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Perché convengono i dazi
La lezione di Ricardo e la paura della Cina
di GIOVANNI SARTORI
dal Corriere - 27 giugno 2005
La Cina può contare su un costo del lavoro di gran lunga più basso rispetto
all’Occidente per invadere il mercato mondiale con i suoi prodotti. Come insegna
la legge dei «costi comparati», enunciata nel 1830 dall’economista inglese
Ricardo, finché in Cina il costo del lavoro resta da 10 a 30 volte inferiore a
quello europeo, è impensabile che l’Europa possa produrre merci competitive per
i cinesi. E la Cina non diventerà presto come il Giappone, un Paese retto da un
regime democratico, che riconosce ai lavoratori diritti negati chissà per quanto
tempo ancora a quelli cinesi.
A pagina 23
ORIENTE & OCCIDENTE Come valutare l'invasione delle merci provenienti dal
gigante asiatico
Rileggete il vecchio Ricardo: ecco perché la Cina fa
paura
La legge dei costi comparati enunciata dall'economista inglese dimostra che
l'Europa non è in grado di reggere la concorrenza
Sul
Corriere dell'altro giorno (22 giugno) leggo che Tremonti e il professor
Cipolletta mi «rispondevano» . Rispondevano a che cosa? Immagino a un
riassuntino di una sessantina di righi ( tempo di lettura: un minuto) di un
dialogo intervista a braccio alla assemblea della Confesercenti. Non mi risulta
che né Tremonti né Cipolletta fossero presenti quando parlavo. E, ripeto, non
esiste nessun testo scritto di quel mio dire. Come si fa, allora, a rispondere
al quasi nulla, a cose ignote? Si fa male. Difatti.
Ma siccome il tema era la Cina — e quindi un tema importante — eccomi qui ad
offrire ai miei contraddittori un testo che possono davvero trafiggere, un testo
che davvero esiste.
Tremonti è troppo permaloso. Rispondendo alla domanda ( scherzosa) del mio
intervistatore su punti di contatto tra noi due rispondevo ( scherzosamente) che
semmai era Tremonti che copiava me, visto che il testo che avevo citato era una
prolusione alla Accademia dei Georgofili del 1993, e quindi di dodici anni fa.
Due battute che il pubblico ha capito come tali. Invece Tremonti mi fa sapere,
pizzutissimo, che non conosceva la mia « profezia » , ma che comunque la sua
impressione era che « Sartori abbia copiato da Napoleone » . Il nesso mi sfugge,
ma grazie lo stesso: sia per la promozione a profeta, sia perché copiare da un
grande è pur sempre un gran copiare.
Il professorCipolletta, già direttore generale per lunghi anni della
Confindustria, mi risponde invece così: che « dalla Cina avremo qualche problema
per alcuni anni, ma poi diventerà un grande mercato » , precisando anche che le
mie tesi sono « eccessive e sbagliate perché il fenomeno della Cina non è niente
di diverso da ciò che è successo con il Giappone » . Bene, vediamo chi sbaglia.
Intanto non so se Tremonti e Cipolletta sappiano quali sono le mie tesi.
Cominciamo da qui. Nel 1993 scrivevo ( profeticamente?) che la globalizzazione
comporta che « la tecnologia può essere la stessa ovunque » , e che « i Paesi
avanzati diciamo del secondo mondo ( Giappone, Corea, e tra non molto la Cina)
sono o presto saranno in stato di parità tecnologica con l'Occidente. Se così, o
quando è così, il caso è, in vitro , chiarissimo: a parità di macchina... i
Paesi a basso costo di lavoro possono produrre e vendere a meno, molto meno, di
noi. Pertanto a parità di tecnologia l'Occidente ad alto costo di lavoro è
destinato a restare senza lavoro. Le cosiddette società industriali
diventerebbero senza industria » . La conclusione è, allora, che « quando la
variabile è il costo del lavoro, in una economia globalizzata il lavoro va ai
poveri e i Paesi ricchi vanno in disoccupazione » .
Si può rispondere che il costo del lavoro non è la variabile decisiva, visto che
incide, nella produzione dei beni capital intensive , ad alta tecnologia,
soltanto per un 10 20 per cento del costo del prodotto. Ma, intanto, un 10 20
per cento non è poco. Se la stessa automobile costa in Europa 10 mila euro e in
Cina 8.500, la macchina europea in Cina non si vende e inEuropa si vende poco.
Unaltro possibile contrattacco è di argomentare che ilmio ( chiamiamolo, per
intendersi, la « legge Sartori » ) è soltanto uno schema astratto, che la realtà
è molto più complessa, eccetera, eccetera. Ma a parte il fatto che tutte le
leggi economiche sono, per definizione, formulazioni astratte, a questo punto
iomimetto al riparo lasciando la parola alla legge dei « costi comparati » di un
economista della stazza di Ricardo.
Verso il 1830 Ricardo sosteneva che le merci devono essere prodotte dove costano
meno. Per esempio, l'Inghilterra non doveva produrre vino, visto che in
Portogallo costava meno e veniva meglio. Viceversa il Portogallo non doveva
produrre panni ma li doveva comprare in Inghilterra, che disponeva già di una
industria tessile che li produceva meglio e a meno. Questa legge resta
ineccepibile. Ma presuppone reciprocità di scambi, che ogni Paese possa
compensare i suoi acquisti con prodotti che può vendere. Così la domanda oggi
diventa: quali sono o saranno, a breve, i prodotti europei che costano meno in
Occidente che in Cina, e che quindi la Cina comprerebbe da noi? A tutt'oggi la
Cina continua a comprare macchinari « sofisticati » che la portino
all'avanguardia tecnologica. Ma dopo? Già ora, c'è qualcosa made in China che
costa più del suo equivalente made in Italy ? Ci viene raccontato che la Cina
sta diventando per noi una colossale opportunità di mercato. Vero.
Ma per chi ? Non per noi ( tutti quanti), ma purtroppo solo per l'industriale
che sa e può « delocalizzare » la mano d'opera in Cina. Per lui può essere una
pacchia: mantiene il suomarchio e incamera i sovraprofitti che si merita ( visto
che è bravo). Ma nel contempo i suoi operai o dipendenti perdono il posto di
lavoro; per loro, e per l'azienda Italia nel suo insieme, sarà, sarebbe, un
colossale e intollerabile disastro. Ela tesi zuccherosa, edulcorata, di chi ci
racconta che sarà soltanto una congiuntura di « qualche problema per alcuni anni
» io non la bevo.
Non è proprio bevibile.
Gli economisti dovrebbero sapere fare i conti. Questi: che se e finché il costo
del lavoro in Cina sarà di 10 30 volte inferiore ai costi dei Paesi ricchi,
allora la legge di Ricardo dei costi comparati richiede che per ripristinare uno
scambio che induca i cinesi a comprare in Europa prodotti europei, occorrerebbe
che i nostri lavoratori accettino di ridurre da 10 a 30 volte i loro salari.
Diciamo, in media, di 20 volte. Il che significa, in euro, che chi ne guadagna
1.000 al mese si dovrebbe contentare di 50 al mese. Possibile? No. Giusto?
Nemmeno.
La risposta è che anche i salari cinesi cresceranno. Sì; ma campa cavallo. Prima
che crescano di venti volte ci vorranno, se tutto va bene, da cinquanta a cento
anni. Se tutto andrà bene, sarebbe per i miei pronipoti. Ea questo proposito
l'analogia con il Giappone fa acqua da tutte le parti. Intanto, il professor
Cipolletta sorvola sulle proporzioni, sulle enormi differenze di scala. I
giapponesi sono, all'ingrosso, 130 milioni. I cinesi sono, all'ingrosso, un
miliardo e 300 milioni. Dieci volte tanto.
Inoltre, e questa svista di prospettiva storica è ancora più grave, il Giappone
decolla nella sua modernizzazione dalla cosiddetta « restaurazione Meiji » del
1868 89, che fu davvero una « illuminata » riuscitissima rivoluzione dall'alto.
Difatti quando il Giappone attaccò gli Stati Uniti a PearlHarbor la sua
tecnologiamilitare non era inferiore a quella degli americani.
Aggiungi che da più di 50 anni il Giappone è un Paese libero nel quale i
lavoratori sono protetti da sindacati, mentre la Cina è a tutt'oggi un Paese
autoritario che riparte davvero da zero, dalla devastazione economica del
maoismo.
La Cina è lontanissima dall'essere « come noi » ; il Giappone lo è. Asserire che
la Cina farà « in alcuni anni » come il Giappone, è un depistaggio.
Si noterà che non sono entrato nel dibattito sui rimedi. Sto solo cercando di
stabilire quale sia la corretta diagnosi. Mase la diagnosi non è corretta — e
finora non lo è — anche i rimedi non saranno corretti.