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L'attacco dell'11 settembre
raccontato da Martin Amis, «The Guardian» 18 settembre 2001.
L'arrivo del secondo aereo, dritto verso il basso come uno squalo proprio sopra
la Statua della Libertà: ecco il momento determinante. Fino ad allora l'America
ha pensato di assistere al peggior disastro nella storia della sua aviazione
civile; da lì in poi ha percepito il senso della fantastica violenza che si era
appena scatenata contro di lei.
Non ho mai visto un oggetto familiare subire una trasformazione così radicale.
Quel secondo aeroplano sembrava potentemente vivo, galvanizzato da una specie di
malignità, e completamente alieno. Per le migliaia di persone chiuse nella torre
sud quell'aereo ha significato la fine. Per noi il suo bagliore è stato
l'annuncio lampo del futuro in mondovisione.
Il terrorismo è comunicazione politica fatta con altri mezzi. Il messaggio
dell'11 settembre suonava più o meno così: America, da adesso saprai quanto è
implacabile l'odio contro di te. Il volo 175 della United Airlines è un missile
intercontinentale lanciato contro la sua innocenza. Quell'innocenza è stata
un'anacronistica e lussuosa illusione. A una settimana dall'attacco è possibile
prendere le misure della sua atroce ingenuità. È un luogo comune -
inevitabilmente necessario, però - a farci sottolineare che una simile mise
en scène avrebbe messo in imbarazzo il dirigente di uno studio hollywoodiano
o anche il bloc-notes di uno scrittore di thriller ("Quel che è successo oggi
non è credibile", ha detto Tom Clancy). Eppure è diventato realtà alla luce del
sole, e tutti hanno potuto vederlo: un mucchietto di coltellini hanno prodotto
due milioni di tonnellate di macerie.
Gli eventi di martedì scorso hanno polverizzato molti punti cruciali del
programma politico del governo statunitense, tra cui lo scudo spaziale che
avrebbe dovuto difendere l'America dai missili nemici. Qualcuno ha capito che i
cieli d'America brulicavano già di missili, tutti pieni, tutti carichi.
Il piano prevedeva il dirottamento di quattro aerei di linea - il tempo a
disposizione non avrebbe superato la mezzora. Tutti e quattro erano diretti
verso la costa ovest, e questo assicurava serbatoi praticamente pieni. Il primo
si sarebbe schiantato contro la torre nord proprio all'inizio della giornata
lavorativa. Poi, dopo 15 minuti, dopo aver dato al mondo il tempo di mettersi
davanti al televisore ed essersi assicurato l'attenzione di tutti, il secondo
aereo sarebbe finito contro l'altra torre, nell'istante che ha invecchiato la
giovinezza dell'America.
Se l'architetto di quest'opera di distruzione è stato Bin Laden, è certo che
doveva conoscere l'equazione di stress che regolava la stabilità del World Trade
Center. Doveva conoscere anche gli effetti del fuoco sul carburante: a 500 gradi
centigradi (un terzo della temperatura raggiunta all'impatto) l'acciaio perde il
90% della sua forza. Deve aver previsto il crollo di una delle due torri, o
forse di entrambe. Ma nessun genio visionario avrebbe sperato di ricreare la
maestosa abiezione di quella doppia resa, l'enormità dei due edifici pronti a
consegnarsi al proprio stesso ralenti. E doveva essere ben chiaro che una
costruzione così scopertamente composta di acciaio e cemento sarebbe diventata
una metafora indimenticabile. In quel momento è stata raggiunta l'apoteosi
dell'era postmoderna - il tempo delle immagini e delle percezioni. Persino le
condizioni del vento erano favorevoli; nel giro di poche ore sembrava che su
Manhattan fossero state lanciate bombe nucleari per dieci megatoni.
Nel frattempo un terzo velivolo si sarebbe schiantato sul pentagono, e un quarto
su Camp David, o forse sulla Casa Bianca. Il quarto si è schiantato a terra, non
contro un obiettivo, ma nel mezzo della campagna della Pennsylvania, dopo la
supposta eroica resistenza dei passeggeri. Il destino di quel quarto aereo
avrebbe potuto diventare una delle storie dell'anno. Ma non quest'anno. Che nei
primi giorni dopo l'attentato si facesse fatica a trovarne una menzione negli
articoli e nei servizi televisivi dà l'idea delle dimensioni della disfatta
americana.
La sorella di mia moglie aveva appena portato i bambini a scuola ed era ferma
all'angolo tra la Fifth Avenue e Eleven Street, alle 8 e 58 del mattino
dell'undicesimo giorno del nono mese dell'anno 2001 (il secondo millennio
dell'Era Cristiana). Guardò in alto e vide la pancia del 767 a poche centinaia
di metri dalla sua testa. (Un altro testimone ha descritto l'aereo come 'in
picchiata' contro Fifth Avenue a 400 chilometri orari). C'è un arco, di fronte
al parco di Washington Square, tutto sommato modesto; il volo 11 dell'American
Airlines da Boston a Los Angeles viaggiava così basso che per evitarlo ha dovuto
virare improvvisamente verso l'alto.
Abbiamo visto tutti degli aeroplani avvicinarsi a un grande edificio, o almeno
così sembrava. Ci siamo irrigiditi ogni volta, preconizzando l'impatto, anche se
sapevamo che si tratta di un'illusione ottica, e in realtà l'apparecchio avrebbe
continuato la sua rotta sopra di noi. Mia cognata era esattamente sotto la rotta
del volo 11. Pregò che ritornasse a puntare verso il cielo azzurro, ma non ci fu
alcuna virata. Quel pomeriggio i suoi bambini avrebbero aiutato a distribuire
acqua ai donatori di sangue all'ospedale St. Vincent, fermi in una coda lunga
tutto l'isolato.
Poi l'arrivo del secondo impatto, il rivelarsi del terrore - il terrore
raddoppiato, il terrore moltiplicato per se stesso. Parliamo di "furia aerea" -
ma si poteva avvertire una sorta di impeto impazzito in quel puntare,
stabilizzarsi e infine schiacciarsi contro la torre sud. C'era un sovrappiù di
cattiveria perfino nel fuoco e nelle fiamme, infiniti vampiri rossi e neri.
L'omicidio suicida proveniente dall'esterno verso l'interno veniva replicato
dall'interno all'esterno - lo spettacolo più tremendo dell'intera giornata. I
corpi venivano già dando calci, frustando l'aria. Come se si potesse respingere
quella caduta abissale. Chiunque avrebbe dato calci, chiunque avrebbe frustato
l'aria. Non puoi fare più niente per te, non più di ciò che fai quando fa molto
freddo e ti battono i denti. È un riflesso condizionato. È quel che succede agli
esseri umani quando cadono.
Il pentagono è un simbolo; il World Trade Center è, o era, un simbolo; un
passeggero aereo americano è anch'esso un simbolo - racconta la mobilità di un
paese, e la sua frenesia entusiasta, e una galassia di destinazioni brillanti.
Chi ha condotto l'attacco di martedì è stato moralmente "barbaro", in un modo
inespiabile, ma ha aggiunto al suo lavoro un tocco di folle raffinatezza. Ha
preso questi grandi manufatti americani e li ha frantumati l'uno contro l'altro.
Poi non servirà a molto definire gli attacchi "vili". Il terrore affonda sempre
le proprie radici in una forma di isteria e di insicurezza psicotica; ciò
nonostante, dovremmo imparare a conoscere come sono fatti i nostri nemici. I
pompieri non hanno avuto paura a morire per un ideale. Ma gli assassini suicidi
appartengono a una categoria psichica diversa, e la loro efficienza militare non
ha equivalenti tra le nostre fila. Hanno un chiaro disprezzo per la vita. E un
altrettanto chiaro disprezzo per la morte.
Il loro obiettivo era di torturare migliaia di persone, e di spaventarne
milioni. E ci sono riusciti. La temperatura della paura planetaria ha superato i
limiti della colonnina di mercurio; il "brusio del mondo", come scrive Don
DeLillo, è diventato ronzio nelle orecchie. E lo strascico più duraturo avrà a
che fare con il nostro futuro più remoto, ed è soprattutto la sicurezza dei
nostri cari, in particolare i nostri bambini. Saranno i genitori americani a
sentirla più duramente, ma toccherà anche noi. L'illusione è questa. Le madri e
i padri hanno bisogno di sentire che possono proteggere i loro figli.
Naturalmente non possono, non potrebbero in nessun caso, e hanno bisogno di
sentirlo comunque. Ciò che una volta pareva più o meno impossibile - proteggerli
- adesso suona palpabilmente inconcepibile. D'ora in avanti dovremo farne a
meno, di quel bisogno.
L'11 settembre potrebbe non risultare una data così epocale; e dovrebbe essere
tra i primi compiti del governo evitare che non sia epocale. Che sia chiaro:
l'attacco avrebbe potuto essere infinitamente peggiore. Gli esperti del Centre
for Disease Control sono subito accorsi sulla scena dell'attacco per studiarne
l'atmosfera, in caso di utilizzo di armi biologiche e chimiche. Sapevano bene
che si trattava di una possibilità; e rimarrà una possibilità. Poi c'è anche il
dilemma assolutamente inestricabile delle centrali nucleari americane inattive
(nessuna centrale è stata smantellata). Se attacchi terroristici simili fossero
condotti contro obiettivi del genere gigantesche aree del paese potrebbero
diventare cimiteri di plutonio per le prossime decine di migliaia di anni. E
infine c'è la minaccia quasi inevitabile dell'uso terroristico di armi nucleari
- magari fatte esplodere contro centrali nucleari. Una delle questioni
concettuali che Bush e i suoi consiglieri non sapranno mai affrontare è che
l'Orrore dell'11 settembre, con tutta la sua perfezionistica perversione, non è
stato che un accenno. Siamo ancora nel primo girone.
Inoltre sarà tremendamente difficile e doloroso, per gli americani, assorbire
l'idea di essere odiati, e di un odio comprensibile, per di più. Quanti tra
loro, per esempio, sanno che il loro governo ha eliminato almeno il 5 % della
popolazione irachena? Quanti saprebbero trasferire la stessa percentuale in
America, raggiungendo la cifra di 14 milioni di individui? Alcune tipiche
caratteristiche nazionali - fiducia in se stessi, un patriottismo più orgoglioso
che in qualunque altro paese occidentale, una diffusa e costante mancanza di
curiosità geografica - hanno contribuito a determinare un deficit di empatia per
le sofferenze dei popoli lontani. E venendo al punto cruciale, e al più
drammatico: la convinzione di stare dalla parte del bene, di essere i giusti, ha
portato gli americani a un livello quasi tautologico di coscienza di sé: gli
americani sono buoni e giusti per il semplice fatto di essere americani. Saul
Bellow ha coniato una definizione per quest'abitudine mentale, l'angelicazione.
In America, dunque, non c'è soltanto bisogno di una rivoluzione della
consapevolezza, ma di un adattamento del carattere nazionale: roba capace di
durare una generazione.
E nel resto del mondo ? È strano, ma il mondo si sente di nuovo diviso in due.
Ancora una volta, l'Occidente si trova di fronte a un sistema agguerrito,
irrazionalista, teocratico, che coltiva un inappagabile desiderio di opporsi ai
fondamenti della sua stessa esistenza. Il vecchio nemico era una superpotenza;
il nuovo nemico non è neppure uno stato. Alla fine l'Unione Sovietica è
collassata a causa delle sue contraddizioni e abnormità, ed è stata costretta in
un angolo ad ammettere, per dirla con Martin Malia, "che il socialismo non
esiste, e l'URSS ha voluto costruirlo lo stesso". Tuttavia il socialismo è stato
un esperimento modernista, quasi futurista, mentre il fondamentalismo militante
sembra paludato in una specie di alto medioevo della sua evoluzione. Potremmo
dover aspettare, prima che arrivi un rinascimento, poi una riforma, poi un
illuminismo. E non lo faremo.
Cosa faremo, però ? Dovrà venire la violenza; l'America deve avere la sua
catarsi. C'è da sperare, anzitutto, che la risposta non dia luogo a un processo
di escalation. Dovrebbe rispecchiare l'originalità dell'attacco dell'11
settembre, e cioè dovrebbe essere inattesa, stupefacente. Un esempio utopico: la
gente afgana, affamata e sconvolta, in attesa di un inverno di carestia,
dovrebbe essere bombardata non con missili, ma con derrate alimentari chiuse in
casse contrassegnate dalla scritta PRESTITO - USA. Più realisticamente, a meno
che il Pakistan sia davvero in grado di consegnare Bin Laden, la ritorsione
americana potrebbe assumere proporzioni mastodontiche. A quel punto il terrore
dal cielo alimenterà il terrore dalla terra: ferite non sanate. E questo sarebbe
il ciclo familiare così ben colto dal racconto di V.S.Naipaul e dal suo titolo,
Tell me who to kill. Il nostro destino migliore, in quanto coabitanti del
pianeta, è lo sviluppo di quella che qualcuno ha chiamato "coscienza di specie"
- un'idea che oltrepassa i nazionalismi, le divisioni, le religioni, le
differenze etniche. Durante questa settimana di dolore e incredulità, ho provato
ad applicare questo genere di coscienza e questo genere di sensibilità. Pensando
alle vittime, ai mandanti, e al futuro che ci aspetta, ho sentito il dolore
della specie, poi la vergogna a causa della specie, infine la paura per la
specie.
Martin Amis
(traduzione di Gianluigi Ricuperati)