega
quotidianamente il diritto di Israele a difendersi dall'aggressione
stragista dei gruppi palestinesi?
Ecco l'articolo:
Gli effetti del terremoto
Peretz nel laburismo si moltiplicano fino a diventare un vero e proprio
tsunami politico, adesso che il primo ministro Sharon decide di lasciare il
Likud e annuncia che si candiderà nelle prossime elezioni a capo di un nuovo
partito, «Responsabilità Nazionale». L'analisi superficiale delle diverse
polemiche non deve far dimenticare una questione fondamentale ma scarsamente
presa in esame in questi giorni: nelle ultime settimane le forze israeliane
non hanno cessato le operazioni di repressione che provocano un'escalation
permanente nei territori occupati. Quanto accade nei territori occupati si
proietterà su tutta l'arena politica, è determinante nella crescita
dell'instabilità della regione - che è aumentata con gli attacchi terroristi
in Giordania - e potrà essere un fattore chiave per decidere i risultati
delle prossime elezioni in Israele.
Dopo lunghi mesi di confronto interno nel suo partito, adesso è ufficiale:
Ariel Sharon lascia il Likud che contribuì a costituire più di 30 anni fa.
Di primo mattino Sharon si è recato dal presidente d'Israele per chiedere
che venga applicata la legge che gli permette di sciogliere le camere e di
andare al voto.
Le elezioni sarebbero previste per il marzo dell'anno prossimo e adesso
cominciano le grandi manovre. Sharon si porta dietro 13 o 14 dei membri del
gruppo dirigente del Likud. Il numero è critico dal punto di vista
economico: se il nuovo partito ha un terzo dei seggi del Likud potrà godere
di una parte proporzionale dei finanziamenti pubblici dei partiti
israeliani. In caso contrario Sharon comincia con un serio problema
economico.
La decisione di Sharon è più o meno chiara nelle sue motivazioni.
Dall'inizio della ritirata unilaterale Sharon ha perso la maggioranza nel
suo partito. Nelle primarie per decidere il candidato alle prossime elezioni
nazionali, la candidatura di Netaniahu lo potrebbe portare a una sconfitta
troppo dolorosa, dalla quale sarebbe difficile recuperarsi. Anche nel caso
in cui Sharon trionfasse nelle elezioni interne, il nuovo gruppo dirigente
non sarebbe diverso dal precedente e ogni piano politico di Sharon in
politica estera lo porterebbe alla paralisi che in questi giorni affligge il
Likud. L'opposizione interna, i cosiddetti «ribelli» dominano
l'establishment. Oltre a ciò, un gruppo estremista di coloni, che pochi anni
fa decise di entrare nel Likud, prometteva di collaborare con i nemici di
Sharon per sconfiggerlo. L'avventura di Sharon è più che problematica e
pericolosa per lui. Cinque ministri vi aderiscono: non si sa ancora quanti
membri della Knesset, ma questo non è tutto. Sharon non ha una macchina di
partito ben organizzata e si basa solo su qualcosa di assai dubbio: la
grande popolarità di cui gode nella maggioranza della pubblica opinione che
ha appoggiato il ritiro unilaterale da Gaza. I grandi interrogativi sono:
quanti mandati vale la popolarità di cui gode o godeva Sharon. E quanto vale
la sua popolarità fuori il Likud? Il Likud non è solo un partito politico,
ma uno strumento di identificazione etnica e di protesta. Dal 1977 è stato
quasi sempre al governo e il laburismo all'opposizione, con brevi
intervalli. Questo non ha impedito al Likud di presentarsi come fautore
della protesta contro i mali del sistema, mentre il laburismo continuava con
la stupida posizione dello statalismo, della responsabilità nazionale.
Per tutti quegli ebrei orientali che si sono visti emarginati dalla società
israeliana, discriminati e sfruttati, il Likud era la vendetta, l'identità
salvata, il rifugio. Improvvisamente Peretz rompe lo schema. Parla in un
modo che rompe con gli schemi classici, attacca il sistema, smentisce tutte
le responsabilità al riguardo, non è più un laburista «classico e
responsabile» come Peres e i suoi ministri. Peretz è uno dei pochi politici
che osano dire quel che pensano. Sì, è necessario prepararsi per tutte le
manovre che lo porteranno ad essere «più moderato», ma è necessario
segnalare che ha agitato le acque in modo drammatico. Senza paura, con
coraggio ha presentato idee diverse dalle consegne classiche prive di
contenuto che devono caratterizzare un leader che voglia conquistare il
mitico «centro». Peretz arriva in un momento in cui sono molte le vittime
della politica economica e sociale di Netaniahu. Peretz lo dice già
chiaramente: Sharon era il primo ministro responsabile della politica
economica del ministro delle Finanze, e denuncia il 20% di israeliani sotto
la soglia di povertà mentre l'economia cresce e i ricchi diventano più
ricchi. Peretz ha rivoluzionato il dialogo politico, dimostrando, in dieci
giorni, che non sarà facile farlo cadere vittima dei tranelli con cui
cercavano di paralizzarlo nel suo stesso partito. Ma qual è la forza del
programma di Peretz?
Sharon l'ha spiegato nelle ultime ore: il suo nuovo partito porterà Israele
alla Road Map in modo responsabile, mentre si combatterà senza indugi il
terrore. Ovvero, il programma di Sharon - e questo sarà sicuramente il
programma di Netaniahu o di chi trionferà nel Likud- sarà il programma della
sicurezza, del terrore, del processo politico. La questione economica e
sociale sulla quale si basa Peretz non sarà necessariamente la questione
centrale. Non è questione retorica o di tattica propagandistica. Sharon e il
suo governo hanno iniziato una politica di esecuzioni mirate e di
repressione poco dopo il ritiro da Gaza, che ha portato a una seria
escalation nei territori occupati. La politica del governo israeliano ha
rafforzato Hamas e non Abu Mazen e questo non è stato frutto del caso.
La continuazione di questa linea significherà più sangue, terrore e
repressione e le vendette a catena faranno crescere la necessità di
discutere di pace e sicurezza, lasciando da parte la povertà e l'economia
che aiuterebbero Peretz. Sharon si basa su questa tattica per danneggiarlo e
pensa che questa sia la ricetta migliore per restituire agli elettori il
loro bisogno essenziale: un generale con grande esperienza che li tiri fuori
dal pantano e piloti la barca nazionale nelle difficili acque della guerra.
Uno dei grandi interrogativi che riguardano Peretz è se saprà rispondere a
questa sfida con una voce chiara e convincente che porti il paese a un altro
tipo di discussione diversa da quella portata avanti per molti anni. Ma
vaticinare che cosa sta per accadere è di fatto rischioso, anzi stupido.
Se qualcuno avesse dei dubbi sul fatto
che IL MANIFESTO neghi 2quotidianamente il diritto di Israele a difendersi
dall'aggressione stragista dei gruppi palestinesi?", potrebbe facilmente
toglierseli leggendo la conclusione dell'articolo di Michele Giorgio, "
"Forza Sharon" scuote Israele", a pagina 4:
Il varco, ha spiegato ieri
il generale italiano Pietro Pistolese, che guida la missione di osservatori
Ue incaricata di monitorare i movimenti di persone merci al confine.
«Inizialmente sarà aperto solo per poche ore, indicativamente quattro, poi,
in base a quello che constateremo sul campo, l'orario verrà prolungato con
l'obiettivo di arrivare a un'apertura di 24 ore su 24. Apriremo Rafah solo
quando riterremo che le condizioni di sicurezza e la preparazione dei
palestinesi sono adeguate allo scopo». Un "buon inizio", non c'e' dubbio.
Secondo il cronista del MANIFESTO,
dunque, si "inizia male" se non si apre Rafah immediatamente,
infischiandosene totalmente della sicurezza degli israeliani e delle loro
vite.
L'UNITA' pubblica in prima pagina e a pagina 26 un articolo di Leonardo
Paggi, "Terremoto in Medio Oriente" che interpreta la trasformazione in
corso della politica israeliana come il risultato di un contrasto tra
politica di sicurezza e politica sociale.
Una contrasto che non esiste nella realtà: nessun welfare state può essere
utile a chi muore in un attentato terroristico. In altri termini, la
sicurezza dalla violenza omicida è, in Israele come ovunque, l'ovvia
precondizione di qualsiasi poltica economica e sociale, sia essa di impronta
liberale o sioialdemocratica.
Ecco il testo:
«È l’esplosione di un
vulcano: non ho mai visto nulla di così significativo». Con queste parole
Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Autorità palestinese, ha commentato la
decisione di Sharon di abbandonare il Likud. In realtà che il sistema
politico israeliano fosse nella sua configurazione attuale del tutto
inadeguato a conseguire l’obbiettivo storico di una definizione certa dei
confini dello Stato è apparso chiaro fin dal compimento del ritiro da Gaza
con la spaccatura che si era determinata all’interno del principale partito
di governo. La mossa di Sharon, del resto, è strettamente consequenziale a
un altro evento politico non meno innovativo.
Ossia la vittoria nelle primarie laburiste di un uomo come Peretz, ex leader
dell'Hisdatrut, ebreo sefardita nato in Marocco, dunque non proveniente
dalle gerarchie militari, dunque non appartenente alla ristretta oligarchia
azkenazita, il quale nel discorso pronunciato al comitato centrale del
partito che ha deciso l'uscita dal governo ha affermato: «La costituzione di
uno stato di Palestina non è solo un interesse palestinese ma prima di tutto
di Israele». La mossa di Sharon, di cui da tempo si parlava, sta dunque a
significare la volontà di rispondere a questa forte novità rilanciando in
avanti, sullo stesso terreno di quella politica del disingagement da lui
stesso adottata unilateralmente. Del resto la decisione di passare il
Rubicone con la creazione di un nuovo partito chiamato «Responsabilità
nazionale» appare, già ora, tutt'altro che un salto nel buio. Sharon ha già
conseguito in queste ore l'appoggio di 14 deputati sui 40 che costituiscono
la rappresentanza del Likud alla Knesset, ossia di quel terzo degli eletti
del partito che gli consentirà di accedere ai finanziamenti pubblici per la
campagna elettorale. Le prime stime realistiche danno inoltre al nuovo
partito un seguito di circa 28 deputati e qualunque possa essere
l'insistenza sulla sua futura collocazione di centro sarà difficile far
dimenticare all'opinione pubblica israeliana che si tratta di una nuova
formazione politica nata per portare avanti la ricerca di un superamento
dello scontro frontale con la minoranza palestinese. Si delinea, nella
prospettiva, la possibilità di un nuovo governo di coalizione tra Sharon e
un partito laburista finalmente rivitalizzato, in presenza di una destra
oltranzista a questo punto profondamente disorientata e divisa al suo
interno (la leadership di Nethanyau è già contestata da più parti), oltre
che tendenzialmente spinta ai margini del nuovo equilibrio politico
israeliano.
Difficile dunque sottovalutare la portata di quello che sta accadendo in
questi giorni nella politica israeliana. Si tratta della rottura, ormai
difficilmente reversibile, per quanto incerti possano ancora essere gli
sviluppi futuri, di quella lunga stagnazione politica che si è determinata
nel corso della seconda Intifada, corrispettivamente alla scelta di
conferire una priorità incontrastata al problema della sicurezza militare. E
tuttavia il terremoto politico di questi giorni rappresenta anche un primo
punto di arrivo di un mutamento molecolare di lungo periodo che interessa
simultaneamente sia la situazione interna in Israele che i più complessivi
equilibri politici del Medioriente.
In effetti la sicurezza militare è entrata in un contrasto sempre più aperto
con la sicurezza sociale. La destra israeliana si è progressivamente
adeguata al modello che ha dominato negli ultimi vent'anni la destra europea
e americana, coniugando strettamente scelte aggressive sul terreno della
politica estera con orientamenti nettamente liberisti sul terreno della
politica economica. Si è proceduto così al progressivo smantellamento di un
solido sistema di sicurezza sociale posto in essere nel corso della lunga
esperienza di governo del partito laburista, per questo aspetto
sostanzialmente affine alla tradizione e alla esperienza della
socialdemocrazia europea. Il milione di russi a cui lo stato di Israele ha
aperto incondizionatamente le porte nello sforzo continuo di garantire una
preminenza ebraica nella composizione demografica del paese ha poi
contribuito a rendere sempre più intrattabili i problemi della sperequazione
sociale. Per quanto paradossale possa apparire si sta andando oggi verso una
campagna elettorale nel corso della quale, per la prima volta dopo molti
anni, saranno i problemi della vita interna del paese ad avere un peso
determinante. Peserà in particolare in modo decisivo sul risultato finale le
scelte compiute dagli strati sociali più svantaggiati del paese. E non è
certo un caso che in questa direzione comincino a volgersi anche i toni
della campagna politica del Likud che si è fino ad oggi avvalso dei consensi
provenienti dagli strati più bassi della piramide sociale.
Sarebbe tuttavia miope non vedere anche come dietro il terremoto che investe
il sistema politico israeliano ci siano nello stesso tempo motivi profondi
che interessano gli equilibri politici del medioriente. La politica di
guerra preventiva adottata dall’amministrazione Bush certamente è valsa a
scompaginare gli equilibri politici vigenti nella maggioranza degli stati
arabi. Il rovesciamento di Saddam ha rappresentato un campanello di allarme
per tutte le rendite di posizione createsi sulla base di una ripetizione
ossessiva di un credo islamico sempre più inficiato dal fondamentalismo. E
tuttavia è diventata nello stesso tempo di pubblico dominio la estrema
debolezza di una politica estera affidata esclusivamente all'uso delle armi.
Con un Bush al 37% dei consensi, e una opinione pubblica americana che
chiede ormai apertamente un disimpegno rapido dall'Iraq, quale prospettiva
può esserci per quella politica di sicurezza senza trattative diplomatiche a
cui la destra israeliana ha legato tutte le sue fortune? Oggi il nuovo
sembra avanzare faticosamente e dolorosamente in Medioriente passando
attraverso le sconfitte delle posizioni che si sono a lungo combattute
frontalmente.
Per questo non è escluso che le prossime elezioni in Israele possano dare un
contributo di qualche rilievo alla riapertura nel Mediterraneo di un dialogo
tra le culture, le tradizioni, le religioni, i diversi interessi economici e
sociali. Senza di ciò la stessa prospettiva di sviluppo di una cittadinanza
europea (lo stanno a dimostrare eloquentemente i tumulti che hanno scosso la
Francia) è destinata a segnare il passo.
EUROPA pubblica a pagina 3 l'articolo di
Imma Vitelli "Peretz, “il marocchino” che fa sperare anche il mondo arabo",
dal quale, sulla base di alcuni editoriali apparsi sulla stampa libanese,
dunque in un contesto molto particolare, sia per la tradizionale presenza di
una stampa relativamente libera sia per i recenti moto democratici e
anti-occupazione militare siriana, emerge un'immagne del mondo arabo
entusiasta per l'emergere di un leader "sefardita" come Peres e speranzoso
che il conflitto israelo-palestinese possa finalmente essere risolto.
Se l'idea di una Siria ansiosa di vedere uno Stato palestinese convivere con
Israele è ridicola ( perché allora non cessa di finanziare il terrorismo?),
quella di stati e opinioni pubbliche arabi felici per la fine della
discriminazione ai danni degli ebrei orientali in Israele ha qualcosa di
oltraggiioso.
Da un lato perché sono proprio alcuni dei paesi citati dalla Vitelli ad aver
cacciato gli ebrei che vi abitavano.
Dall'altro perché ancor oggi in alcuni paesi arabi (pensiamo al regno
saudita) sopravvivono discriminazioni legali ai danni di minoranze religiose
ed etiniche che mai sono comparse in Israele, paese nel quale tutti i
cittadini hanno sempre goduto di eguaglianza dei diritti.
Ecco il testo:
Che differenza un nuovo
leader fa. Lo tsunami Amir Peretz aveva appena ribaltato i pronostici e
soffiato al grande vecchio Simon Peres la leadership del Partito laburista
israeliano, che un vento nuovo prendeva a soffiare sulle pagine degli
editoriali dei giornali arabi. Il nome del sindacalista di Sderot significa
“svolta” in ebraico, notava un osservatore degli Emirati, che proseguiva
entusiasmandosi alle future prospettive di pace aperte da uomo, non tutti lo
sanno, che nelle ore di relax coltiva rose.
I meno lirici, con pari trasporto, andavano al sodo: l’uomo nuovo della
politica israeliana è pacifista, ebreo sefardita, per di più nato in Marocco.
Un sogno, in pratica.
Peretz viene infatti da quella parte del paese generalmente definita “la
seconda Israele”, ebrei le cui radici sono piantate nel mondo musulmano.
Cinquanta anni dopo il loro sbarco nella terra promessa, i mizrachim vivono
ancora in condizioni miserabili dentro case popolari in centri urbani che lo
sviluppo non ha toccato.
«Credo che l’entusiasmo dipenda dal fatto che Amir Peretz sia di origine
marocchina», spiega a Europa Michael Young, analista del quotidiano libanese
Daily Star, per cui cura la sezione opinioni ed editoriali. «A differenza
della classe ashkenazita, l’elite politica di origine europea, i sefarditi
conoscono bene la cultura e i costumi sociali degli arabi per averli
condivisi. Tradizionalmente, inoltre, essi sono rimasti ai margini della
società israeliana. Sanno che cosa significa sentirsi cittadini di seconda
classe, un sentimento non dissimile da quello sperimentato dai palestinesi
».
Il fatto che sia di umili origini è un altro punto a favore di Peretz,
assieme alla sua carriera di sindacalista: «Diciamocelo: dieci anni dopo la
morte di Yitzhak Rabin, il nuovo leader del Partito laburista incarna la più
grande speranza di pace con i palestinesi », sono le parole dello storico
Habib Malik dell’Università Libanese Americana di Biblos. «Egli sa bene, per
averlo sperimentato sulla sua pelle, che alla fine del conflitto si arriva
solo attraverso il riconoscimento dei diritti dei lavoratori, in Israele ma
anche nei Territori ».
È la prima volta, dal collasso del processo di pace e di Camp David cinque
anni fa, che non si respirava una simile benevolenza negli ambienti
dell’intellighenzia araba.
E certo aiuta che il fatto che il volto nuovo del Labour sia un signore che
da almeno vent’anni si batte per uno stato palestinese, schierato da sempre
contro l’unilateralismo di Ariel Sharon e per di più determinato a riportare
Israele sul “sentiero di Oslo”, in un paese in cui gli architetti degli
accordi del ‘93 sono generalmente definiti come «criminali ».
Ad alimentare l’entusiasmo è stato inoltre il suo discorso alla
manifestazione per il decennale della morte di Rabin, sabato scorso. Peretz
ha parlato della necessità di «una road map morale, la cui stella polare sia
il rispetto per la dignità umana». Infiammando il popolo di sinistra, ha
detto di avere anche lui un sogno, proprio come Martin Luther King: «Che i
bambini palestinesi e israeliani possano un giorno giocare insieme e
costruire un futuro comune ».
Parole che sono un balsamo per i regimi arabi, ormai impazienti di liberarsi
dell’annoso problema palestinese.
Un paese importante come l’Arabia Saudita, per assicurarsi il recente
ingresso nell’Organizzazione mondiale per il commercio, ha dovuto abolire il
boicottaggio delle merci israeliane, un gesto impopolare a Riyadh in assenza
di uno stato palestinese. La Tunisia ha appena accolto il ministro degli
esteri dello stato ebraico Silvan Shalom, per non parlare delle ricche
monarchie del Golfo come il Kuwait e il Qatar in prima fila nello sforzo di
normalizzare i rapporti con Tel Aviv all’indomani del ritiro dalla Striscia
di Gaza.
E perfino l’arcinemico siriano, tecnicamente in stato di guerra con lo stato
ebraico per l’irrisolta questione del Golan, nonché assediato da una
commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite che minaccia di decapitarlo, ha
trovato il tempo e sentito il bisogno di esprimere sentimenti di
soddisfazione per «il cambiamento positivo sulla scena politica israeliana»,
rappresentato dall’ascesa del marocchino Peretz.
Ma ad esprimere il sentimento più comune è stato forse il giornale
dell’analista Young, il Daily Star, con un editoriale dal titolo: «L’invidia
degli arabi». Più che tessere le lodi del nuovo leader del Labour, il foglio
di Beirut si è entusiasmato perché gli israeliani, beati loro, i capi dei
partiti li cambiano, e spesso. «Il popolo israeliano avrà la possibilità,
fra pochi mesi, di scegliere tra il premier Ariel Sharon e un totale
sconosciuto come Amir Peretz, possibilità che oltre duecento milioni di
arabi non hanno. I pochi sciocchi che non apprezzano il divino diritto dei
raìs a passare il trono a figli e discendenti languiscono in prigione o
spariscono tout court. Oh, Israele, dov’è il nostro seggio elettorale?»
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