Il nuovo direttore del Tg1, Clemente Mimun, dichiara in un’intervista (
Corriere del 21 maggio) che il suo «editore di riferimento» è soltanto
il telespettatore e che, essendo la Rai un «servizio pubblico», lui non
si sa «immaginare un prodotto che non punti a fare il pieno di ascolti».
Colgo l’occasione per dissentire. Ho molto rispetto per Mimun. Le
critiche gli sono dovute ex officio , perché è lui che guida
l’ammiraglia della tv di Stato. Editore di riferimento è dizione
zuccherata e cincischiata. Messa in chiaro vuol dire chi comanda. E la
risposta può essere altrettanto chiara: in passato comandava la Dc, poi
ha comandato la sinistra e ora comanda Berlusconi. Certo non comanda il
pubblico dei 25 milioni di telespettatori del quale Mimun si fa scudo.
Magari fosse così. Ma così non è.
In un’economia di mercato il consumatore è sovrano perché può
scegliere tra prodotti differenziati (dall’utilitaria alla Ferrari) che
paga. Nel cosiddetto mercato televisivo io non posso rifiutare di pagare e
non posso passare a prodotti di qualità superiore perché nessuno me li
offre. A me tocca ascoltare quel che mi passano conventi che sono tutti
eguali nel ridurre l’informazione seria a quasi nulla. Sono un sovrano?
No, il vero sovrano, qui, è la pubblicità calcolata sui dati di ascolto
dell’Auditel.
Per i signori di Saxa Rubra il compito del servizio pubblico è di fare un
pieno di pubblico, di fare «il pieno di ascolti». Ma se così fosse,
qual è la differenza tra servizio pubblico e televisione commerciale? Se
così fosse, il servizio pubblico è da chiudere e basta. Perché dobbiamo
pagare un canone per ottenere un prodotto commerciale che possiamo
ottenere gratis? Il nodo della questione è, allora, che un servizio
pubblico è tale perché è tenuto a servire interessi generali, interessi
collettivi.
Restando al caso dei telegiornali, il loro compito pubblico è, prima di
tutto e soprattutto, d’informare sulla cosa pubblica, e in questo senso
di formare cittadini in grado di gestire la loro democrazia. Si avverta:
informare non è dare notizie di 20-30 secondi che di per sé non
significano nulla. Informare è spiegare, è far capire, è far discutere
gli eventi non da politici che si urlano addosso, ma da esperti. Questo
corretto modo d’informare io negli Stati Uniti lo vedo e seguo tutte le
sere. Il modello esiste. Volendo, è facile da replicare. È che non lo si
vuole. All’Italia occorre un Biagi ingrandito e moltiplicato per dieci
(non può fare tutto lui da solo). Invece il nostro cosiddetto editore di
riferimento si propone di silenziare persino Biagi, vuole un oscuramento
totale, sovrastato dalla voce del padrone.
I poveri 25 milioni di telespettatori del Tg1 non si rendono conto,
ovviamente, di quanto non viene loro mai detto. Sono imbottiti di cronaca
nera, di cronaca rosa, di storie strappalacrime. E i pochissimi minuti di
notizie rilevanti sono confezionati in modo da evitare grane. Manca
l’acqua in Sicilia? Perché? Silenzio di tomba. Spiegarlo irriterebbe i
politici siciliani svelando orripilanti retroscena di mafia
(dell’acqua). C’è o non c’è un buco nel bilancio? Esistono
economisti in grado d’illuminarci. Ma Tremonti non gradirebbe una verità
diversa dalla sua. Meglio abbozzare. E cosa sta succedendo delle
fondazioni bancarie? E’ un’ennesima, scandalosa pappata dei nostri
politici, oppure no? Questi, e moltissimi altri, non sono temi da talk
show alla Vespa o alla Santoro (che fanno spettacolo ma che non
chiariscono un bel nulla). Sono temi che almeno un telegiornale non
commerciale dovrebbe sottoporre a un dibattito di esperti in un’ora di
massimo ascolto. La Rai di canali ne ha tre. Ma per un servizio pubblico
che si occupa della cosa pubblica non ha posto. Anche se ne avesse sei, li
lottizzerebbe. Che vergogna.
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