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TORNA A: SOCIETA', POLITICA, CULTURA: saggi ed articoli
Tony Blair,
Perchè la Gran Bretagna è intervenuta contro Saddam. Discorso del 18 marzo 2003 alla Camera dei Comuni
in ItalianiEuropei n. 2 2003
La scelta di fronte a noi è diffìcile, ma è anche molto netta e chiara: ritirare le truppe britanniche e riportarle a casa, oppure mantenere ferma la linea d'azione che ci siamo dati. Io credo che dobbiamo scegliere questa seconda opzione. La domanda che ci viene rivolta più spesso non è «perché questa decisione è importante?», ma «perché è così importante?» Ecco la nostra situazione: il governo di fronte alla prova più diffìcile che abbia dovuto affrontare finora, la maggioranza a rischio, le prime dimissioni dal governo per divergenze politiche, i principali partiti divisi. Gente che è d'accordo con il governo su ogni altro argomento lo avversa invece su questo; e viceversa, quanti non sono mai d'accordo con il governo su niente, oggi fanno causa comune con noi su questo punto. Il paese e il parlamento sono specchio l'uno dell'altro, in un dibattito che con il passare del tempo è diventato meno aspro ma non meno serio. Affrontiamo dunque la domanda: ma perché questa decisione è così importante? Perché da essa dipenderà non soltanto il destino del regime iracheno e il futuro del popolo dell'Iraq, per tanto tempo oppresso da Saddam. Da questa decisione dipenderà il modo in cui la Gran Bretagna e il mondo affronteranno la minaccia cruciale alla sicurezza del ventunesimo secolo; da essa dipenderà quale sarà lo sviluppo dell'ONU; il rapporto tra Europa e Stati Uniti, i rapporti all'interno dell'Unione europea e quelli degli Stati Uniti con il resto del mondo. Questa decisione, in breve, influenzerà il modello della politica internazionale con cui avrà a che fare la prossima generazione (...). Dal dicembre 1998 al dicembre 2002 nessun ispettore ha potuto lavorare in Iraq. Per quattro anni, nessuna ispezione è stata condotta nel paese. Cosa è stato che ha spinto Saddam a cambiare idea e ad accettare le ispezioni? La minaccia della forza. Da dicembre a gennaio e poi
ancora fino a febbraio, Saddam ha fatto delle concessioni. Cosa lo ha spinto a cambiare idea? La minaccia della forza. E cosa lo spinge, ora, a invitare gli ispettori, a scoprire documenti che aveva detto di non avere, a fornire prove su armi che si supponeva non esistessero, a distruggere missili che aveva detto di volersi tenere? L'incombente ricorso alla forza. La sola forma di persuasione cui egli reagisca è quella di 250.000 soldati alleati alle sue frontiere. Eppure, nonostante questo fatto sia così evidente da balzarci agli occhi, ci viene detto che una nuova risoluzione che autorizzi la forza sarà bloccata. Non solo criticata, avversata: vetata, bloccata. E pensare che il percorso era così chiaro: fonu doveva approvare una seconda risoluzione che stabilisse scadenze precise da rispettare, con
un ultimatum; se tali scadenze fossero state ignorate, la parola sarebbe passata alle armi. La tragica ironia è che se una tale risoluzione fosse stata approvata, Saddam avrebbe forse obbedito. Perché la sola via per la pace, con uno come Saddam Hussein, è la diplomazia sostenuta dalla forza. E invece, nel momento in cui abbiamo proposto scadenze specifiche e abbiamo cominciato a conquistare consensi all'idea dell'ultimatum, si è immediatamente ricorsi al linguaggio del veto. Ed oggi il mondo deve di nuovo imparare l'antica lezione: mostrare debolezza di fronte alla minaccia di un tiranno è la via più sicura non per la pace ma per la guerra. Se guardiamo agli ultimi dodici anni, ci rendiamo conto di essere stati vittime del nostro desiderio di placare l'implacabile, di convincere alla ragionevolezza il totalmente irragionevole, di sperare che vi fosse una qualche genuina intenzione di comportarsi bene in un regime governato in realtà da una mente malvagia. Oggi questo periodo di tempo che abbiamo lasciato trascorrere ci si rivolta contro. Avete aspettato dodici anni, perché non aspettare ancora un po'? E infatti abbiamo aspettato ancora. La 1441 è stata l'ultima possibilità offerta a Saddam. Il primo test
è stato l'8 dicembre: Saddam l'ha mancato. E abbiamo aspettato ancora. Fino al 27 gennaio, quando è arrivato il primo rapporto degli ispettori che denunciava la mancanza di una piena collaborazione. Un'altra violazione. E ancora abbiamo aspettato. Fino al 14 febbraio e poi al 28 febbraio, mentre Saddam, seguendo la vecchia routine dello scorso decennio, faceva alcune concessioni per indurci a sperare ed aspettare ancora. Ma nessuno, non gli ispettori né alcun paese membro del Consiglio di Sicurezza, né alcun osservatore neutro dotato di raziocinio, ritiene che Saddam stia collaborando in modo pieno, incondizionato o immediato. Non ci si può certo accusare di impazienza. La verità è che la nostra pazienza avrebbe dovuto esaurirsi settimane, mesi, anni fa. Perfino oggi, quando, se il mondo fosse unito e lo mettesse di fronte all'ultimatum di obbedire o essere disarmato con la forza, Saddam potrebbe effettivamente piegarsi; persine oggi il mondo esita e in questa esitazione il rais avverte la nostra debolezza e continua a sfidarci. Cosa potrebbe pensare un regime dittatoriale in possesso di armi di distruzione di massa, osservando la storia del teatrino diplomatico del mondo con Saddam? Che siamo bravissimi ad approvare risoluzioni ferme e nette, ma debolissimi nell'applicarle. E per questo motivo che la nostra indulgenza deve avere fine. Perché è pericolosa, se regimi di quel tipo non credono alla nostra volontà. E pericolosa se quei regimi pensano di poter sfruttare contro di noi la nostra debolezza, le nostre esitazioni, persine il naturale desiderio di pace delle nostre democrazie. Pericolosa, perché un giorno un dittatore, equivocando, interpreterà la nostra innata repulsione per la guerra come una incapacità permanente, quando invece, se davvero costretti, noi sappiamo agire. Ma quando agiamo, dopo anni di finzioni, l'azione sarà necessariamente più dura, più massiccia, più totale nel suo impatto. L'Iraq non è l'unico regime in possesso di armi di distruzione di massa: ma se ci ritiriamo oggi da questo conflitto, le guerre del futuro saranno infinitamente peggiori e più devastanti. Il punto, però, è che nessun osservatore imparziale mette in discussione che l'Iraq abbia violato le risoluzioni dell'ONU e che la 1441 implichi, in tali circostanze, il ricorso all'azione. Il problema reale è che, al fondo, alcuni contestano che l'Iraq costituisca effettivamente una minaccia; contestano il legame tra terrorismo e armi di distruzione di massa; contestano il nostro stesso punto di partenza, quella che i due elementi, sommati, rappresentino una gravissima minaccia al nostro modo di vita. Vengono proposti facili — e a volte insulsi — paragoni con gli anni Trenta del secolo scorso. Nessuno qui è a favore àe\V appeasement. La sola reale analogia, in questo caso, è che conosciamo le lezioni della storia. Possiamo guardarci indietro e dire: ecco, quello era il momento chiave. Ad esempio, quando la Cecoslovacchia fu invasa dai nazisti, quello era il momento in cui
avremmo dovuto agire. In quel momento, però, le cose
non erano così chiare. All'epoca, infatti, erano in molti
a ritenere che i peggiori timori a proposito della spinta
espansionistica del nazismo fossero esagerati o, peggio,
amplificati ad arte dai guerrafondai. Vorrei leggervi l'editoriale di un quotidiano che oggi, e ne sono lieto, ha una posizione completamente diversa, scritto alla fine
del 1938, dopo Monaco, quando, con quel che sappiamo che avvenne in seguito, potremmo pensare che il mondo fosse ansioso di agire. «Oggi è un giorno di gioia. Sia ringraziato il Signore. Popolo della Gran Bretagna, i tuoi figli sono al sicuro. I nostri uomini non marceranno sui campi di battaglia. La pace è una vittoria per tutta l'umanità. Ed ora, torniamo ad occuparci della nostra vita quotidiana. Ne abbiamo avuto abbastanza delle minacce evocate dal Continente per confonderci le idee». Naturalmente, se oggi dovesse apparire un nuovo Hitler, sapremmo bene cosa fare. Il punto è, però, che la storia non ci indica il suo corso futuro in modo così palese. Si presenta ogni volta in modo diverso e il presente va giudicato senza il beneficio della retrospettiva. Vorrei, dunque, esporvi la natura della minaccia che abbiamo di fronte così come la vedo io. La minaccia di oggi non è quella degli anni Trenta. Non si tratta di grandi potenze in guerra tra loro. Le calamità inflitte al ventesimo secolo dalle ideologie politiche radicali sono ormai consegnate alla memoria. La Guerra Fredda è finita. Nonostante alcune scaramucce diplomatiche, in Europa regna la pace. Ma il mondo è sempre più interdipendente. I mercati azionari e le economie crescono o soffrono assieme. La fiducia è la chiave per la prosperità. L'insicurezza si diffonde come un contagio, mentre la gente anela alla stabilità e all'ordine. La minaccia è il caos. Ed esistono due incubatrici del caos: i regimi tirannici in possesso di armi di distruzione di massa, e i gruppi terroristi ed estremisti che professano una versione falsa e distorta dell'Isiam.
Vorrei raccontare a questa Camera quello che so. So che vi sono
alcuni paesi o gruppi all'interno di paesi che stanno sviluppando, acquistando
e vendendo armi di distruzione di massa, e in particolare la tecnologia delle
armi nucleari. So che vi sono compagnie, singoli individui, scienziati che hanno
lavorato in passato ai programmi nucleari, che stanno vendendo le loro
attrezzature o la loro competenza. So che vi sono vari paesi - quasi tutte
dittature governate da regimi fortemente repressivi - che stanno facendo di
tutto per acquisire le capacità per produrre armi chimiche, biologiche o,
soprattutto, armi nucleari. Alcuni di questi paesi sono ormai arrivati
abbastanza vicini al loro traguardo. E questa corsa non sta rallentando: anzi, è
in crescita. Sappiamo tutti che oggi vi sono cellule terroristiche attive in
quasi tutti i principali paesi. Solo negli ultimi due anni, circa venti nazioni
hanno subito gravi aggressioni terroristiche, che hanno provocato la morte di
migliaia di persone. L'obiettivo del terrorismo non si esaurisce nell'atto
violento in sé, ma nel
produrre terrore. Si propone di infiammare gli animi, di dividere, di produrre
conseguenze che i terroristi utilizzeranno poi per giustificare l'ulteriore
escalation del terrorismo. Il terrorismo oggi avvelena i rapporti e limita
gravemente ogni possibile progresso politico in
situazioni di conflitto quali il Medio oriente, il Kashmir, la Cecenia,
l'Africa. La rimozione dei talibani in Afghanistan è stato un colpo per il
terrorismo, che non è però scomparso. E queste due minacce hanno ragioni ed
origini diverse ma un obiettivo di fondo in comune: detestano la libertà, la
democrazia e la tolleranza che sono le colonne portanti del nostro modo di
vivere. Ammetto che oggi il legame tra le due minacce è ancora tenue, ma sta
rinserrandosi. E la possibilità che i due elementi si uniscano - che i gruppi
terroristi entrino in possesso di armi di distru-
zione di massa, anche solo di una cosiddetta bomba radiologica «sporca» -
rappresenta oggi, a mio parere, un pericolo reale ed immediato. Ricordiamoci che
il trauma dell' 11 settembre non è stato dovuto solo al massacro degli
innocenti, ma anche alla consapevolezza che se i terroristi ne fossero stati
capaci, le vittime innocenti non sarebbero state solo 3.000, ma 30.000 o magari
300.000. Quante più le sofferenze, tanto maggiore è la gioia dei terroristi. Tre
chili di VX montati su un missile sono capaci di contaminare 250 metri quadrati
di una città. Un litro di antrace contiene milioni di dosi letali. Ricordiamoci
che ne mancano all'appello 10.000 litri. L'11 settembre ha cambiato la
psicologia dell'America. Dovrebbe aver cambiato anche la psicologia del mondo
intero. Naturalmente, l'Iraq non è l'unica fonte della minaccia: ma è il test
che dimostra se la prendiamo seriamente.
Di fronte a questa minaccia, il mondo dovrebbe unirsi. Le Nazioni Unite
dovrebbero essere la sede privilegiata sia della diplomazia che dell'azione
militare. Era questo il contenuto della Risoluzione 1441. Ed io sostengo che
tradire oggi questo contenuto, dichiarare i propri obiettivi ma non voler
ricorrere ai mezzi per raggiungerli, nel lungo termine provocherebbe più danni
all'ONU di qualsiasi
altra scelta politica. Tornare al lassismo degli ultimi dodici anni, tornare a
parlare, discutere, dibattere senza mai agire; dichiarare la nostra volontà ma
non farla rispettare; combinare un linguaggio duro con intenzioni deboli: meglio
sarebbe rinunciare del tutto a parlare. E dopo, quando la minaccia si
riproporrà, che venga dall'Iraq o da qualche altra fonte, chi ci crederà? Quale
credibilità avremmo con il prossimo tiranno? Non stupisce che il Giappone e la
Corea del Sud, i vicini della Corea del Nord, ci abbiano sostenuto con
particolare vigore. Sono giunto alla conclusione, a malincuore e dopo aver molto
riflettuto, che il pericolo peggiore per l'ONU è l'inazione: che aver approvato
la Risoluzione 1441 e poi rifiutarsi di farla rispettare causerebbe il danno più
grave alla forza del-l'ONU in futuro, confermandolo come uno strumento di
diplomazia ma non d'azione, costringendo le nazioni ad adottare proprio quei
percorsi unilateralisti che vogliamo evitare. E in ogni caso l'ONU non avrà
alcun futuro di rilievo, né vi sarà alcuna garanzia che questi eventi non si
ripetano, se non ammetteremo di avere urgente bisogno di un programma politico
sul quale poter ritrovare l'unità. Quello che è accaduto, infatti, è la
conseguenza della divisione tra Europa e Stati Uniti. Non tutti i paesi europei
hanno preso una strada diversa dalla nostra: Spagna, Italia, Olanda, Danimarca e
Portogallo ci hanno sostenuto con determinazione. E questo vale per la
maggioranza dei paesi europei, se calcoliamo, com'è giusto, i dieci paesi che
entreranno nell'Unione quest'anno, che si sono tutti schierati dalla nostra
parte. Ma la paralisi dell'ONU è derivata dalla divisione che si è prodotta. E
alla base di questa divisione vi è una concezione del mondo in cui esistono due
poli di potere in competizione. Gli Stati Uniti e i loro alleati da una parte;
Francia, Germania, Russia e i loro alleati dall'altra. Non credo che tutti
questi paesi avessero in mente un tale risultato: ma ormai la situazione si è
creata e dobbiamo affrontarla. Credo che una tale visione sia errata e
profondamente pericolosa. So qual è il motivo che l'ha determinata: il
risentimento per il predominio americano. L'unilateralismo americano suscita
timori. La gente si chiede: ma gli Stati Uniti ci ascoltano? Tengono conto delle
nostre preoccupazioni? E d'altra parte, anche noi forse non comprendiamo fino in
fondo le preoccupazioni americane dopo 1' 11 settembre. So tutto questo. Ma il
modo di affrontare le reciproche preoccupazioni non è la rivalità ma la
partnership. I partner non sono sudditi ma neanche rivali.
Vorrei spiegarvi come, a mio giudizio, l'Europa avrebbe dovuto comportarsi con
gli Stati Uniti dopo FU settembre. Avrebbe dovuto parlare con una voce sola e
dire: comprendiamo la vostra angoscia per il terrorismo e le armi di distruzione
di massa, e vi aiuteremo ad affrontare queste minacce. Manterremo la nostra
parola in tutte le risoluzioni dell'ONU che approveremo, e passere-mo all'azione
se Saddam non vorrà disarmare volontariamente. In cambio, però, vi chiediamo due
cose: che gli Stati Uniti scelgano di muoversi nell'ambito ONU e che riconoscano
l'importanza cruciale e fondamentale di rimettere in moto il processo di pace in
di rimettere in moto il processo di pace in Medio Oriente, e su questo vi
prenderemo in parola. Non credo che esista un'altra questione che stia a cuore
alla comunità mondiale più del progresso sul tema dei rapporti
israelo-palestinesi. Naturalmente le recenti prese di posizione sono state
accolte con scetticismo: ma gli Stati Uniti si sono ormai impegnati, e a mio
parere in buona fede, all'applicazione del Piano di pace progettato in
consultazione con le Nazioni Unite. Il piano sarà presentato alle parti non
appena Abu Mazen sarà confermato Primo Ministro, spero addirittura entro oggi.
Tutti noi condividiamo l'idea di fondo di questo piano, che prevede lo Stato di
Israele, riconosciuto ed accettato da tutto il mondo, con accanto uno Stato
palestinese capace di sostenersi. Ma il piano deve rientrare in un programma
complessivo più vasto, che includa i temi della povertà e dello sviluppo
sostenibile, della democrazia e dei diritti umani, e della
goodgovernarne delle nazioni. E per questo che il dopoguerra in Iraq assumerà
un'importanza cruciale. Ancora una volta, esiste la possibilità di unirci
attorno all'ONU. Vorrei spiegarmi chiaramente: dopo il conflitto, dovrà esserci
una nuova risoluzione dell'oNU che deliberi non solo a proposito degli aiuti
umanitari, ma anche dell'amministrazione e del governo del paese.
Tutte materie che andranno, come è corretto, sottoposte all'autorizzazione delle
Nazioni Unite. Sarà l'ONU che dovrà difendere l'integrità territoriale
dell'Iraq. E vogliamo che i proventi delle esportazioni di petrolio — che molti
ci accusano falsamente di volerci accaparrare — siano amministrati dall'ONU,
tramite un fondo fiduciario, a vantaggio del popolo iracheno.
Il futuro governo dell'Iraq dovrà essere messo in grado di iniziare il processo
di riunificazione dei diversi gruppi che abitano il paese, su una
base democratica, rispettando i diritti umani, come sta effettivamente accadendo
nell'embrione di regime democratico nel nord del paese, che le forze aree
britanniche e americane hanno difeso da Saddam per dodici anni, nel quadro della
no-fly zone. E nel momento stesso in cui sarà insediato un nuovo governo, pronto
a consegnare le armi di distruzione di massa dell'Iraq, che a quel punto non
avrebbero più alcuno scopo o senso, le sanzioni dovrebbero essere completamente
abolite. Non ho mai addotto, come nostra giustificazione, la necessità di
cambiare regime a Baghdad. Noi dobbiamo agire entro i termini stabiliti dalla
Risoluzione 1441: quella è la nostra base giuridica. Ma il cambio di regime, lo
dico francamente, è il motivo per cui, se agiamo, dobbiamo agire con la
coscienza a posto e una determinazione incrollabile. Sono assolutamen-
te convinto che gli awersari della nostra politica dete-
jn stano Saddam quanto lo detestiamo noi. Chi potrebbe
evitare di detestare quell'uomo? L'Iraq era un paese
ricco, che nel 1978, l'anno prima che Saddam pren-
esse il potere, era più ricco del Portogallo o della
Malaysia. Oggi è un paese impoverito, in cui il 60%
della popolazione dipende dagli aiuti alimentari.
Migliaia di bambini muoiono ogni anno per mancanza
di cibo e medicinali. Quattro milioni di iracheni, su una popolazione totale di
poco superiore ai venti milioni, vivono in esilio. La repressione è
particolarmente brutale: i campi di tortura e morte, le carceri inumane
riservate agli oppositori politici, le percosse che sono il trattamento normale
per chiunque sia sospettato di infedeltà al regime, e magari anche per i loro
familiari, sono tutti fatti ben documentati. Solo la settimana scorsa, un
cittadino che aveva parlato male di Saddam è stato appeso ad un lampione per una
via di Baghdad, mutilato, la lingua tagliata, e lasciato lì a morire dissanguato
come monito per la popolazione. Alcune settimane fa ho incontrato una signora
irachena in esilio, e le ho detto che capivo bene quanto fosse dura la vita
sotto il tallone di Saddam. «Ma no, lei non può capire - mi ha risposto - lei
non sa cosa voglia dire vivere costantemente nella paura». Ed aveva ragione. Noi
diamo per scontata la nostra libertà. Ma proviamo ad immaginare di non poter
parlare o discutere o criticare la nostra società. Immaginiamo di vedere amici e
parenti che vengono portati via, e non potersene lamentare. Patire l'umiliazione
di non riuscire a trovare il coraggio di fronte ad un terrore spietato. È cosi
che ! ••
vive il popolo iracheno, ed è così che continuerà a vivere se lasciamo Saddam al
suo posto. Dobbiamo accettare le conseguenze delle azioni che rivendichiamo. Per
me, questo vuoi dire accettare tutti i pericoli di una guerra. Per altri,
invece, che si oppongono a questa guerra, significa - dobbiamo dirlo chiaramente
-accettare che il popolo iracheno, la cui unica speranza
di liberazione risiede nella rimozione di Saddam, venga ricacciato nella sua
oscura prigione; e Saddam sarà libero di scatenare la sua vendetta su quanti
volevano sbarazzarsi di lui. E se questa Camera oggi, di fronte alla minaccia
rappresentata dal regime iracheno, dovesse deliberare il ritiro delle truppe
britanniche, di fare marcia indietro di fronte al momento della verità, quali
saranno le conseguenze? Come si sentirà Saddam? Più forte di quanto si sia mai
sentito. E quale conclusione ne trarranno tutti gli altri governi che
tiranneggiano i loro popoli, i terroristi che minacciano la nostra esistenza?
Che la nostra volontà di contrastarli è debole e precaria. Chi sarebbe a
festeggiare e chi a piangere? E se noi vogliamo che l'America collabori con gli
altri paesi, che gli americani siano alleati gentili oltre che potenti, il
nostro ritiro li renderà forse multilateralisti? O non rappresenterà invece una
potentissima spinta all'unilateralismo? E cosa ne sarebbe dell'ONU e del futuro
dell'Iraq e del processo di pace in Medio Oriente, senza la nostra influenza,
senza la nostra insistenza? La Camera dei Comuni vuole prendere la sua
decisione: bene, ora è davanti a voi. Queste sono le scelte: e in questo
dilemma, non esiste una scelta perfetta, una causa ideale. Ma da questa
decisione dipendono molte cose.
In questo momento, tanti pensieri mi passano per la mente: penso se riusciremo a
raccogliere la forza di riconoscere la sfida globale del ventunesimo secolo e
combatterla; penso al popolo iracheno che da anni soffre sotto la dittatura,
alle nostre forze armate — donne e uomini coraggiosi, di cui possiamo andare
fieri, che hanno un obiettivo chiaro e il morale alto; penso alle istituzioni e
alle alleanze che per anni ancora definiranno il nostro mondo. Ritirarci ora, a
mio parere, metterebbe a repentaglio tutto quello che abbiamo di più caro,
ridurrebbe le Nazioni Unite ad un salotto inutile, soffocherebbe il primo,
embrionale, progresso in Medio Oriente, lascerebbe il popolo iracheno alla mercé
di
eventi che avremmo perso ogni facoltà di condizionare per il meglio. Se volete,
dite ai nostri alleati che nel momento dell'azione, nel momento in cui hanno
bisogno della nostra determinazione, la Gran Bretagna ha vacillato. Io non
voglio avere nulla a che fare con una decisione del genere. Questo non è il
momento dell'esitazione. Questo è il momento che la Camera dei Comuni, non solo
il governo o il Primo Ministro, ma proprio la Camera dei Comuni, prenda una
posizione forte e chiara, dimostri che noi siamo pronti a batterci per ciò che
riteniamo giusto, che siamo pronti a combattere le tirannie, le dittature e i
terroristi che minacciano il nostro modo di vita, dimostri, insomma, che al
momento della decisione noi abbiamo il coraggio di fare la cosa giusta.