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Giuliano Amato sta rivedendo gli appunti per la sua lezione di stamattina. Il ministro degli Interni inaugura a Bologna la scuola del Partito democratico, su invito del direttore Filippo Andreatta. «Il fattore unificante del partito futuro— al di sopra delle parole d’ordine politiche come competitività, educazione, formazione — è l’utopia di un mondo pacifico, nel quale ciascun essere umano abbia la possibilità di realizzare il proprio progetto di vita. E’ un po’ l’idea che oggi viene attribuita ad Amartya Sen, ma che va alle radici delle due maggiori componenti del Partito democratico. Quella socialista dell’800, che segnò il rifiuto dei destini precostituiti; penso alle riunioni in cui i presenti si davano tutti del tu, in quanto uguali tra loro. E quella popolare, ispirata da un messaggio religioso, siamo tutti figli dello stesso Dio, che esclude gerarchie naturali tra di noi. La sfida di oggi è come costruire un’utopia del genere. Eio la definirei così: vivere sull’ossimoro e far vivere l’ossimoro».
Quale ossimoro, ministro Amato? «L’ossimoro è rappresentato da due accoppiate: libertà e uguaglianza, l’accoppiata di Bobbio; e l’altra, libertà come affermazione di sé, l’io senza frontiere, cuore dell’individuo liberale, e libertà in quanto responsabilità, in quanto scelta che ciascuno deve fare del bene e del male. La storia dimostra che queste coppie debbono stare insieme; eppure la tendenza è a separarle. Il XX secolo non è riuscito a far convivere libertà e uguaglianza. Si è fatta vivere l’uguaglianza attraverso ideologie che presentavano il corso della storia come segnato da regole scientifiche. La mia generazione ricorda le parole di Togliatti, che sempre quando le cose non andavano bene cercava l’errore. Si pensava: se noi non sbagliamo, le cose andranno nella giusta direzione. Il liberalsocialismo aveva già dimostrato che il corso della storia non è dettato da regole ma è il frutto di azioni e interazioni di esseri umani, e quindi, come ha scritto Bobbio, il metro dell’azione politica non è la sua scientificità ma è la sua eticità. Però la stessa esperienza socialdemocratica, l’esperienza del welfare, ha affidato più al pubblico che agli spazi di libertà la costruzione dell’uguaglianza, e quindi è stata apparati, spesa pubblica, entificazione di missioni, l’angelo custode terreno».
Ed è venuta l’ondata liberista. «Qui il pendolo passa tutto dall’altra parte, dall’uguaglianza alla libertà: investire dove conviene, rimuovere gli ostacoli, lasciare che chi è capace di svilupparsi si sviluppi, tanto poi la ricchezza che avrà prodotto gocciolerà sugli altri. Ciascuno si occupi di sé. Un’ondata che nel contesto in cui intervenne ebbe anche effetti benefici, ma provocò anche disastri sociali. "Grazie signora Thatcher" è un film da vedere: al posto dei poteri pubblici di troppo potevano tranquillamente crescere i poteri privati di troppo, l’esclusione sociale non era più un problema. Sulla base di questa lunga esperienza storica, l’analisi del sangue del Partito democratico dovrebbe riscontrare la convinzione che con gli ossimori si deve convivere, che i termini delle due accoppiate possono stare insieme. E’ un bisogno che si legge nel linguaggio nella politica del centrosinistra. Anche sui giornali dell’altro giorno». A cosa si riferisce? «Ricordo i titoli sull’accordo tra Fassino e Giordano alla vigilia di Caserta, sintetizzato in "equità e innovazione". E ricordo gli articoli, di cui l’Economist è maestro, che sfottono i leader politici per l’uso frequente di parole che esprimono esigenze opposte. Scrivere articoli del genere è facilissimo. Tuttavia ci sono grandi disegni storici che si realizzano solo se si fanno convivere esigenze che si presentano come opposte. Il Partito democratico potrà servire non se giustappone gli opposti lasciandoli tali: io sostengo le ragioni di A, tu sostieni le ragioni di non A, e ci mettiamo insieme. Il risultato sarebbe un braccio di ferro permanente. Se le nostre tradizioni culturali hanno un senso, quella socialista e quella cattolico- riformista, è perché l’ossimoro alla fine deve risultare composto nelle sue contraddizioni. Guai a non prendere atto della grande lezione imparata a nostre spese: più dai poteri discrezionali al pubblico, più aumentano i rischi di corruzione e più mortifichi la possibilità per ciascuno di esprimere se stesso. E’ ancora insuperato il vecchio manifesto di Bad Godesberg: "Il mercato ovunque possibile, lo Stato dove è necessario". Un grande studioso laburista, Ronald Coase, ci insegnava già negli anni 30 che quando i costi di transazione se li possono sbrogliare i privati, la cosa migliore è che se li sbroglino loro. Ma in Coase c’è anche l’altra faccia della medaglia: chi non se li può gestire da solo non può essere libero. Allora l’unilateralità liberista genera la libertà di pochi. Per questo il programma del Partito democratico non può essere fatto solo di liberalizzazioni, anche se le deve avere dentro di sé». Quindi Bersani e Rutelli... «Dire che non deve avere solo le liberalizzazioni non significa svalutarne l’importanza. Il programma deve avere ciò che è essenziale per promuovere la libertà dei tanti e non la libertà di pochi. Da mesi ripeto in materia di pensioni che dare a ciascuno la possibilità di investire i propri risparmi nella previdenza integrativa è essenziale, ma non meno essenziale è una previdenza pubblica che assicuri a chi ha redditi talmente bassi da non poter accantonare risparmi un trattamento che non sia di povertà. Ma gestire l’ossimoro non significa necessariamente fare cose che stanno nel catalogo tradizionale della sinistra; nel mondo del nostro tempo, significa che la sinistra si deve accorgere dei cambiamenti che le chiedono di cambiare». A Caserta sulle pensioni si è svicolato. Non è un’ulteriore freno alla spinta riformista del centrosinistra? «Mi pare proprio di no. Io a Caserta ho detto le cose che ho appena detto qui a lei, Fassino ha detto cose simili e Prodi, concludendo, ha ribadito che il calendario già fissato per avviare il discorso non muta».
La necessità di cambiare vale anche in tema fiscale? «Da anni, nella ripartizione tra capitale e lavoro, il mondo industrializzato premia in maniera crescente il capitale e riduce la parte che va al lavoro. E’ un effetto della mondializzazione dei mercati. Chi oltre alla libertà pensa anche all’uguaglianza, di questo si deve far carico; e forse la strada è più quella della partecipazione al capitale che quella dell’aumento del salario. La ricchezza sta diventando sempre più finanziaria, e chi ha a cuore il nutrimento della pecora da tosare, per dirla con Olof Palme, deve chiedersi come far tornare verso l’investimento industriale la ricchezza finanziaria. Forse il regime di doppia tassazione dei profitti di impresa, tassati prima come utili di impresa e poi come dividendi degli azionisti, è sbagliato. Gli utili di impresa non dovrebbero essere tassati».
Poi c’è l’ossimoro tra libertà come autoaffermazione e libertà come responsabilità. Qui ci avviciniamo a uno dei punti dolenti del Partito democratico: i temi etici, dalla fecondazione assistita ai Pacs. «Sì, le fratture sui temi etici nascono tutte da qui. L’individualismo liberale, che in economia si esprime con il "ciascuno pensi per sé", in etica si esprime con il "ciascuno sia libero di fare quello che crede". Non ci sono frontiere, non ci sono limiti: tutto ciò che è fattibile, vi sia la libertà di farlo. Ma la libertà come responsabilità non ammette questo. La libertà della persona e non dell’individuo si preoccupa che attraverso la libertà di ciascuno non si producano sugli altri effetti che altri non hanno voluto. C’è un limite imposto non necessariamente dalla legge ma dalla coscienza: una cosa è fermare la conoscenza in nome del dogmatismo, una cosa diversa è fermare l’utilizzazione della conoscenza che possa recare danno alla comunità. Non si chiama oscurantismo il richiamo al limite, le colonne d’Ercole che — per quanto spostate molto al di là di Gibilterra—l’azione umana incontra ancora oggi. Vedo qui la difficoltà maggiore per il Partito democratico. Non accetto che il partito si costruisca dicendo "ognuno la pensi come crede, siamo un partito plurale". Sarebbe un annuncio di Babele». Sta dicendo che sui temi etici il Partito democratico non potrà nascondersi dietro la libertà di coscienza? «Sto dicendo che tu religioso non devi oppormi come parola di Dio una parola terrena. Ma tu non credente non farti portatore di un individualismo che non è quello della tradizione culturale della sinistra laica. La nostra cultura ha dentro di sé il valore della comunità, della societas; quindi neanche in etica si può essere thatcheriani a sinistra».
Ma secondo lei il Partito democratico si farà davvero? Non c’è il pericolo che sia visto togliattianamente come una necessità storica destinata ad avverarsi comunque? «Il Partito democratico non è destinato a nascere da solo, se non commettiamo errori. Anch’esso sarà il frutto di azioni e interazioni di esseri umani liberi. Dobbiamo essere noi a esprimere la volontà di farlo, a superare gli ostacoli, a essere persuasivi verso chi ha dubbi, a fondere culture politiche e non apparati o percentuali elettorali. Sono convinto che non c’è ragione per un socialista di sinistra di sottrarsi all’ossimoro. Penso tocchi a me convincerlo che non perde la parte che gli sta a cuore; ciò che perde è il XX secolo. E mantenendo simboli, nomi, parole, parla la lingua di un secolo che è finito ».
Ministro, la sua proposta di una convenzione per le riforme è stata elogiata a destra e criticata dalla sua parte politica. «Io so benissimo che quell’idea oggi non è realizzabile, ma le sono affezionato per una ragione molto semplice: la legge elettorale fa parte di un’insiemistica in cui rientrano due Camere che fanno le stesse cose, una con il doppio dei componenti dell’altra. Tant’è vero che nel programma dell’Unione avevamo scritto che è meglio differenziare le funzioni delle due Camere e ridurre il numero dei parlamentari. Io mi auguro che modificare la legge elettorale da sola non ci precluda poi la possibilità di fare anche il resto. Di qui l’utilità di esaminare queste riforme tutte insieme, magari in una sede nella quale si discute con serenità». Resta il fatto che il capo dell’opposizione si è detto favorevole, e il capo del governo ha risposto che bisogna lasciar lavorare il ministro Chiti... «Ma è naturale che il capo del governo dica così: ha affidato a un ministro un mandato, deve in ogni caso verificare a quale risultato porterà. Prodi e io quel giorno ci siamo sentiti, dopo che lui aveva letto i giornali, e abbiamo convenuto insieme che dicesse questo. Se fossi stato Prodi, avrei detto la stessa cosa».
Che cosa intende Eugenio Scalfari quando scrive che lei cammina sul filo con il rischio di cadere, e i suoi amici sono preoccupati? «Ho parlato anche con Scalfari. La sua è la definizione del riformista, che quando passa all’azione cammina sul filo che oscilla. Il riformista che parla e non agisce, invece, non sta mai sul filo, non oscilla, non rischia di cadere». Aldo Cazzullo Corriere della Sera 13 gennaio 2007 (sottolineature mie) |