La storia giuridica della televisione italiana è una storia-battaglia tra
i giudici e la politica. I primi - i giudici costituzionali, i giudici
ordinari - che «capiscono» subito, profetici più di Cassandra, la forza
pervasiva del nuovo «potere mediatico». E la necessità costituzionale
di porvi limiti perché non sconquassi gli equilibri della democrazia. La
politica che presume di potere godere impunemente - conservando sempre la
sua superiorità - dei benefici economici e dell´appoggio elettorale del
nuovo potere. Facendolo crescere, dunque, in ogni modo, con favori
legislativi. Senza accorgersi di divenire, a poco a poco e
definitivamente, ad esso asservita o in esso confusa.
Il progetto di legge c.d. Gasparri, ora al Senato per la definitiva
lettura, è il finale di questa partita. Riproduce fedelmente, come una
implacabile moviola, le fasi del gioco e degli scontri di 40 anni. E ne
ripete, ossessivamente, la conclusione: il potere politico che asseconda e
fortifica il potere televisivo. Con una variante, però. Dopo decenni di
capitolazione, la politica non è più nella politica. Essa si è
trasferita nel nuovo potere: è questo che fa ora le leggi e il governo.
Anzi: è la legge, è il governo.
Il berlusconismo con la sua vorace occupazione di ogni spazio fra i poteri
è, certo, l´esempio mondiale di questo ribaltone ultimo nell´ordine
democratico. Ma per saperne di più bisogna leggere anche l´intervista a
Repubblica di Rupert Murdoch. Dove dice, con molta precisione, che «possedere
un giornale significa entrare nell´arena politica» e conferma di aver
sostenuto in passato i conservatori della Thatcher per due legislature e
poi i laburisti di Tony Blair. Ora sta pensando di passare di nuovo a
soccorso dei conservatori perché il loro leader «gli ha fatto una buona
impressione» e perché «non capisce la posizione di Blair sull´Europa».
E a proposito di Unione europea (e, dunque, dell´Italia) è contro la
Costituzione europea per la più inverosimile delle ragioni («l´Europa
unita è un grande sogno, ma ci vorranno 50 anni per farla»). Ed è
contro l´euro perché «non si può vincolare la propria valuta nazionale»…
Vi è un piglio da decisore delle decisioni politiche. La coscienza che i
padroni delle televisioni sono diventati i padroni della politica. Non a
caso ha iniziato da noi un giro di consultazioni tra i partiti.
Tutto questo i giudici costituzionali l´avevano esattamente previsto. La
prima sentenza della Corte è di 43 anni fa: 1960. E già allora quei
giudici si preoccupavano che quel mezzo di comunicazione fosse esercitato
in «condizioni di obiettività, di imparzialità, di completezza». Nel
1974, trent´anni fa, avvertivano: «Si tratta di attività che, ben al di
là della sua rilevanza economica, tocca molto da vicino fondamentali
aspetti della vita democratica». Ma la «rilevanza economica» l´avevano
però ben presente quando ammonivano sulla necessità che «attraverso una
adeguata limitazione della pubblicità si eviti il pericolo che la
radiotelevisione, inaridendo una tradizionale fonte di finanziamento della
libera stampa, rechi grave pregiudizio ad una libertà che la Costituzione
fa oggetto di energica tutela». Nel 1981, ventidue anni fa, l´allarme
dei giudici costituzionali si precisa: «Evitare l´accentramento».
Questo attribuirebbe «al soggetto privato operante in regime di monopolio
od oligopolio, una potenziale capacità di influenza, incompatibile con le
regole del sistema democratico». Sette anni dopo, nel 1988, quei giudici
constatavano amaramente: «L´evoluzione della situazione di fatto ha
dimostrato che il rischio della formazione di un oligopolio paventato
dalla Corte si è trasformato in realtà». Ma non si arrendevano. Anzi,
ribadivano «il valore centrale del pluralismo in un ordinamento
democratico» e ne facevano una duratura bandiera costituzionale. Anche
questa volta, malgrado il consolidarsi dello squilibrio, suggerivano
regole appropriate per creare uno spazio di diritto per il potere
mediatico. E, soprattutto, la regola delle regole: «Il pluralismo in sede
nazionale non potrebbe in ogni caso considerarsi realizzato dal concorso
tra un polo pubblico e un polo privato che sia rappresentato da un
soggetto unico o che comunque detenga una posizione dominante nel settore».
Ma la forza (o il prepotere) della situazione duopolistica di fatto ha
dominato sempre il legislatore. Fingerà sempre un adeguamento formale
alle regole della Corte per contrabbandare violazioni sostanziali. Ben se
ne accorgono i giudici costituzionali nel 1994. E lo dicono con durezza:
la legge «anziché muoversi nella direzione di contenere posizioni
dominanti già esistenti ha invece sottodimensionato il limite alle
concentrazioni». In questo modo «l´esistente posizione dominante è
risultata rafforzata perché con il tetto delle nove reti previste è
stata tracciata una invalicabile soglia di ingresso per ogni ulteriore
emittente nazionale». Si accorgono anche del trucco (che dieci anni dopo,
nel progetto ora al traguardo, sarà chiamato Sic) di allargare il
cosiddetto «mercato rilevante» per annacquare i tetti pubblicitari. E lo
dicono: il limite antitrust non può essere diminuito «dall´ampliamento
della prospettiva a tutta l´area dei mezzi di comunicazione, atteso che
il principio del pluralismo delle voci deve avere specifica e settoriale
garanzia nel campo dell´emittenza radiotelevisiva». La conclusione è
drastica: «Qualunque sia la combinazione dei parametri adottati non sarà
in alcun caso possibile che la risultante finale sia tale da consentire
che un quarto di tutte le reti nazionali (o un terzo di tutte le reti
private in ambito nazionale) sia concentrata in unico soggetto».
Tuttavia,
nonostante la drasticità di queste conclusioni, la Corte si arrende alla
ragione di governo: all´eterna emergenza dei regimi transitori. E attende
ancora perché ci si metta in regola con la riduzione dell´oligopolio
(una rete privata nel satellite, una rete Rai senza pubblicità). Questa
attesa termina con la sentenza n. 466 del 20 novembre 2002. Questa volta
la Corte si appella non solo a principi costituzionali nostri ma anche a
quelli europei stabiliti nel 2002 con quattro direttive ispirate alla
Carta dei diritti fondamentali europei. Il "termine di chiusura"
del regime transitorio viene fissato al 31 dicembre 2003: il termine già
stabilito dall´Autorità garante per le comunicazioni, viene in tal modo,
per così dire, "costituzionalizzato". È «un termine finale
certo, e non prorogabile», scaduto il quale entrano in vigore le misure
antitrust previste. «Ciò a prescindere dal raggiungimento della prevista
quota di "famiglie digitali"», aggiunge la Corte, quasi
avvertita del nuovo, illimitato periodo transitorio che il progetto
governativo contiene, in attesa appunto della "rivoluzione
digitale". (Una rivoluzione tecnica più immaginaria che reale,
nonostante le forzature. E che comunque non introdurrà il diritto nel
"governo dell´etere". Perché le attuali situazioni di fatto
sono bene assicurate per il futuro. E graverà dunque su questo il loro
incalcolabile vantaggio competitivo rispetto a chiunque si affaccerà al
nuovo mercato digitale).
Sta per concludersi dunque, coerentemente, una esemplare storia italiana
di straordinaria inottemperanza legislativa al diritto costituzionale,
dettato dalla Corte. Forse non ci poteva essere conclusione diversa dato
che il sistema televisivo privato - come scrive la Corte - «trae origine
da situazioni di mera occupazione di fatto delle frequenze (esercizio di
impianti senza rilascio di concessioni e autorizzazioni) al di fuori di
ogni logica di incremento del pluralismo nella distribuzione delle
frequenze e di pianificazione effettiva dell´etere».
E tuttavia una tale questione democratica è così visibile in tutti i
suoi risvolti e quindi così popolarmente evidente, che nessuno può
credere veramente alla fine della storia. Ecco perché già si pensa ad
altri rimedi: i giudici amministrativi, i nuovi poteri "europei"
dell´Autorità antitrust, ancora la Corte costituzionale. Insomma la
"lotta per il diritto" riprende domani. In questo caso, per
ristabilire l´equilibrio nella Costituzione, dissestato dal "nuovo
potere".
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