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Così ho vissuto il cambio di direzione al Corriere |
tratto
da "Corriere della Sera" del 27/06/03 |
Il
decano degli editorialisti di via Solferino è inquieto e invita a contrastare
la bulimia del premier.
A
quanto pare, oramai sono il più antico editorialista del Corriere della Sera .
Sì, ahimé, il più antico. Entrai nel 1968 con la direzione di Giovanni
Spadolini, e uscii con lui. Poi lasciai l’Università di Firenze per andare a
quella di Stanford in California; e da lì ero troppo lontano per mantenere un
piede in Italia.
Al Corriere sono rientrato, dopo un lungo intervallo, nel 1991.
Ma l’anzianità resta. E mi dà titolo, spero, per parlare del Corriere sul
Corriere .
Ne approfitto per dichiarare subito, in premessa, che in questo giornale la mia
indipendenza e libertà di opinare è sempre stata assoluta. Anche se
l’assedio del potere diventava sempre più pressante, con me Ferruccio de
Bortoli non si è mai lamentato. Le lamentele su di me se le prendeva lui. Io più
o meno le sapevo; ma de Bortoli non me le ha mai passate. Tengo molto a dargli
atto della sua eleganza e fermezza nel proteggermi.
Allora, cosa è successo al Corriere ? Giuliano Ferrara, vulgo il Giulianone,
talvolta è proprio malvagio; ma talvolta è un burlone. E doveva essere in vena
burlesca quando ha scritto che «è da provinciale o da furbetti inquietarsi per
un cambio di direzione in un grande giornalone ... La notizia vale più o meno
come l’avvicendamento del prefetto di Bologna». Ebbene sì, lo confesso: io
sono provinciale (furbetto temo di no), e quindi io mi inquieto. Mi inquieto,
tra l’altro perché so distinguere tra una cinquantina di prefetti e il
direttore di un giornalone, anzi, del giornalone .
Anche Piero Ottone, che sostituì Spadolini alla direzione del Corriere nel
1972, minimizza. Scrive così: «Potere politico, libertà di stampa; è guerra
continua in tutto il mondo». La differenza è che altrove questa guerra si
combatta con i guanti; da noi un po’ meno. Ma, continua Ottone, «il metodo è
sempre eguale, il potere politico chiede di cambiare il direttore, e se la
proprietà del giornale rifiuta di cambiarlo il potere politico cerca di
cambiare la proprietà». E ricorda il caso davvero lontano (del 1953) della
Gazzetta del Popolo di Torino diretta da Massimo Caputo, un liberale che «non
prendeva ordini da nessuno».
I democristiani ne chiedevano il licenziamento, e per ottenerlo fecero comprare
il giornale a un ricco senatore Dc, Teresio Guglielmone. Andò proprio così: ma
Ottone non ricorda che quel giornale vendeva (se non ricordo male)
cinquanta-settantamila copie, e che era in profondo rosso.
Qual è, allora, l’analogia con il caso del Corriere ? Un giornale che perde
soldi è sempre facilmente venduto e comprato. Il Corriere è invece in attivo:
e poi come si fa a comparare un giornalino con «il giornalone»? Le vicende del
Corriere le conosco bene anche io. Finora il potere politico ha conquistato il
Corriere soltanto con Mussolini. Ma dopo la fine della dittatura fascista tornò
saldamente in mano ai Crespi - che furono proprietari rispettosissimi dei loro
direttori - che lo riportarono nel solco albertiniano del grande giornale
liberal-moderato del Paese. E nei decenni dei Crespi la sola «rivoluzione» fu
quella della nomina a direttore di Ottone. Fu rivoluzione nel senso che Ottone
portò in Via Solferino la contestazione di quegli anni, così «smoderando» la
tradizione moderata del giornale. Ma Ottone fu scelto quasi soltanto da Giulia
Maria Crespi.
Non ci fu, in quella scelta nessuna pressione politica, proprio nessuna. Ogni
nuova generazione pecca, o può peccare, di giovanilismo. Il giovane
proprietario del New York Times , Arthur Sulzberger jr., entrando nella stanza
dei bottoni si è sentito in dovere di svecchiare il suo giornale; ma così è
incappato l’altro giorno nell’infortunio dei falsi di un collaboratore
promosso senza collaudo perché politicamente corretto. Il giovanilismo è
talvolta avventato. E anche quello di Giulia Maria Crespi forse lo fu. Il punto
resta che finché il Corriere fu dei Crespi, editori all’antica, le pressioni
politiche furono tenute fuori della porta.
Poi sono cominciati gli «assalti» ricordati da Ottone: Cefis, la P2, Tassan
Din, e simili. Sì, assalti e anche «conquistine»: ma furono operazioni di
sottobosco. Tantovero che tutti questi assaltatori vennero, dopo poco, sconfitti
e dissolti nel nulla. Come scrive de Bortoli nel suo commiato, il Corriere è,
per il Paese, un’«istituzione di garanzia». Dopo un periodo buio, il
Corriere di Ostellino, di Stille, di Mieli e di de Bortoli, è davvero
ridiventato una istituzione di garanzia «non asservita a nessuno».
E ora? Ora, dicevo in esordio, io sono inquieto. Lo sono, sia chiaro, per conto
mio; io parlo soltanto per me. Il titolo dell’editoriale di avvio del nuovo
direttore, di Stefano Folli, è «Il coraggio dell’ottimismo». Un titolo
azzeccatissimo che mi ha fatto tornare in mente il detto tante volte ridetto da
Norberto Bobbio: che il pessimismo della ragione deve essere combattuto
dall’ottimismo della volontà. Ma se la volontà deve essere ottimista, la
ragione deve vedere le cose come stanno. E le cose non stanno bene. Mala tempora
currunt .
Nel suo addio Ferruccio de Bortoli osserva che siamo in grave declino politico,
istituzionale e morale, che «l’attività di governo confina pericolosamente
con gli affari...la libertà di informazione è vista con insofferenza crescente».
E’ sempre stato così? La differenza è soltanto, come pare a Ottone, di
guanti, di buone maniere? No davvero.
La differenza è che la vicenda del Corriere si iscrive nel contesto
dell’Italia di Berlusconi, sempre più di sua proprietà, sempre più
posseduta da lui. «Berlusconi - scrive il Guardian inglese - è l’uomo più
ricco d’Italia, il suo primo ministro e fruisce di illimitato accesso alla
televisione: dopotutto ne possiede gran parte, così come possiede fette di
quasi tutti gli affari italiani». Già. E la sola fetta che gli manca, per fare
l’ en plein , è quella del Corriere .
Naturalmente Sua Emittenza nega di avere non dico uno zampone ma nemmeno uno
zampino nell’assedio al Corriere . Nega anche di dettare legge nella Rai-Tv
(chissà di che parlava telefonando ogni mattina al suo direttore generale Saccà),
così come ha negato, l’altro giorno, di essersi interessato al lodo Maccanico.
Oramai non mi stupirei se un giorno Berlusconi negasse di essere proprietario di
Mediaset, o anche, in un momento di distrazione, di essere nato. Come si fa a
credergli? Intanto anche le panchine dei giardini pubblici di Milano sanno che
le liste di proscrizione di Berlusconi non si fermano a Viale Mazzini ma che si
estendono anche a via Solferino.
Inutile, e anche impossibile, far finta di niente. La battaglia sul Corriere è
in corso, e con questa battaglia siamo ormai alla linea del Piave. Il Corriere
è un grande giornale anche perché tiene assieme e rappresenta le varie anime
del Paese. I «corrieristi» di destra si irritano un po’, alle volte, quando
scrivo io; quelli di sinistra si irritano, talvolta, quando scrivono altri. Ma
conservatori e progressisti, polisti e ulivisti, continuano ad amare il Corriere
e a sentirlo come il loro giornale. Non importa che un lettore sia di fede
azzurra. Anche per lui un Corriere che perde la sua indipendenza, che viene
imbavagliato, sarebbe una sconfitta. Anche per lui deve esistere un confine che
il Cavaliere non deve varcare, un limite che il Cavaliere non deve superare.
Spero che in questi frangenti tutti i lettori del Corriere si uniscano, senza
distinzione di parte e di partito, per sostenerlo e difenderlo.