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IL FILOSOFO DELLA POLITICA, VOCE DEL FRONTE PACIFISTA
 Walzer: "Non basta dire no alla guerra"
 

intervista di Maurizio Veroli su "LA STAMPA" del 08.03.2003 con il
Prof. Michael Walzer
filosofo della politica, insegnante di Scienze Sociali a Princeton
e direttore, assieme a Mitchell Choen, della rivista "DISSENT" dell'area liberal negli USA

PRINCETON. Professor Walzer, la maggioranza dell'opinione pubblica americana  è favorevole alla guerra su larga scala in Iraq, e la stessa sinistra americana, come dimostra il dibattito sulla rivista Dissent che lei dirige, è divisa. Alcuni sono favorevoli, altri, pur contrari o dubbiosi, sono molto critici nei confronti del movimento contro la guerra.
«Dissent, purtroppo o  per fortuna, non rappresenta tutta la sinistra americana. Esistono anche altre componenti che non hanno alcun dubbio che la guerra contro l'Iraq è ingiusta o sbagliata e si impegnano senza esitazioni a costruire il movimento di opposizione alla guerra. La diversità di opinioni nasce in primo luogo dal fatto che nelle nostre file ci sono intellettuali democratici iracheni che ora vivono negli Stati Uniti. Essi sono favorevoli alla guerra perché sperano in questo modo di liberarsi dalla tirannia di Saddam Hussein e di istituire, con l'aiuto degli Stati Uniti, un regime democratico. Siamo tutti d'accordo che la fine di Saddam Hussein e del suo regime sarebbe un gran bene per il popolo iracheno e per l'umanità. Alcuni di noi, ed io con loro, non credono che l'intervento militare americano pienamente dispiegato sia il modo migliore, il modo più prudente per raggiungere il fine. Non abbiamo divergenze sui principi, ma solo modi diversi di valutare, realisticamente, i mezzi»

Si può realisticamente pensare di dar vita ad un forte movimento contro la guerra negli Stati Uniti dicendo semplicemente "no alla guerra" perché è guerra?
«Un movimento contro la guerra deve essere in grado di spiegare in modo convincente perché questa guerra è sbagliata. Il pacifismo, che pure è una componente importante della sinistra non può essere la voce predominante o esclusiva. Chi si oppone a questa guerra deve al tempo stesso riconoscere che Saddam Hussein è una minaccia reale per l'umanità. Ha già dimostrato in passato di essere pronto ad usare armi di distruzione di massa contro civili innocenti. Quando si dà vita a un movimento politico bisogna porsi seriamente l'obiettivo di vincere, di conseguire il fine voluto. La domanda vera che devono porsi i leaders di un movimento contro la guerra è "siamo  sicuri che la vittoria del nostro movimento non rafforza il regime di Saddam Hussein?" L'obiettivo di un movimento contro la guerra oggi deve essere duplice: impedire la guerra su larga scala e indebolire e sconfiggere Saddam Hussein. Mi rendo conto che gridare "no alla guerra" o "scaricate Bush non bombe" è più facile che dire "rafforziamo l'embargo" o "rendiamo più efficaci le ispezioni". Ma non è impossibile costruire un nuovo movimento che che sostenga posizioni più mature che non il semplice "no alla guerra»

Molti, fra coloro che sono favorevoli alla guerra, sostengono che gli Stati Uniti nella Guerra del Golfo hanno contratto un obbligo morale con i popoli  dell'Iraq, quando hanno incoraggiato Curdi e Sciiti a ribellarsi e poi li hanno abbandonati al loro destino. È una ragione sufficiente per muovere guerra?
«Gli Stati Uniti hanno incoraggiato Curdi e Sciiti a ribellarsi nel 1991. Ora bisogna ragionare sulla realtà attuale delle cose. Il divieto imposto a Saddam di fare alzare in volo aerei militari nel Nord e nel Sud dell'Iraq ha di fatto permesso la nascita di una zona quasi autonoma controllata dai Curdi e ha impedito le operazioni di pulizia etnica e i massacri che avvennero in passato. Un'efficace politica di contenimento del regime di Saddam Hussein, sostenuta dalla comunità internazionale, aiuterebbe i popoli dell'Iraq più di una guerra vera e propria combattuta con grandi spiegamenti di truppe e con l'impiego massiccio dei bombardamenti».

Quali sono i pericoli di una guerra su larga scala?
«In primo luogo il rischio di gravi perdite umane da una parte e dall'altra, e fra i civili. In secondo luogo la possibilità che Saddam usi armi chimiche o biologiche contro le forze americane o contro altri paesi. In terzo luogo il rafforzamento dell'estremismo islamico che provocherebbe la crisi dei regimi arabi moderati e dunque nuove guerre. Sono rischi gravi».

Eppure, intellettuali importanti della sinistra sostengono che il regime di Saddam è una forma particolarmente odiosa e crudele di fascismo e che  l'antifascismo deve essere più importante di ogni altra considerazione.
«Il regime di Saddam Hussein è un regime brutale che può essere a ragione definito un regime fascista. Ma questa non è una considerazione sufficiente a giustificare una guerra combattuta dagli Stati Uniti. Bisognerebbe dimostrare che una guerra su larga scala combattuta dagli Stati Uniti è davvero il modo migliore per distruggere il regime di Saddam Hussein».

Non sono sufficienti a giustificare la guerra neppure i crimini che Saddam ha perpetrato? Chi può punire Saddam se non gli Stati Uniti, ovvero, come  dicono in molti, la sola potenza che ha la volontà e la forza di farlo?
«Punire Saddam Hussein per i suoi crimini può voler dire soltanto portarlo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. Non può voler dire fare  giustizia sommaria. È vero che gli Stati Uniti hanno la forza per portare Saddam Hussein davanti alla Corte Internazionale di Giustizia per la punizione dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra. Ma è anche vero che gli Stati Uniti non hanno sottoscritto l'accordo per l'istituzione della Corte Internazionale di Giustizia. Per questa ragione non credo che gli Stati Uniti possano assumersi il compito di punire Saddam».

Saddam Hussein ha violato tutti gli accordi che ha sottoscritto. Con un uomo di cui non ci si può assolutamente fidare, e rappresenta una minaccia reale, quale altra via è possibile se non la guerra?
«Le iniziative di contenimento come l'embargo, il divieto di volo e le ispezioni non presuppongono in alcun modo la fiducia in Saddam Hussein. Sono  sanzioni vere e proprie per renderlo inoffensivo e indebolirlo. Per questa ragione giudico sbagliata la posizione della Francia che parla dell'uso della forza solo "in ultima istanza". Ogni giorno, da anni, gli Stati Uniti stanno usando la forza contro Saddam».

Ill riferimento alla Francia solleva il problema dei rapporti fra Stati Uniti ed Europa. Poche volte in passato il solco intellettuale e politico è stato così serio. Gli Stati Uniti accusano gli Europei, in particolare Francia e Germania, di essere indecisi, codardi e inaffidabili. Gli Europei rispondono che l'America vuole agire sullo scenario internazionale come sola superpotenza incurante delle posizioni delle Nazioni Unite e degli alleati.
«C'è molto da dire in favore degli uni e degli altri. Come ho avuto altre volte occasione di spiegare, non condivido affatto la politica di Bush sull'Iraq. Ma l'aspetto del dibattito che più mi preoccupa è il fatto che in Europa non si discute su "che cosa dobbiamo fare con l'Iraq", ma "che cosa devono fare gli Stati Uniti con l'Iraq". È un modo di pensare irritante. Gli Stati Uniti hanno bisogno di alleati, non di complici. Ma per essere veri alleati bisogna sapersi assumere responsabilità comuni. I Francesi si sono ritirati dalle operazioni di pattugliamento aereo per imporre a Saddam il  divieto di volo agli aerei militari. Quando i Francesi affermano di essere disposti a sostenere l'uso della forza militare solo in ultima istanza affermano in effetti che se Saddam compirà altri attacchi criminali, allora essi sono disposti a permettere che gli Americani usino la forza. Di fronte ad un atteggiamento del genere è facile per l'Amministrazione Bush ribattere che se dobbiamo in ogni caso fare tutto da soli vogliamo scegliere da soli come e quando intervenire militarmente. Dal punto di vista militare non fa alcuna differenza che ci siano o non ci siano le forze armate dei paesi europei. Esiste tuttavia un serio problema di equilibrio politico di potere.  Il problema Saddam non è soltanto un problema americano e per quanto sia sbagliata la politica di Bush per una guerra su larga scala è da criticare anche la posizione dei paesi europei che considerano Saddam un problema che non li riguarda».

Quali conseguenze potrebbe avere la guerra per Israele e per il problema palestinese?
«La destra israeliana è favorevole alla guerra contro l'Iraq perché ritiene che la sconfitta di Saddam Hussein rafforzerebbe le sue posizioni e  renderebbe più difficile la soluzione dei due stati. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che la vittoria degli alleati nella Guerra del Golfo aprì migliori prospettive per i negoziati fra israeliani e palestinesi che portarono agli accordi di Oslo. Se invece la guerra sarà lunga e difficile, come la guerra nel Vietnam, i regimi arabi moderati sarebbero gravemente indeboliti e di conseguenza diventerebbe più difficile riaprire negoziati che portino ad una soluzione equilibrata del conflitto. Per quanto riguarda la sicurezza d'Israele non credo che esistano gravi pericoli. Gli israeliani sono convinti che Saddam Hussein abbia oggi una capacità di colpire molto minore di quella che aveva all'epoca della Guerra del Golfo. Nonostante abbia funzionato solo in parte, l'embargo ha impedito a Saddam di acquistare nuove armi e di mantenere in efficienza quella che già aveva».

La voce più autorevole contro la guerra è quella del Papa. Milioni di persone, anche non credenti, hanno accolto il suo appello ad un digiuno contro la guerra. Come giudica la presa di posizione del Pontefice?
«La teoria della guerra giusta ha le sue radici nel pensiero cattolico. Uno dei principi di questa teoria è che la guerra è giusta se i suoi effetti sono proporzionati rispetto al fine. Se il fine di proteggere se stessi e gli altri dalla minaccia di Saddam Hussein è giusto, la guerra non è più giusta se le conseguenze sono sproporzionate. Questo argomento è forte, e non è un argomento pacifista. Ma dire no alla guerra non basta. È una posizione moralmente nobile, ma politicamente debole. Il Papa non ha alcun obbligo di parlare come leader politico e di affrontare il problema dal punto di vista politico. Resta tuttavia il fatto che Saddam Hussein è un pericolo reale e che bisogna individuare una soluzione politica».

Quale potrebbe essere un'alternativa ad una guerra vera e propria?
«Una guerra contro l'Iraq è già in corso, da anni. Per imporre il rispetto della no flying zone, che Saddam Hussein non ha mai accettato, l'aviazione americana e inglese deve attaccare ogni settimana le postazioni della contraerea irachena. Per imporre il rispetto dell'embargo le unità navali  devono bloccare convogli in mare aperto. É una piccola guerra ma è una guerra. L'alternativa alla guerra vera e propria con il dispiegamento di ingenti truppe di terra e bombardamenti sistematici al fine di rimuovere Saddam Hussein è proprio la piccola guerra, o la guerra parziale, resa più efficace con opportuni accorgimenti. Si potrebbe, in primo luogo, estendere il divieto a Saddam Hussein di alzare in volo aerei militari per tutto il territorio dell'Iraq, come già avviene per ampie zone. Per realizzare questo obbiettivo bisognerebbe imporre un continuo controllo aereo su tutto l'Iraq. Sarebbe inoltre necessario rafforzare il sistema delle ispezioni dando agli ispettori la possibilità di intervenire, senza alcun preavviso, affiancati da truppe Onu che potrebbero rimanere a presidiare gli impianti e i luoghi considerati sospetti. Infine si potrebbe rendere più efficace l'embargo con l'aiuto effettivo della comunità internazionale. A suo tempo gli Stati Uniti proposero un piano di rafforzamento dell'embargo per rendere ancora più difficile per Saddam rifornirsi di materiale bellico e per rendere invece più facile l'ingresso in Iraq di beni necessari alla popolazione civile. Se queste misure fossero messe in atto, Saddam Hussein perderebbe gran parte della sua capacità di minacciare il suo popolo e altri popoli, e di conseguenza il suo regime sarebbe gravemente indebolito. Con il tempo crollerebbe. La vera alternativa alla guerra su larga scala è dunque la  piccola guerra che già esiste».