Gli esperti di calamità naturali delle Nazioni Unite osano dire quello che
nessuno vorrebbe sentire in queste ore di lutto e di angoscia: il peggio forse
deve ancora venire. Il peggio è la sorte che minaccia i superstiti.
Su di loro incombono epidemie, carestie, il crollo economico di zone dallo
sviluppo fragile, la fuga dei turisti e anche quella delle multinazionali e
delle loro fabbriche. I segnali di disponibilità che arrivano dai paesi ricchi
del G-8 per cancellare i debiti dei paesi colpiti dallo tsunami danno la
misura della gravità della situazione per i sopravvissuti: in quest'area del
mondo l'arresto dello sviluppo può segnare il confine tra la vita e la morte.
La sola Indonesia ha 40 miliardi di dollari di debito estero. La logica
spietata dei mercati finanziari dirige gli investimenti verso i paesi che
ispirano fiducia, la spirale dell'insicurezza può avere effetti letali. Il
miracolo economico del sud-est asiatico è ancora recente. I suoi frutti hanno
appena cominciato a beneficiare gli strati più ampi della popolazione in paesi
come l'India (600 dollari l'anno di reddito individuale), il Bangladesh (400
dollari), lo Sri Lanka (980 dollari l'anno) e l'Indonesia (mille dollari pro
capite il reddito annuo). Nello Sri Lanka in tre giorni è già triplicato il
prezzo del riso. In Indonesia i dirigenti della Croce rossa dicono che "i
saccheggi nelle zone colpite non sono opera di sciacalli, ma di gente che ha
fame".
Il primo pericolo è quello denunciato dall'Organizzazione mondiale della
sanità (Oms): "Solo nelle prossime tre settimane le epidemie possono fare
altri 50.000 morti". Gli esperti dell'Oms conoscono la feroce regola
statistica delle grandi calamità naturali: se le epidemie non vengono arginate
con la massima urgenza, il loro bilancio in vite umane può raggiungere l'1%
degli sfollati e dei senzatetto, che sono 5 milioni nelle zone devastate dallo
tsunami.
Malaria, colera, tifo, dissenteria e polmonite possono infierire come un altro
maremoto. Il costo per prevenire queste malattie è troppo alto per le finanze
pubbliche di alcuni paesi colpiti come lo Sri Lanka, una nazione dove già il
20-25% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. I soccorsi devono
raggiungere zone lontane, le infrastrutture sono a pezzi. La prima carenza a
cui è difficile rispondere in maniera adeguata è quella dell'acqua potabile, e
da lì ha inizio la catena delle infezioni. Un cataclisma che ha colpito undici
fra le zone più popolose del mondo - in tutto 350 milioni di abitanti - pone
problemi logistici e organizzativi enormi.
La stima dei danni economici di un simile cataclisma è approssimativa, anche
perché in questi paesi emergenti pochi sono assicurati e quindi manca un
indicatore essenziale del prezzo delle distruzioni. I grandi assicuratori
internazionali come Munich Re hanno azzardato la cifra di 10 miliardi di euro
ma è probabilmente una frazione del totale. In realtà questo tsunami ha
superato da solo la somma delle devastazioni di tutte le precedenti 400
calamità naturali dall'inizio del 2004, che avevano seminato danni per 42
miliardi di dollari. Sono queste cifre che fanno temere una depressione
economica nelle zone colpite.
Anche se le nazioni dell'Asia meridionale hanno notevoli dislivelli tra di
loro - il reddito pro capite in Malaysia è cinque volte quello dello Sri
Lanka, il ritmo di sviluppo indiano (+8,4% del Pil) è il doppio di quello
indonesiano - esse hanno anche alcune caratteristiche comuni. Tutte hanno
beneficiato degli investimenti esteri che arrivano con il fenomeno della
delocalizzazione produttiva: quest'area del mondo attira da anni le
multinazionali del tessile-abbigliamento e delle scarpe.
Inoltre per quasi tutte queste nazioni il turismo è la prima o seconda fonte
di valuta pregiata, con punte del 10% del Pil in Thailandia e del 33% nelle
Maldive. L'impatto dello tsunami rischia di durare più a lungo di quanto le
deboli economie emergenti possono sopportare. Per la sola isola di Bali non
sono bastati due anni a recuperare il turismo messo in fuga da un attentato
terroristico. Anche se i turisti americani, europei e giapponesi in uno
slancio di solidarietà volessero tornare rapidamente a trascorrere le loro
vacanze nelle aree della tragedia, la ricostruzione delle infrastrutture può
durare a lungo.
Un altro choc collaterale creato dallo tsunami è quello che dilaga tra le
grandi multinazionali che producono in questi paesi per sfruttare il basso
costo della manodopera locale. La banca d'affari Prudential ha già decretato
che sono "a rischio" gli investimenti di due giganti americani in quest'area
del mondo. La Nike e la Reebok - i due marchi più noti delle scarpe sportive -
secondo la banca Usa starebbero riesaminando le loro scelte strategiche che
avevano privilegiato Indonesia e Thailandia. La Nike fabbrica in questi due
paesi il 43% delle sue scarpe, la Reebok il 36%. Nell'Asia meridionale
l'impatto della globalizzazione non è certo stato sempre benefico: basti
pensare ai casi di sfruttamento del lavoro minorile più volte denunciati da
organizzazioni internazionali, o ai disastri ambientali dalla Union Carbide di
Bhopal in poi. E non a caso da queste zone si sono levate alcune delle voci
più critiche verso l'integrazione nel circuito dei mercati mondiali, come
quella dell'ex premier Mahatir in Malaysia. Ma se la globalizzazione talvolta
ha fatto paura, è ancora peggio quando la sua marea si ritira e rimette a nudo
quella povertà antica che si sperava di aver debellato con l'aiuto degli
investimenti stranieri.
Tanto più che oggi sul destino economico del sud-est asiatico pesa l'ascesa di
un formidabile rivale-vicino, che è la Cina. Per la Nike e la Reebok, ma anche
per molte altre multinazionali, smobilizzare gli investimenti dalle aree
colpite dallo tsunami non significa tornare a fabbricare nei paesi ricchi.
Esiste un'alternativa molto più attraente e competitiva. Già gli altri paesi
asiatici vivevano con ansia l'avvicinarsi del primo gennaio, quando in base
agli accordi del Wto cadranno i limiti alle esportazioni di tessili, abiti e
maglieria "made in China". La caduta delle barriere preoccupava gli indiani, i
thailandesi e i malesi ancor più dei produttori italiani o americani. Ora la
tragedia del 26 dicembre rende ancora più vulnerabile l'industria tessile
dell'Asia meridionale.
L'ultimo grande rischio economico deriva dalla struttura ancora arretrata di
questi paesi. Il 90% dei loro poveri vivono nelle zone rurali e qui i danni
del maremoto possono colpire per molti anni. Lo tsunami ha provocato
distruzioni anche tra il bestiame che per milioni di contadini è la fonte di
sussistenza. L'allagamento di acqua salata, e lo spargimento di sostanze
tossiche da depositi industriali distrutti, può rendere aridi a lungo intere
regioni coltivate.
Per i paesi ricchi questa tragedia suggerisce alcune dure lezioni.
La prima riguarda la nostra stessa sicurezza. L'inaudita carenza di
infrastrutture e di piani di allarme per prevenire gli tsunami - quando
sarebbe bastato reinvestire in quei dispositivi una piccola percentuale dei
profitti delle multinazionali alberghiere - ha seminato il lutto anche tra
noi. La sicurezza è un bene collettivo, che tradizionalmente viene garantito
dagli Stati nazionali. Ma nell'economia globale in cui viviamo non possiamo
più disinteressarci della "qualità" degli Stati neppure in zone remote del
pianeta: della loro democrazia, del buongoverno, della cura degli interessi
collettivi.
Un altro monito riguarda l'affidabilità delle nostre promesse di aiuti.
Purtroppo non è vero che questo tsunami sia la più grave calamità naturale a
memoria d'uomo. Nel 1976 in Cina un terremoto fece 600.000 morti, nel 1970 in
Bangladesh un ciclone uccise 500.000 persone. Ma non c'erano turisti
occidentali di mezzo.
Stavolta in mezzo a tanto dolore che ci colpisce direttamente, possiamo
sperare che la nostra attenzione sia meno superficiale, la memoria meno corta.
Forse non si ripeterà quel che è successo un anno fa in Iran. Un terremoto vi
fece 26.000 morti il 27 dicembre del 2003. Degli aiuti promessi dai paesi
ricchi è arrivato appena l'uno per cento.
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