QUALCOSA di vergognoso, e di assolutamente inedito, è andato in onda
ieri, nel programma di occupazione a reti unificate di ogni spazio
televisivo da parte di Silvio Berlusconi e della sua maggioranza.
Incurante di ogni decenza, della propria dignità istituzionale, delle
leggi e delle prerogative dei presidenti delle due Camere, il presidente
del Consiglio ha infatti riunito per tre volte in poche ore i vertici del
Polo nella sua abitazione privata, per discutere il futuro della Rai. In
cinquant´anni di lottizzazione, di qualsiasi colore, credevamo di averle
viste tutte. E invece, incredibilmente, un ministro della Repubblica come
Umberto Bossi è uscito da quel palazzo annunciando che c´era un accordo
sul nuovo Consiglio di amministrazione Rai, i nomi erano pronti ed erano
già state prese anche le prime decisioni strategiche dell´azienda, come
la conferma dello spostamento di Rai Due a Milano. Il Parlamento si è
sentito aggirato e defraudato, ma soprattutto offeso con la violazione
patente della legge che assegna ai presidenti delle due Camere il compito
di nominare il vertice Rai. Il piccolo, vergognoso e spaventato golpe
televisivo del Cavaliere è rimbalzato nelle due aule, finché il
presidente Casini (costringendo Pera a seguirlo) ha assicurato formalmente
alla Camera che non accetterà diktat e fotocopie. Ma intanto la bulimia
di potere berlusconiana, unita ad un disprezzo ignorante delle regole, ha
già trasformato la questione televisiva in una questione istituzionale,
con uno scontro aperto tra i poteri dello Stato.
Fermiamoci un momento su quel palazzo privato, arredato in brutta copia di
palazzo Chigi, come nell´ossessione sudamericana di un ex governante in
esilio. Qui dentro, fuori da ogni sede istituzionale, da ogni tradizione
della vita politica italiana, da ogni consuetudine di Stato, si gioca
ormai gran parte della lunga partita di potere cominciata con la conquista
del governo del Cavaliere. È come se Berlusconi, anche dopo la vittoria
elettorale che lo consegna alla storia della Repubblica, anche quando può
contare su una larga maggioranza in Parlamento, anche mentre il picchetto
militare gli rende gli onori del presidente del Consiglio, non riuscisse a
trasformarsi compiutamente in un uomo di Stato.
Il conflitto di interessi che soffoca le istituzioni
La sua dimensione
precedente - ed eterna - lo cattura, lo definisce e lo imprigiona, insieme
con i suoi «amici», con i suoi interessi, con le sue proprietà, con i
suoi carichi pendenti e le sue paure. È come se quest´uomo dovesse in
qualche modo guardarsi dallo Stato mentre è chiamato a guidarlo. Da qui l´ossessione
di occupare ogni spazio, di munire ogni feritoia, di blindare ogni
bastione, di trasformare la politica e persino il governo in propaganda
permanente, nella concezione davvero «rivoluzionaria» che vede nella
vittoria elettorale non la conquista del governo, ma la presa del potere.
E da qui, pure, la sensazione che nel berlusconismo tutto è parallelo,
anche lo Stato. Come conferma il fatto che mentre lo Stato ufficiale
affida a due istituzioni super partes la nomina dei consiglieri Rai, nello
Stato parallelo del Cavaliere decide il presidente del Consiglio, a casa
sua, dove indecentemente arrivano - appena lui li chiama - ministri della
Repubblica, vicepresidenti del Consiglio e segretari di partito.
Sulla porta dello scandalo, ubbidiente agli ordini anche in punto di
morte, aspettava il presidente uscente Baldassarre che aveva preannunciato
le dimissioni a Pera e Casini, con la riserva (mai vista) di renderle
operative solo dopo che fosse stato raggiunto un accordo sul nuovo
Consiglio di amministrazione: in pratica, dimettendosi a metà,
Baldassarre impediva a Pera e a Casini di pensare ad un nuovo vertice Rai,
cioè di esercitare la loro autonomia prevista dalla legge ma pericolosa
per il Cavaliere, mentre dava via libera al gioco dei partiti. E a
completare l´opera di questo mondo a parte, dove lo Stato non c´entra,
travolto dagli interessi privati di un uomo solo, non poteva mancare
Maurizio Costanzo: che prima si è offerto inopinatamente come mediatore
dell´ultimo pasticcio interno alla Rai tra festival e dopofestival, e poi
ha pensato bene di anticipare in una sua trasmissione (sbagliandoli) i
nomi dei nuovi consiglieri dell´azienda concorrente, decisi poco prima
dal suo datore di lavoro, trasformando una questione istituzionale in uno
spettacolo televisivo, naturalmente tra i consigli per gli acquisti.
Fatte le nomine nell´universo extrastatuale di Palazzo Grazioli,
certificate dal timbro privato di garanzia Mediaset, finalmente
Baldassarre ha potuto prendere atto che istituzionalmente - diciamo così
- la sua ora era giunta, e si è dimesso.
Tutto questo quadro è ridicolo, dal punto di vista dell´ossessione che i
nuovi potenti hanno per la televisione, scambiandola per la politica e
sacrificando ad essa ogni regola, come se fosse l´ultima, moderna
ideologia superstite. È suicida dal punto di vista della managerialità,
della competitività di una grande azienda culturale sul mercato, degli
interessi del Paese. È osceno dal punto di vista della democrazia. Lo
spettacolo di ieri, nel suo arrogante dilettantismo, certifica infatti che
il conflitto di interessi sta soffocando ogni regola e ogni decenza nella
vita politica e istituzionale del nostro Paese, proprio in quel nodo
cruciale che è l´informazione e il pluralismo, e che inutilmente il
presidente Ciampi continua a sottolineare in ogni suo intervento. Voglio
essere più chiaro. La Rai è stata lottizzata selvaggiamente ad ogni
cambio di governo e le stagioni del centrosinistra gridano anch´esse
vergogna, come tutte le altre nel dopoguerra. Ma qui, siamo in presenza di
un´anomalia in più, un´anomalia costituente e connaturata al
berlusconismo, che cambia da sola tutto il quadro di riferimento. Il capo
del governo, infatti, è proprietario di metà dell´etere, per la prima
volta nella storia della politica italiana, e anche per la prima volta in
Europa. Controlla dunque per via proprietaria tre reti televisive. È
indecente che attraverso il controllo politico si annetta con le tre reti
pubbliche la totalità dello spazio tivù, vale a dire il moderno luogo
del dibattito e dell´informazione politica, la sede principale della
formazione del consenso. Poiché il Cavaliere non intende - con ogni
evidenza non intende - risolvere in modo trasparente e definitivo il
conflitto di interessi, va evitato un accumulo di potestà televisiva tale
da squilibrare il gioco democratico.
Dovrebbe essere lo
stesso Berlusconi a sentire questo dovere e a fissare una regola capace di
correggere almeno per la questione televisiva l´anomalia del conflitto di
interessi. Dovrebbe farlo per rispetto di sé, per liberare se stesso in
un gioco aperto di competizione democratica, per dare più forza alla sua
vittoria. Non lo farà mai, per le ragioni che dicevamo prima, e perché
invece di usare la politica per diventare davvero uomo di Stato, la usa
strumentalmente per ridurre lo Stato a sua misura. Tocca dunque ai
presidenti delle Camere, che hanno il potere di nomina, e al capo dello
Stato, che in questo caso ha come unico potere l´arma nuda della moral
suasion, ma che più volte si è mostrato consapevole della stortura
rappresentata dal conflitto di interessi. Non ci vuole troppo coraggio,
perché è giusto che anche la Rai tenga conto dell´indirizzo politico
scelto dagli elettori. Dunque non si tratta di regalarla al nemico. Ma si
dia al Paese la sensazione che in questo quadro il vertice non prende
ordini dal Cavaliere o da Mediaset: si nomini dunque un presidente di
sicura garanzia (ci sono i nomi adatti, da Mieli a De Rita) e poi, invece
di credere alla favola indecente di Berlusconi che ripete di non conoscere
nemmeno il numero telefonico della Rai, si incominci a non rispondere al
telefono. Fingendo per la prima volta che la Rai sia un´azienda.
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