Alcuni dicono che quando è detta la parola muore. Io dico invece che proprio quel giorno comincia a vivere Emily Dickinson, Silenzi: 1212
CITAZIONI "Le parole sono pietre" (Carlo Levi)
Alla radice del verbo citare troviamo questi significati: "muovere, chiamare"; "porre in movimento". La citazione è, dunque, un testo breve che punta a muovere chi ne resta colpito suo piano emotivo e intellettuale. In questa pagina scriviamo alcuni frammenti che ci hanno fatto soffermare. L'elenco è disorganico e frammentario: come dovrebbe sempre essere una intenzione in itinere. |
adattarsi Sistemare una stanza Durata: intermittente Materiale: alcune stanze Effetto: adattarsi Moquette e carta da parati, piastrelle e intonaco, impianto elettrico, fasci di luce, porte, finestre, tende, cuscini, mobili, piante... Bisogna decidere il posto degli oggetti, il colore e lo stile. Ciò che è interessante è che non si sa come fare. Imparate ad ascoltare quello che dice la stanza. Ogni luogo vuole una certa forma e una certa sistemazione. Non si può averne una conoscenza globale né razionale. È come se in ogni posto lo spirito del luogo parlasse una propria lingua, che voi dovete imparare utilizzando le vostre risorse. Bisogna quindi lasciarsi impregnare dalle caratteristiche del luogo: volume, luci, superfici, materiali, trama. E poi procedere a tentoni. Una buona sistemazione non nasce mai da una prima intuizione. Bisogna procedere per approssimazione, passo dopo passo, per tentativi ed errori. Saper tacere e dimenticare, riscoprire, agire al di là delle parole e delle rappresentazioni. Non completamente in modo teorico e astratto. Posate un colore e gli altri tutt'intorno si trasformano. Mettete un mobile e i volumi cambiano, talvolta anche i colori e le luci. Ogni cosa è sempre in stretto rapporto con il resto. Per questo non dovete lasciarvi ingannare, quando non conoscete esattamente l'itinerario da seguire. L'esperienza obbedisce a regole ogni volta diverse. Voi dovete lasciar fare e agire al tempo stesso. Siete voi al centro delle manovre, ma avrete successo se non im¬porrete nulla. D'altro canto le conseguenze di questa relativa passività saranno in ragione di quello che siete. Ciò che il luogo suggerisce, ciò che esige su misura non è evidentemente identico per tutte le persone: il luogo è la guida, ma siete voi il conducente e non qualcun altro. Non state quindi soltanto arredando una stanza, ma anche voi stessi. Questa esperienza vi insegna che siete parte integrante dell'ambiente che vi circonda. Non un attore, o un architetto, insomma una volontà esterna che decide solo delle apparenze. Siete un elemento della stanza ed essa diventa uno degli elementi del vostro essere. Se qualcuno vi dice «come è bella la tua casa», potrete percepirla come una banalità oppure pensare che la verità alla lunga produce qualche effetto.
Roger - Pol Droit, Piccola filosofia portatile. 101 esperimenti di pensiero quotidiano, Rizzoli, 2001 amicizia Quello che ci piace negli amici è la considerazione che hanno di noi. Tristan Berbard AMICIZIA EROTISMO MASCHIO FEMMINA L'amicizia fra un uomo e una donna è sempre un poco erotica, anche se inconsciamente. Jorge Luis Borges ammalarsi Con quella che sul mio polmone fu detta ombra, un'ombra era di nuovo calata sulla mia esistenza AMORE CONIUGALE John Donne
Nel letto accompagnando la sua Donna
Vieni o Signora mia, che le mie forze per te operose si faranno, e intente nel lavoro saranno, a tanto impegno. Il nemico, quando un nemico avvista si sfianca in ozio, pur senza lottare. Via quella tua cintura scintillante, stellato ciel, su cielo ancor più vago, via quel velo dai seni, che ti cela a difesa di sguardi intenti e sciocchi. E armoniosa, deponi ogni legame, che è giunto il tempo di letto d'amore. Via quel divino busto, invidia mia, perchè per sempre può averti vicino. Cada la veste e il dolcissimo corpo mi si riveli, come quando l'ombra dal colle scema e mostra i prati in fiore. Via quei fermagli dai capelli, sciogli il diadema di chiome sul tuo capo. Via quei calzari e penetra nel sacro mio letto, soffice tempio d'amore. In bianche vesti gli Angeli celesti erano attesi dagli uomini, ed Angelo anche tu sei, che mi riveli un cielo qual'è di Maometto il paradiso. E sebbene gli spettri ci confondano biancovestiti, pure agevolmente da questi Angeli noi li distinguiamo: perche quelli ci rizzano i capelli e questi invece, divini, la carne.
Consenti alle mie mani accarezzare e dietro e avanti, e in mezzo, e il sopra e il sotto. Oh tu America mia, mia Nuova Terra, mio regno tanto più difeso, quanto più da me solo, uomo a presidiare. O mia miniera di gemme, mio Impero ed io beato qui, a discoprirti! Essere liberi è legarsi in vincolo e in tal sigillo porrò la mia mano.
O nudità completa, di ogni gioia umana sei tu causa prima e vera. E come l'anima incorporea va, così il tuo corpo senza veli avrà eterna perfezione. E quei diademi con cui vaghe voi donne v'adornate aurei pomi son come d'Atalanta gettati per inganno avanti a un uomo folle, attirato più da fredde gemme che da colei che ardente li esibisce. Come pittura, o come legatura di libro è l'indumento di una donna: lei dentro, sola, è mistica scrittura che a noi degnati da divina grazia sua rivelata, ammirare possiamo. E dunque a me, affinchè possa vedere, te stessa mostra come a levatrice, lentamente spogliandoti di tutti quei bianchi lini, perchè all'innocenza mai più s'imponga alcuna penitenza.
Io nudo, amore a te insegno e perchè allora stai, più vestita di me? amore relazione «E un’altra volta, ancora in quel viaggio, durante la traversata di quello stesso oceano, anche quella volta era già notte, nel salone del ponte principale, l’esplosione di un valzer di Chopin che lei conosceva in modo segreto e intimo, perché per mesi aveva tentato di impararlo e non era mai riuscita a suonarlo bene, mai, tanto che poi sua madre le aveva permesso di non studiare più il pianoforte. Quella notte, perduta tra tante e tante notti, la ragazza, di questo era certa, l’aveva trascorsa su quella nave e c’era quando ciò era successo, quando era esplosa la musica di Chopin sotto il cielo luminescente. Non c’era un alito di vento e la musica si era propagata per tutto il piroscafo buio, come un’ingiunzione del cielo, come un ordine divino dall’ignoto significato. E la ragazza si era alzata come per andare a uccidersi a sua volta, a buttarsi a sua volta in mare e poi aveva pianto, perché aveva pensato all’uomo di Cholen e tutto a un tratto non era più sicura di non averlo amato, solo che quell’amore non l’aveva visto perché si era perso nella storia come acqua nella sabbia e lei lo ritrovava soltanto ora, nell’istante della musica sul mare». (MARGUERITE DURAS, L’amante) amore relazione Platone: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. E’ allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vari presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio» ANIMALI Gli animali sono amici così simpatici: non fanno domande, non muovono critiche. ANIMALI CAPRE Due capre
Capra dal muso affilato e occhi d'ambra; capra che cambia in poche ore la fisionomia di un caprifoglio, in mattinata turgido di gemme e adesso spoglio. Capra che fai la guardia a una casa che non è mai stata abitata: tu sei sorella inconsapevole di un totem - un'altra capra che veglia casa mia, però impagliata. Il naturale vigila sul vuoto, solitario; mentre l'uomo sgrana con l'artificio il suo rosario.
In Marcoaldi Franco, Animali in versi, Einaudi, 2006, p.8 ARTE MUSICA Non abbiamo altro scopo, per quanto mi riguarda, che riflettere il nostro tempo, le situazioni intorno a noi e le cose che sappiamo dire con la nostra arte, le cose che milioni di persone non sanno dire. Penso che questa sia la funzione dell'artista e, naturalmente, chi di noi è così fortunato, lascia un'eredità che sopravvivrà quando non ci saremo più". (N. Simone) ascoltare Tom Waits è uno che canta e nella sua voce ci sono le voci di tutti i barboni ubriaconi del mondo. Non è una voce, è una discarica pubblica, è una sigaretta lunga anni, è milioni di birre e chilometri, e centinaia di amori e motel. E' una voce delle più emozionanti che vi può capitare di ascoltare ascoltare Ci racconta qualcosa di Duke Ellington ? "Duke era unico perché riusciva a darti un'idea visiva della musica che bisognava seguire per meglio entrare nella composizione. Il suo spartito non conteneva soltanto note, ma anche una storia da raccontare, con cui immedesimarsi. Se per esempio bisognava eseguire un brano come African Flower, Ellington ti diceva che suonando dovevi immaginare il più bel fiore della foresta, un fiore vergine che non aveva toccato mai nessuno" ascoltare Senza musica la vita sarebbe un errore Friedrich Nietzsche ascoltare STRANGE FRUITS "Gli alberi del sud partoriscono strani frutti, sangue sulle foglie e sangue nelle radici" BELLEZZA La bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla ed ogni mente percepisce una diversa bellezza. David Hume BIOGRAFIA MORTE Memorie di Adriano 555 - Adriano imperatore
L’autrice racconta, o meglio fa raccontare in prima persona, ad Adriano la propria vita e ne raccoglie le impressioni, quando l’imperatore e’ ormai prossimo alla morte e scrive al figlio adottivo Marco Aurelio. L’imperatore esprime i suoi pensieri piu’ intimi, le sue citazioni sui riti religiosi (rimase particolarmente colpito e influenzato dal culto del dio Mitra), e rivive la sua giovinezza lontano da Roma, al seguito degli eserciti Romani. Adriano sa di dover morire ed aspetta questo evento, pronto a riceverlo. La lettera che egli scrive al figlio adottivo e’ lo sfogo (comprensibile) di un uomo che non puo’ piu’ segurie gli affari dell’Impero, ormai svuotato di ogni energia, e traspare nell’imperatore , nell’uomo, la sofferenza di un malato che libera i ricordi. Adriano rivisita i momenti importanti e significativi del suo lungo regno (21 anni), partendo dai rapporti e dalla confidenza che lo legava alla amica-madre Plotinia, proseguendo con il racconto delle sue campagne militari, dei viaggi, dei luogi visitati e che lo colpirono particolarmente (Asia minore, Bitinia, la citta’ di Nicomedia, ect.). Esprime pensieri e giudizi sulla sua famiglia, sui libri, sullo “sport” allora piu’ in voga: la caccia. Ci parla delle sue dissertazioni filosofiche, dei suoi amori, dei rapporti con l’imperatore (e padre adottivo) Traiano, del suo matrimonio non felice. La Yourcenar fa raccontare la suo protagonista la sua esperienza umana, ricchissima, di un uomo che facendo tesoro di ogni esperienza vissuta nei sui 21 anni di regno diventa uno statista, arricchito dall’emergere della verita’ interiore che l’imperatore aveva conquistato. La scrittrice in questo romanzo che puo’ sembrare solo epistolare, rida’ vita a poco a poco alla personalita’ di Adriano, alla sua grandezza, all’ambiente nel quale visse piu’ di 2000 anni fa’. L’imperatore negli ultimi giorni di vita esamina le debolezze del suo spirito, fa considerazioni sulla sua esistenza, ed esprime sentimenti di gratitudine per le poche persone che gli sono sempre state vicine e che non l’abbandonano nemmeno negli ultimi dolorosi e disperati momenti della sua vita. Chiudo questa recensione ricordardo i versi composti dall’imperatore Adriano poco prima di morire: “Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora ti appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai piu’ gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che ceramente non vedremo mai piu’… cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti…”
(Marguerite Yourcenar - Memorie di Adriano - Ed. Einaudi) biografia politica storia Agli uomini senza ambizioni politiche, senza particolari doti d’ingegno, senza relazioni influenti, cioè senza possibilità di scambio o di scampo, che caddero oscuramente, mossi da elementari bisogni e da elementari ideali. A questi uomini che in morte come in vita non ebbero mai né chiesero quartiere, e di cui la storia, che pure di essi soprattutto si nutre, disperde prudentemente le tracce.
Luca Canali, in Resistenza impura, Mondadori BLOG Quindi, scrivo un diario on-line e in qualche modo mi racconto a persone che non mi conoscono. Lo facevo anche prima, ma scrivevo in quaderni che ora ho abbandonato anche perché è più facile scrivere direttamente sulla tastiera del pc. No che non ti posso spiegar tutta la tecnologia, ma conto sulla tua intelligenza e la tua capacità di comprendere, di là dalle mie righe. Insomma nonno, scrivo io, scrive un altro e un altro ancora e ci conosciamo per caso on-line. In queste situazioni ognuno fa come si sente, personalmente scrivo alle persone che mi sembrano simpatiche e che non si dimostrano troppo diffidenti. Sono due presupposti importanti per un’amicizia. No che non la capisco la diffidenza in rete, sto attenta anch’io, ma non troppo, come in tutte le cose che voglio sperimentare nella vita. BLOG sono attirato come un'ape laboriosa ai blog o post che hanno più il tono del "diario pubblico". inoltre sono interessato a questo "ragionare sullo strumento" (il blog ) mentre lo si usa. non sono in grado ancora (bisognerebbe farlo in modo più sistematico) di intravvedere i tipi di blog che le persone fanno. però qualche idea me la sono fatta. c'è il blog-diario. è quello più caldo c'è il blog -invettiva. conviene starci alla larga c'è il blog-informazione. talvolta più interessante di una enciclopedia c'è il blog-gioco. talvolta con regole così complicate che ci vorrebbero ore per giocarci ... il blog-poesia ...il blog-musica e naturalmente altri ancora. e intrecci fra i vari tipi una cosa è certa: i blog sono una espansione della nostra soggettività. sono dei modi per coltivare se stessi. per certi versi sono drammatici: parlano della nostra solitudine. esseri soli, in epoca di decadenza delle grandi aggregazioni sociali, che hanno voglia di esprimere se stessi attraverso delle identità protettive. delle maschere comunicanti. dall'altra parte espandono la comunicazione. si fanno incontri insperati. si allarga il giro delle conoscenze. la reciproca conoscenza non è più coloro che ci sono vicini. ma è l'intera italia. BLOG Sui Blog In quanto vivente nella modernità vivo non solo il politeismo dei valori, ma anche quello dei ruoli e delle situazioni. Ma se dovessi ricordare per il futuro la "cifra" di questi mesi dovrei riferirla alla mia avventura sui Blog. E alla mia vorace curiosità per questa forma di comunicazione biografica resa possibile dalle tecnologie del Web. Sull' argomento ho avuto una interessante discussione con Ruckert che vorrei fissare anche nel mio blocco degli appunti.
Paolo a Ruckert Mi è piaciuta la tua rievocazione biografica sul Blog del 14 aprile . Volevo dirti subito - in breve - perchè trovo di grandissimo interesse culturale i Blog. Perchè credo che attraverso questi scritti e nei commenti stia avvenendo una rivoluzione. Cioè la costruzione di una intelligenza associativa. Ossia l'elaborazione di nuovi modi di pensare il mondo attraverso piccoli francobolli che fanno vedere le associazioni fra gli eventi e la loro interpretazione. Qualcosa che ha un equivalente storico solo con la nascita della "opinione pubblica" che è avvenuta con l'illuminismo francese. Nei blog vedo cultura, interessi, passioni. Tutte spezzettate: ma questa è la modernità. La modernità è frammento. Solo ogni singolo individuo può tentare di "mettere assieme". Così i tuoi foglietti ne cassetti possono uscire. E magari incuriosire qualcuno .. che così incontra altri pensieri ... Una grandissima rivoluzione. Tanto più profonda perchè molecolare. Con i blog si vede vistosamante che non c'è la "massa" (il riferimento-base dei fascismi e dei comunismi) ma individui pensanti che associano le loro intelligenze e sentimenti.
Ruckert: l'idea reticolare nella diffusione delle idee è interessante, bisognerà capire se e come prenderà piede, se non c’è il rischio che la rete possa imprigionare piuttosto che liberare, magari inserendoci in piccole comunità autoreferenziali. Il rischio, inutile negarlo, esiste come la potenzialità. Come spesso accade il problema è bilnaciare le due cose e fare in modo che da questa babele di passione interessi ideali possa venir fuori una massa critica (o magari diverse masse critiche) di maggiore respiro. Anche qua il tempo ci risponderà, per ora possiamo solo immaginare... Ciao :)
Paolo: "se non c’è il rischio che la rete possa imprigionare piuttosto che liberare, magari inserendoci in piccole comunità autoreferenziali" E' vero. Allora l'unico ragionamento possibile è: qual'è il minore dei mali? LE autoreferenzialità? o il pensiero unico (insisto: quello delle culture totalitarie)? Propendo per il primo corno del dilemma. Trovo più libertà di pensiero in piccoli gruppi che condividono più comuni sentire. Il vero problema lo vedo nella possibile superficialità dei contatti. Relazioni sociali basate su "francobolli" tendono ad impoverire i significati di conoscenze più profonde e complessive. Ciao Amalteo
Ruckert: vero, ma se ci fosse la terza via? L'ideale sarebbe combattere l'aureferenzialità in modo tale da ampliare sempre di più le piccole comunità che poi interagendo tra loro riescono a fare quella massa in grado di sviluppare la circolazione delle idee, che ne pensi?
Paolo: Caro Ruck, questa volta temo che o non siamo in sintonia o non ci capiamo. E' la parola massa che mi incute timore, pensando al passato, soprattutto al secolo breve (1917-1945). Meglio infinitamente meglio individui che comunicano. Parlanti che crescono individualmente sulle normali sfide di una normale vita: nascita, crescita, espansione della personalità, fatica del lavoro, accettazione della morte. Nella massa c'è sempre bisogno di un capo. Come insegna anche la vicenda politica italiana: un popolo televisivo (non i parlanti dei blog) ha ancora acclamato un capo. Che non accetta le regole della democrazia. Ben sapendo che le televisioni sono sufficienti a creare qual "senso comune" che gli consentirà (probabilmente grazie a Bertinotti) di vincere per la terza volta. La televisone fà massa, i blog possono fare individui che trovano quei comuni sentire basati sul'intelligenza associativa. Ciao e grazie per gli stimoli a pensare
Ruckert: Non credo che non siamo in sintonia forse bisogna solo capirsi. Proviamoci magari partendo da un linguaggio comune perché bisogna intendersi sul senso delle parole. Al termine massa critica non voglio dare quel significato. Preferisco immaginare che l'insieme, anzi meglio la presenza sempre più numerosa di individui che comunicano e interagiscono tra loro crescendo individualmente, possano consentire un miglioramento qualitativo della società nelle sue diversità. Più la massa dei pensieri liberi aumenterà, più sarà possibile avere un miglioramento, a condizione però che tutti questi individui mantengano il più possibile un atteggiamento aperto verso l'esterno, in modo tale anche da far sviluppare in modo reticolare questo modello. E questa massa a differenza del passato potrebbe non avere necessità di un capo gerarchicamente sovraordinato proprio per la presenza di un reticolo che si muove orizzontalmente. Che dici? Siamo davvero così distanti? Ciao :)
Paolo: caro Ruck. Era proprio un malinteso linguistico sulla parola "massa". Sono del tutto in accordo con il tuo ragionamento. Fra l'altro, nel tuo caso, non è solo un "ragionamento" ma una pratica attiva. La tua intelligenza e capacità di pensiero la vedo sempre messa in atto nelle tue interazioni con amìci di vecchia data o occasionali. Ti sei costruito con loro un cerchio-reticolo in cui amplificate le vostre esperienze ed i vissuti. Ecco la forza dei blog: una rivoluzione attraverso il parlarsi. Insomma una volta tanto la scienza e le tecniche possono essere utilizzate in modo attivo e partecipato. Dati i tempi che continuano ad essere piuttosto crudeli è davvero molto. ciao, a presto
MariaPrivi ad agosto sarà un anno che frequento il mondo bloggaro. Tempo di consuntivi? Ma no! Non ci credo. Solo un momento per conversare. Il blog è uno specchio abbastanza fedele dei tanti pubblici "reali". Un mezzo con buone peculiarità ed inevitabili difetti. Permette rapida, ed a volte mirata circolarità delle idee, ma si rischia di ricevere informazioni errate. Eppure da Alex, con i blog, abbiamo ottenuto persino risultati concreti -vedi da me: Come muore la mia terra-. Io con il blog faccio di tutto: amicizia, lavoro, passatempo. Per alcune persone può diventare indispensabile (vecchi, persone sole, persone con bisogno ed impossibilità di comunicare altrimenti), per altre una droga (autoreferenzialità, sindrome del contatore, sostituzione impropria del virtuale con il reale), c'è chi lo adopera per raccattare sesso e chi per suscitare compassione. Un buon mezzo, un cattivo mezzo, secondo l'uso -sia attivo, sia passivo- che se ne fa. Un mezzo sicuramente in linea con il carattere del nostro tempo.
Paolo condivisione piena, cara mariaprivi. Ben ritrovata! Mi fa immenso piacere che anche tu valuti positivamenta la rivoluzione comunicativa dei Blog. Condivido tutto, ma proprio tutto, quello che dici: luogo innanzitutto di conversazione; specchio fedele (quasi un campione) della opinione pubblica; rapidità nella circolazione delle informazioni; nuovi tipi di amicizia, non basata sulla vicinanza fisica, eppure forte ed affettuosa; spazio comunicativo per le persone sole anziane (direi anche: allenamento del cervello e quindi prevenzione della decadenza della memoria); compulsività per alcuni (è vero: però meno dannosa dei telefonini, perchè è mediata dalla lingua scritta, che è sempre un esercizio di ordine); certo anche luogo per promuovere incontri sessuali (che, però se consenzienti e sicuri, sono una gioia della vita). Vero, verissimo: un mezzo, uno strumento. Non un fine. Uno strumento al servizio della personalità. Dei blog amo moltissimo le coincidenze (incrociare persone particolari che magari mai avrei potuto conoscere) e le occasioni. Per esempio in queste ore sul blog di ruckert (post Gotan project) sta avviandosi la stesura di una discografia jazz interattiva che potrebbe concludersi con un testo quasi collettivo su questo genere musicale del novecento. ciao carissima. a pres BLOG "Cosa si fa sui blog?” chiese Incredulo
"Sui blog si fa conversazione!" rispose Sperimentatore
Questo dialoghetto tra Amalteo e SurferRosa mi ha fatto ricordare alcuni frammenti e citazioni tratte dal libro di Dacia e Fosco Maraini, Il gioco dell’universo. Le lascio qui.
“Fosco era uno sperimentatore nato. Il campo dei suoi esperimenti era il linguaggio. Quasi mettendo in pratica la famosa frase di Roland Barthes: “Ogni rifiuto del linguaggio è una morte”. Con la morte lui ci giocava a rimpiattino: le parole gli rivelavano i nascondigli più sicuri, più impensabili per tenerla a bada. Ma rivela anche altro questa passione, come dice T.S. Eliot nel saggio del Bosco Sacro dedicato a Philip Massinger, ovvero che una evoluzione vitale del linguaggio è anche una evoluzione del sentimento. Quindi non gioco di superficie, fine a se stesso, ma scavo, attraverso la lingua scritta, nella terra dura del pensiero. […]
… Il linguaggio comune, salvo rari casi, mira ai significati univoci, puntuali, a centratura precisa.
Nel linguaggio metasemantico invece le parole non infilano le cose come frecce, ma le sfiorano come piume, o colpi di brezza, o raggi di sole, dando luogo a molteplici diffrazioni, a richiami armonici, a cromatismi polivalenti, a fenomeni di fecondazione secondaria, ed è facile vedere i “duomi del pensiero” che si muovono lenti spinti dai “moti più segreti”.
Nel linguaggio comune dinanzi a cose, eventi, emozioni, pensieri nuovi, o ritenuti tali, si trovano suoni che danno loro foneticamente corpo e vita, che li rendano moneta del discorso.
Nel linguaggio metasemantico, o nella poesia, avviene proprio il contrario. Si propongono dei suoni e si attende che il proprio patrimonio d’esperienze interiori, magari il proprio subconscio, dia loro significati, valori emotivi, profondità e bellezze. E’ dunque la parola come musica e come scintilla.
… La parola è come una caramella, qualcosa da rigirare tra lingua e palato con voluttà, a lungo, estraendone fiumi di sapori e delizie.
… Parole belle, parole brutte, parole misteriose, parole semplici, parole complesse, parole didascaliche, parole poetiche, parole logiche, parole in libertà… . […]
… Fosco confesserà inoltre che quasi ogni sua parola è frutto d’un lungo studio. Certe espressioni proprio non gli venivano per mesi, sapeva quello che cercava, ma il sassolino giusto la marea non glie lo gettava mai sulla spiaggia. Poi un certo giorno, magari facendosi la barba, cambiando una gomma della macchina, studiando gli ideogrammi cinesi o seduto nella neve al sole, eccoti il sassolino cercato. Adesso gli resta solo da sperare di non aver scritto in una lingua privata e segreta, come dire per lui solo; ciò che proprio gli dispiacerebbe.
… La tensione poetica accompagnerà Fosco per tutta la vita. Ma non scriverà molti versi. La sua scrittura tendeva allo scientifico e allo storico. Eppure la gioia della poesia si insinua spesso anche fra i suoi più cocciuti elenchi. La poesia come gioco verbale, la poesia come affrancamento di una fantasia troppo costretta e razionalizzante, la poesia come alta acrobazia verbale, la poesia come gioco che si gioca. Tale la troviamo in questa fànfola:
Il giorno ad urlapicchio
Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infrangelluto,
ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzìllano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;
è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantileni, ad urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.
Ma cosa sono le fànfole? Fosco rispondeva con una citazione da Palazzeschi.
“cosa ci hanno con noi quelle due sbrèndole, quelle ciufféche, quelle cirimbràccole?” – Palazzeschi
La fànfola è una forma dialettale, un ghirigoro linguistico, un grammelot finissimo ed esilarante che fa esplodere il linguaggio dall’interno, mostrando le sue contraddizioni, le sue povertà e le sue ricchezze. Rivelando soprattutto quanto il suono spesso prevalga sul significato, il fonema sul semantema.
… Ah, la magia delle parole! Che non smettono mai di sorprendere, di cicalare, di ridere, di manifestarsi e poi sparire nel nulla.
… E alla fine di tutte le nostre “esplorazioni” arriveremo dove abbiamo cominciato e per la prima volta conosceremo il “posto”. (T.S. Eliot)
Così Fosco accumulava parole con la pazienza di un grande camminatore della mente.”
Allora:
“Cosa si fa sui blog?” Chiese Incredulo
“Sui blog si fanno blogaloghi!” rispose Amalteo-Sperimentatore… ossia varianti dei dialoghi faccia a faccia.
Non vi sembra una “fànfola”? BLOG Recentemente l'amico musicista Enzo Nini, mi raccontava un processo creativo che ha condiviso con altri musicisti.
A me è venuto in mente che il web e, precisamente, il blog, permette una comunicazione a 260° ( mancano ancora i profumi e le texture). Certo una e-mail o un post, non hanno la magia di una lettera scritta a mano: non c'è l'inchiostro, la carta, la calligrafia, il profumo della mano che l'ha vergata, la sorpresa, i chilometri percorsi... ma compensano con la pluralità di opzioni. Per quel che mi riguarda, nettamente superiori a una telefonata in quantità di sfumature trasmesse, anche se trovo irrinunciabile la voce, direi la musica in parole. BUONI PROPOSITI Buoni propositi
* Leggere per vivere, non solo per divertirsi o imparare. * Compilare un catalogo delle banalità che ottundono il suono della vita; una volta fatto, escluderle completamente dai suoni ricevibili. * Amare la scrittura in modo discreto ma sostanziale, come un asceta il deserto o come il monaco zen la disciplina del respiro. * Cercare la felicità nell’ozio e nel silenzio. * Fare in modo che nessuno, in futuro, possa mai credere che ho vissuto.
in http://cleliamazzini.tumblr.com/post/27505687 cambiare Sai cos'è la cosa più stupenda? Che il cambiamento può essere così costante che non senti nemmeno la differenza fino a quando non cambia tutto.
Può essere un processo così lento che non ti accorgi che la tua vita è meglio o peggio finch'è non è diversa. Oppure il cambiamento può essere radicale e tutto è diverso in un attimo. campo psicoterapeutico PROGETTO E DESTINO: il «diventa ciò che sei» pindarico e la sua scomposizione nel campo psicoterapeutico
Si tratta di «AIUTARE I SINGOLI A DIVENTARE QUELLO CHE SONO», facendo bene attenzione al cambiamento che subisce il ‘campo’ sul quale si esercita l’azione terapeutica, in quanto la formula da cui siamo partiti si moltiplica nelle altre formule: «DIVENTA CIÒ CHE NON SEI», «NON DIVENTARE CIÒ CHE SEI», «NON DIVENTARE CIÒ CHE NON SEI».
In questo senso, occorrerà capire bene cosa implichi il motto DIVENTA CIÒ CHE SEI. Una persona deve essere aiutata a realizzare la propria natura, più che a passare a vivere quella che a noi sembra la forma di vita migliore. Allora, tornare a vivere ‘libera-mente’ significa imparare a riconoscere e ad accettare come un dato il proprio Sé. A questo deve conformarsi la vera o pretesa libertà dell’Io. Ogni eventuale integrazione o «riparazione» del proprio nucleo originario non comporterà mai un mutamento sostanziale o un annullamento di quella parte di sé che «non piace». Su questa base teorica e metodologica l’asserto di partenza si potrà chiarire, allora, con le espressioni popolari «SII TE STESSO», «NON TRADIRE TE STESSO». La fuoriuscita dalla tossicodipendenza coinciderà, per il resto della vita della persona, con l’accettazione del proprio DESTINO.
«DIVENTA CIÒ CHE NON SEI», ovvero la possibilità del mutamento. L’esperienza ci ha insegnato che il PROGETTO supera il destino quando si avverte come possibile la trasformazione della propria vita sotto la spinta di mete ideali, per quanto esse siano arginate dal principio di realtà. L’utopia, l’esodo, la speranza non sono esiti negati dalla psicoterapia. Rispetto al «diventa ciò che sei», il «diventa ciò che non sei» non si pone come opposto che lo esclude ma come elemento complementare. Si tratta di far interagire ‘libera-mente’ i due momenti nella relazione terapeutica, orientando l’ascolto nella direzione suggerita dalle modificazioni che intervengono nel ‘campo’ e dai ‘punti di resistenza’ che affiorano.
«NON DIVENTARE CIÒ CHE SEI» o della liberazione limitata dai condizionamenti. Sia i condizionamenti naturali che i condizionamenti culturali costituiscono una determinazione che occulta una natura più originaria che non possiamo escludere di poter realizzare nel corso della nostra vita. Non saremo noi a suggerire all’utente questa meta come senz’altro desiderabile, in quanto essa si mostrerà spontaneamente e in forme imprevedibili nello spazio terapeutico. La problematicità di quest’ultimo decide sul corso che prenderanno le cose. L’altro si dislocherà ‘libera-mente’ sotto la guida accorta dell’operatore.
«NON DIVENTARE CIÒ CHE NON SEI»: fedeltà al dato originario e perseverazione nella libertà finita. Solo apparentemente siamo ritornati al primitivo «diventa ciò che sei». In realtà, il progetto (diventare) si adegua al destino (ciò che sei) con un movimento che potremmo dire centrifugo, mentre nella forma originaria il movimento è, per così dire, centripeto. Qui si ammette la possibilità di diventare «altro», pertanto di assumere forme, norme, stereotipi e modalità forniti dai modelli storici diffusi in una determinata cultura, e questa possibilità è assunta come rischio di fuga da sé, come pericolo di infedeltà al dato originario. Tuttavia questa possibilità, per quanto astratta, comporta quella libertà senza la quale ogni imperativo non avrebbe senso. Si tratta di una libertà finita, una libertà che si esercita all’interno di condizioni sia pure non del tutto necessitanti. La possibilità di essere se stessi assume valore proprio perché viene preservata questa libertà finita. L’altro oscillerà ‘libera-mente’ dentro la personale dialettica libertà-necessità.
La scomposizione in quattro momenti, a partire dalla formula di partenza, è tipica della fondamentale problematicità che dischiude dinanzi a noi il campo psicoterapeutico: solo in questo spazio di incertezza costitutiva si manifestano sia le possibilità autentiche del diventare se stessi e del non fuggire da se stessi, sia i rischi fecondi della trasformazione del dato originario e del mutamento della direzione.
Brani liberamente tratti e adattati da
MARIO TREVI, Il lavoro psicoterapeutico. Limiti e controversie, THEORIA 1993
IN http://www.gabrielederitis.it/?p=590 Chesil Beach Ian McEwan - Chesil Beach da frailibri di francesca g. tramite Elementi condivisi di Clelia Mazzini
Einaudi *Supercoralli* (2007), 136 pagine, euro 15,50
mcewan_chesil.jpgLa passione per Ian McEwan è arrivata all’improvviso, quando “Cortesie per gli ospiti” mi ha chiamato dallo scaffale della Feltrinelli di Largo Argentina. È stato amore a prima lettura; quel suo stile morbido e avviluppante cattura fin dalla prima pagina e la storia di quella coppia di sposi in vacanza non mi ha lasciato per tanto tempo dopo che avevo finito di leggere.Protagonisti del suo ultimo romanzo, “Chesil Beach” sono ancora una coppia di novelli sposi che, a differenza dei “predecessori”, nella storia appaiono soli: Edward e Florence, a partire dalla loro prima, primissima notte di nozze. Nel periodo storico in cui è ambientato il romanzo (primi anni ’60), il matrimonio aveva un significato sociale molto forte: “Erano ancora tempi, destinati a concludersi alla fine di quel famoso decennio, in cui essere giovani costituiva un ingombro sociale, un marchio di irrilevanza, una condizione di leggero imbarazzo per la quale il matrimonio rappresentava l’inizio di una terapia. Grossomodo estranei, eccoli là, stranamente insieme su una nuova vetta dell’esistenza, lieti al pensiero che il loro status recente permettesse di sospingerli sul radioso cammino di una interminabile giovinezza: Edward e Florence, finalmente liberi!”
Una coppia di individui sembra spiccare il volo di una nuova vita, con aspettative e speranze a lungo – una carriera scintillante nella musica lei, la fama da scrittore di storia lui – e a breve termine – una libertà che non è solo sociale, ma è anche sessuale; la possibilità di concedersi liberamente l’una all’altro fuori da ogni giudizio. Proprio la naturalezza di un primo rapporto fra marito e moglie è la causa che spezza la serenità (come era successo in “Cortesie per gli ospiti”, in cui la causa era “esterna” però alla coppia). Quel sole che sembra illuminare i personaggi dei romanzi nelle prime pagine, piano piano assume il glaciale bagliore del dubbio, dell’ambiguità, della sofferenza. Florence non vuole concedersi a Edward, non ha interesse per il sesso, prova addirittura repulsione di fronte a un atto così carnale.
Si scava nel passato dei due sposi per cercare di conoscerli e capirli, attraverso le famiglie, l’infanzia. Se ne segue poi l’evoluzione in un futuro oltre una sliding door che si apre su due possibilità e su parecchie opportunità. Edward e Florence, coerenti e orgogliosi, resi poco liberi dalle loro stesse convinzioni e fermi sulle loro posizioni, passano oltre la “porta”, senza nemmeno guardare i “se” che offre e vanno dritti per le loro strade. Solo una volta si volteranno indietro e vedendosi l’un l’altro nelle proprie vite si chiederanno “e se…”; e sarà – forse – troppo tardi.
Romanzo forse meno “ansiogeno” di “Cortesie per gli ospiti”, lontano dai thriller che ti fanno venire i brividi alla schiena, gioca sulla tenerezza e sulla apparente “linearità” dei personaggi, che si scoprono invece complessi e spiazzanti man mano che si procede a scavare nel passato, ma soprattutto a seguirli in questo post-matrimonio che è la spina dorsale del romanzo. CICLO DI VITA SENECA: De brevitate vitae
I. La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lagna per la cattiveria della natura, perché siamo messi al mondo per un esiguo periodo di tempo, perché questi periodi di tempo a noi concessi trascorrono così velocemente, così in fretta che, tranne pochissimi, la vita abbandoni gli altri nello stesso sorgere della vita. Né di tale calamità, comune a tutti, come credono, si lamentò solo la folla e il dissennato popolino; questo stato d’animo suscitò le lamentele anche di personaggi famosi. Da qui deriva la famosa esclamazione del più illustre dei medici, che la vita è breve, l’arte lunga; di qui la contesa, poco decorosa per un saggio, dell’esigente Aristotele con la natura delle cose, perché essa è stata tanto benevola nei confronti degli animali, che possono vivere cinque o dieci generazioni, ed invece ha concesso un tempo tanto più breve all’uomo, nato a tante e così grandi cose. Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. La vita è lunga abbastanza e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle più grandi imprese, se fosse impiegata tutta con diligenza; ma quando essa trascorre nello spreco e nell’indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, spinti alla fine dall’estrema necessità, ci accorgiamo che essa è passata e non ci siamo accorti del suo trascorrere. È così: non riceviamo una vita breve, ma l’abbiamo resa noi, e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, quando siano giunte ad un cattivo padrone, vengono dissipate in un attimo, ma, benché modeste, se vengono affidate ad un buon custode, si incrementano con l’investimento, così la nostra vita molto si estende per chi sa bene gestirla. II. Perché ci lamentiamo della natura delle cose? Essa si è comportata in maniera benevola: la vita è lunga, se sai farne uso. C’è chi è preso da insaziabile avidità, chi dalle vuote occupazioni di una frenetica attività; uno è fradicio di vino, un altro languisce nell’inerzia; uno è stressato da un’ambizione sempre dipendente dai giudizi altrui, un altro è sballottato per tutte le terre da un’avventata bramosia del commercio, per tutti i mari dal miraggio del guadagno; alcuni tortura la smania della guerra, vogliosi di creare pericoli agli altri o preoccupati dei propri; vi sono altri che logora l’ingrato servilismo dei potenti in una volontaria schiavitù; molti sono prigionieri della brama dell’altrui bellezza o della cura della propria; la maggior parte, che non ha riferimenti stabili, viene sospinta a mutar parere da una leggerezza volubile ed instabile e scontenta di sé; a certuni non piace nulla a cui drizzar la rotta, ma vengono sorpresi dal destino intorpiditi e neghittosi, sicché non ho alcun dubbio che sia vero ciò che vien detto, sotto forma di oracolo, nel più grande dei poeti: “Piccola è la porzione di vita che viviamo”. Infatti tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo. I vizi premono ed assediano da ogni parte e non permettono di risollevarsi o alzare gli occhi a discernere il vero, ma li schiacciano immersi ed inchiodati al piacere. Giammai ad essi è permesso rifugiarsi in se stessi; se talora gli tocca per caso un attimo di tregua, come in alto mare, dove anche dopo il vento vi è perturbazione, ondeggiano e mai trovano pace alle loro passioni. Pensi che io parli di costoro, i cui mali sono evidenti? Guarda quelli, alla cui buona sorte si accorre: sono soffocati dai loro beni. Per quanti le ricchezze costituiscono un fardello! A quanti fa sputar sangue l’eloquenza e la quotidiana ostentazione del proprio ingegno! Quanti sono pallidi per i continui piaceri! A quanti non lascia un attimo di respiro l’ossessionante calca dei clienti! Dunque, passa in rassegna tutti costoro, dai più umili ai più potenti: questo cerca un avvocato, questo è presente, quello cerca di esibire le prove, quello difende, quello è giudice, nessuno rivendica per se stesso la propria libertà, ci si consuma l’uno per l’altro. Infòrmati di costoro, i cui nomi si imparano, vedrai che essi si riconoscono da questi segni: questo è cultore di quello, quello di quell’altro; nessuno appartiene a se stesso. Insomma è estremamente irragionevole lo sdegno di taluni: si lamentano dell’alterigia dei potenti, perché questi non hanno il tempo di venire incontro ai loro desideri. Osa lagnarsi della superbia altrui chi non ha tempo per sé? Quello almeno, chiunque tu sia, benché con volto arrogante ma qualche volta ti ha guardato, ha abbassato le orecchie alle tue parole, ti ha accolto al suo fianco: tu non ti sei mai degnato di guardare dentro di te, di ascoltarti. Non vi è motivo perciò di rinfacciare ad alcuno questi servigi, poiché li hai fatti non perché desideravi stare con altri, ma perché non potevi stare con te stesso. III. Per quanto siano concordi su questo solo punto gli ingegni più illustri che mai rifulsero, mai abbastanza si meraviglieranno di questo appannamento delle menti umane: non tollerano che i propri campi vengano occupati da nessuno e, se sorge una pur minima disputa sulla modalità dei confini, si precipitano alle pietre ed alle armi: permettono che altri invadano la propria vita, anzi essi stessi vi fanno entrare i suoi futuri padroni; non si trova nessuno che sia disposto a dividere il proprio denaro: a quanti ciascuno distribuisce la propria vita! Sono avari nel tenere i beni; appena si giunge alla perdita di tempo, diventano molto prodighi in quell’unica cosa in cui l’avarizia è un pregio. E così piace citare uno dalla folla degli anziani: “Vediamo che sei arrivato al termine della vita umana, hai su di te cento o più anni: suvvia, fa un bilancio della tua vita. Calcola quanto da questo tempo hanno sottratto i creditori, quanto le donne, quanto i patroni, quanto i clienti, quanto i litigi con tua moglie, quanto i castighi dei servi, quanto le visite di dovere attraverso la città; aggiungi le malattie, che ci siamo procurati con le nostre mani, aggiungi il tempo che giacque inutilizzato: vedrai che hai meno anni di quanti ne conti. Ritorna con la mente a quando sei stato fermo in un proposito, quanti pochi giorni si sono svolti così come li avevi programmati, a quando hai avuto la disponibilità di te stesso, a quando il tuo volto non ha mutato espressione, a quando il tuo animo è stato coraggioso, che cosa di positivo hai realizzato in un periodo tanto lungo, quanti hanno depredato la tua vita mentre non ti accorgevi di cosa stavi perdendo, quanto ne ha sottratto un vano dispiacere, una stupida gioia, un’avida bramosia, una piacevole discussione, quanto poco ti è rimasto del tuo: capirai che muori anzitempo”. Dunque qual è il motivo? Vivete come se doveste vivere in eterno, mai vi sovviene della vostra caducità, non ponete mente a quanto tempo è già trascorso; ne perdete come da una rendita ricca ed abbondante, quando forse proprio quel giorno, che si regala ad una certa persona od attività, è l’ultimo. Avete paura di tutto come mortali, desiderate tutto come immortali. Udirai la maggior parte dire: “Dai cinquant’anni mi metterò a riposo, a sessant’anni mi ritirerò a vita privata”. E che garanzia hai di una vita tanto lunga? Chi permetterà che queste cose vadano così come hai programmato? Non ti vergogni di riservare per te i rimasugli della vita e di destinare alla sana riflessione solo il tempo che non può essere utilizzato in nessun’altra cosa? Quanto tardi è allora cominciare a vivere, quando si deve finire! Che sciocca mancanza della natura umana differire i buoni propositi ai cinquanta e sessanta anni e quindi voler iniziare la vita lì dove pochi sono arrivati! IV. Vedrai sfuggire di bocca agli uomini più potenti e più altolocati parole con le quali aspirano al tempo libero, lo lodano e lo antepongono a tutti i loro beni. Talvolta desiderano scendere giù da quel loro piedistallo, se la cosa potesse avvenire in tutta sicurezza; infatti, anche se niente preme e turba dall’esterno, la fortuna crolla su se stessa. Il divo Augusto, al quale gli dei concessero più che a chiunque altro, non cessò di augurarsi il riposo e di chiedere di essere sollevato dagli impegni pubblici; ogni suo discorso ricadeva sempre su questo, la speranza del tempo libero: alleviava le sue fatiche con questo conforto, per quanto illusorio tuttavia piacevole, che un giorno sarebbe vissuto per se stesso. In una lettera inviata al senato, dopo aver promesso che il suo riposo sarebbe stato non privo di decoro ne in contrasto con la sua gloria passata, ho trovato queste parole: “Ma queste cose sarebbe più bello poterle mettere in pratica che prometterle. Tuttavia il desiderio di quel tempo tanto desiderato mi ha condotto, poiché finora la gioia della realtà si fa attendere, a pregustare un po’ di piacere dalla dolcezza delle parole.” Così grande cosa gli sembrava il tempo libero, che, poiché non poteva goderne, se lo pregustava con l’immaginazione. Colui che vedeva tutto dipendere da lui solo, che stabiliva il destino per gli uomini e i popoli, pensava a quel felicissimo giorno in cui avrebbe abbandonato la propria grandezza. Conosceva per esperienza quanto sudore costano quei beni rifulgenti per tutta la terra, quante nascoste fatiche celano. Costretto a combattere con armi dapprima con i concittadini, poi con i colleghi, infine con i parenti, versò sangue per terra e per mare: dopo essere passato in guerra attraverso la Macedonia, la Sicilia, l’Egitto, la Siria e l’Asia e quasi tutte le coste, volse contro gli stranieri gli eserciti stanchi di strage romana. Mentre pacificava le Alpi e domava i nemici mischiati in mezzo alla pace e all’impero, mentre spostava i confini oltre il Reno, l’Eufrate ed il Danubio, proprio a Roma si affilavano contro di lui i pugnali di Murena, di Cepione, di Lepido, di Egnazio e di altri. Non era ancora sfuggito alle insidie di costoro e la figlia e tanti giovani nobili legati dal vincolo dell’adulterio come da un giuramento ne atterrivano la stanca età e ancor più e di nuovo una donna era da temere con un Antonio. Aveva tagliato via queste ferite con le stesse membra: altre ne rinascevano; come un corpo pieno di troppo sangue, sempre si crepava in qualche parte. E così anelava al tempo libero, nella cui speranza e nel cui pensiero si placavano i suoi affanni: questo era il voto di colui che poteva render gli altri paghi dei loro voti. V. Marco Cicerone, sballottato tra i Catilina e i Clodii e poi tra i Pompei e i Crassi, quelli avversari manifesti, questi amici dubbi, mentre fluttuava assieme allo Stato e lo sorreggeva mentre andava a fondo, alla fine sopraffatto, non calmo nella buona sorte e incapace di sopportare quella cattiva, quante volte impreca contro quel suo stesso consolato, lodato non senza ragione ma senza fine! Che dolenti parole esprime in una lettera ad Attico, dopo aver vinto Pompeo padre, mentre in Spagna il figlio rimetteva in sesto le armate scompaginate! “Mi domandi” dice “cosa faccio qui? Me ne sto mezzo libero nel mio podere di Tuscolo”. Poi aggiunge altre parole, con le quali rimpiange il tempo passato, si lamenta del presente e dispera del futuro. Cicerone si definì semilibero: ma perdiana giammai un saggio si spingerà in un aggettivo così mortificante, giammai sarà mezzo libero, sarà sempre in possesso di una libertà totale e assoluta, svincolato dal proprio potere e più in alto di tutti. Cosa infatti può esserci sopra uno che è al di sopra della fortuna? VI Livio Druso, uomo rude ed impulsivo, avendo rimosso le nuove leggi e i disatri dei Gracchi, pressato da una grande aggregazione dell’Italia intera, non prevedendo l’esito degli avvenimenti, che non poteva gestire e ormai non era libero di abbandonarli una volta iniziati, si dice che maledicendo la sua vita, irrequieta fin dagli inizi, abbia detto che solo a lui neppure da bambino erano toccate vacanze. Infatti osò ancor minorenne e poi adolescente raccomandare gli imputati ai giudici e interporre i suoi buoni uffici nel foro con tanta efficacia che alcune sentenze siano risultate da lui estorte. Dove non sarebbe sfociata una così prematura ambizione? Capiresti che una così precoce audacia sarebbe andata a finire in un grave danno sia pubblico che privato. Perciò tardi si lamentava che non gli fossero state concesse vacanze fin da piccolo, litigioso e di peso per il foro. Si discute se si sia tolto la vita; infatti, ferito da un improvviso colpo all’inguine, si accasciò, e vi è chi dubita che la sua morte sia stata volontaria, ma nessuno che essa sia stata opportuna. È del tutto inutile ricordare i tanti che, pur apparendo felicissimi agli occhi degli altri, testimoniarono in se stessi il vero ripudiando ogni azione della loro vita; ma con tali lamentele non cambiarono né gli altri né se stessi: infatti, una volta che le parole siano volate via, gli affetti ritorneranno secondo il consueto modo di vivere. Perdiana, ammesso pure che la vostra vita superi i mille anni, si ridurrebbe ad un tempo ristrettissimo: questi vizi divoreranno ogni secolo; in verità questo spazio che, benché la natura faccia defluire, la ragione dilata, è ineluttabile che presto vi sfugga: infatti non afferrate né trattenete o ritardate la più veloce di tutte le cose, ma permettete che vada via come una cosa inutile e recuperabile. VII. Tra i primi annovero senz’altro coloro che per nessuna cosa hanno tempo se non per il vino e la lussuria; nessuno infatti è occupato in maniera più vergognosa. Gli altri, anche se sono ossessionati da un effimero pensiero di gloria, tuttavia sbagliano con garbo; elencami pure gli avari, gli iracondi o coloro che perseguono ingiusti rancori o guerre, tutti costoro peccano più virilmente: la colpa di coloro che sono dediti al ventre e alla libidine è vergognosa. Esamina tutti i giorni di costoro, vedi quanto tempo perdano nel pensare al proprio interesse, quanto nel tramare insidie, quanto nell’aver timore, quanto nell’essere servili, quanto li tengano occupati le proprie promesse e quelle degli altri, quanto i pranzi, che ormai sono diventati anch’essi dei doveri: vedrai in che modo i loro mali o beni non permettano loro di respirare. Infine tutti convengono che nessuna cosa può esser ben gestita da un uomo affaccendato, non l’eloquenza, non le arti liberali, dal momento che un animo intento a più cose nulla recepisce più in profondità, ma ogni cosa respinge come se fossa introdotta a forza. Nulla è di minor importanza per un uomo affaccendato che il vivere: di nessuna cosa è più difficile la conoscenza. Dappertutto vi sono molti insegnanti delle altre arti, e alcune di esse sembra che i fanciulli le abbiano così assimilate da poterle anche insegnare: tutta la vita dobbiamo imparare a vivere e, cosa della quale forse ti meraviglierai, tutta la vita dobbiamo imparare a morire. Tanti uomini illustri, dopo aver abbandonato ogni ostacolo e aver rinunziato a ricchezze, cariche e piaceri, solo a questo anelarono fino all’ultima ora, di saper vivere; tuttavia molti di essi se ne andarono confessando di non saperlo ancora, a maggior ragione non lo sanno costoro. Credimi, è tipico di un uomo grande e che si eleva al di sopra degli errori umani permettere che nulla venga sottratto dal suo tempo, e la sua vita è molto lunga per questo, perché, per quanto si sia protratta, l’ha dedicata tutta a se stesso. Nessun periodo quindi restò trascurato ed inattivo, nessuno sotto l’influenza di altri; e infatti non trovò alcunché che fosse degno di essere barattato con il suo tempo, gelosissimo custode di esso. Perciò gli fu sufficiente. Ma è inevitabile che sia venuto meno a coloro, dalla cui vita molto tolse via la gente. E non credere che essi una buona volta non capiscano il proprio danno; certamente udirai la maggior parte di quelli, sui quali pesa una grande fortuna, tra la moltitudine dei clienti o la gestione delle cause o tra le altre dignitose miserie esclamare di tanto in tanto: “Non mi è permesso vivere.” E perché non gli è permesso? Tutti quelli che ti chiamano a sé, ti allontanano da te. Quell’imputato quanti giorni ti ha sottratto? Quanti quel candidato? Quanti quella vecchia stanca di seppellire eredi? Quanti quello che si è finto ammalato per suscitare l’ingordigia dei cacciatori di testamenti? Quanti quell’influente amico, che vi tiene non per amicizia ma per esteriorità? Passa in rassegna, ti dico, e fai un bilancio dei giorni della tua vita: vedrai che ne sono rimasti ben pochi e male spesi. Quello, dopo aver ottenuto le cariche che aveva desiderato, desidera abbandonarle e ripetutamente dice: “Quando passerà quest’anno?” Quello allestisce i giochi, il cui esito gli stava tanto a cuore e dice: “Quando li fuggirò?” Quell’avvocato è conteso in tutto il foro e con grande ressa tutti si affollano fin oltre a dove può essere udito; dice: “Quando verranno proclamate le ferie?” Ognuno consuma la propria vita e si tormenta per il desiderio del futuro e per la noia del presente. Ma quello che sfrutta per se stesso tutto il suo tempo, che programma tutti i giorni come una vita, non desidera il domani né lo teme. Cosa vi è infatti che alcuna ora di nuovo piacere possa apportare? Tutto è noto, tutto è stato assaporato a sazietà. Per il resto la buona sorte disponga come vorrà: la vita è già al sicuro. Ad essa si può aggiungere, ma nulla togliere, e aggiungere così come del cibo ad uno ormai sazio e pieno, che non ne desidera ma lo accoglie. Perciò non c’è motivo che tu ritenga che uno sia vissuto a lungo a causa dei capelli bianchi o delle rughe: costui non è vissuto a lungo, ma è stato in vita a lungo. E così come puoi ritenere che abbia molto navigato uno che una violenta tempesta ha sorpreso fuori dal porto e lo ha sbattuto di qua e di là e lo ha fatto girare in tondo entro lo stesso spazio, in balia di venti che soffiano da direzioni opposte? Non ha navigato molto, ma è stato sballottato molto. VIII. Mi stupisco sempre quando vedo alcuni chiedere tempo e quelli, a cui viene richiesto, tanto accondiscendenti; l’uno e l’altro guardano al motivo per il quale il tempo viene richiesto, nessuno dei due alla sua essenza: lo si chiede come se fosse niente, come se fosse niente lo si concede. Si gioca con la cosa più preziosa di tutte; (il tempo) invece li inganna,poiché è qualcosa di incorporeo, perché non cade sotto gli occhi, e pertanto è considerato cosa di poco conto, anzi non ha quasi nessun prezzo. Gli uomini accettano assegni annui e donativi come cose di caro prezzo e in essi ripongono le loro fatiche, il loro lavoro e la loro scrupolosa attenzione: nessuno considera il tempo: ne fanno un uso troppo sconsiderato, come se esso fosse (un bene) gratuito. Ma guarda costoro (quando sono) ammalati, se il pericolo della morte incombe molto da vicino, avvinghiati alle ginocchia dei medici, se temono la pena capitale, pronti a sborsare tutti i loro averi pur di vivere: quanta contraddizione si trova in essi. Che se si potesse in qualche modo mettere davanti (a ciascuno) il numero di anni passati di ognuno, così come quelli futuri, come trepiderebbero coloro che ne vedessero restare pochi, come ne risparmierebbero! Eppure è facile gestire ciò che è sicuro, per quanto esiguo; si deve invece curare con maggior solerzia ciò che non sai quando finirà. E non v’è motivo che tu creda che essi non sappiano che cosa preziosa sia:: sono soliti dire, a coloro che amano più intensamente, di essere pronti a dare parte dei loro anni. Li danno e non capiscono: cioè li danno in modo da sottrarli a se stessi senza peraltro incrementare quelli. Ma non si accorgono proprio di toglierli; perciò per essi è sopportabile la perdita di un danno nascosto. Nessuno (ti) restituirà gli anni, nessuno ti renderà nuovamente a te stesso; la vita andrà per dove ha avuto principio e non muterà né arresterà il suo corso; non farà alcun rumore, non lascerà nessuna traccia della propria velocità: scorrerà silenziosamente; non si estenderà oltre né per ordine di re né per favor di popolo: correrà così come ha avuto inizio dal primo giorno, non cambierà mai traiettoria, mai si attarderà. Cosa accadrà? Tu sei tutto preso, la vita si affretta: nel frattempo si avvicinerà la morte, per la quale, volente o nolente, bisogna avere tempo. IX. Cosa potresti immaginare di più insensato di quegli uomini che menano vanto della propria lungimiranza? Sono affaccendati in modo molto impegnativo: per poter vivere meglio organizzano la vita a scapito della vita. Fanno progetti a lungo termine; d’altra parte la più grande sciagura della vita è il suo procrastinarla: innanzitutto questo fatto rimanda ogni giorno, distrugge il presente mentre promette il futuro. Il più grande ostacolo al vivere è l’attesa, che dipende dal domani, (ma) perde l’oggi. Disponi ciò che è posto in grembo al fato e trascuri ciò che è in tuo potere. Dove vuoi mirare? Dove vuoi arrivare? Sono avvolti dall’incertezza tutti gli avvenimenti futuri: vivi senza arrestarti. Ecco, grida il sommo poeta [Virgilio, Georgiche] e come ispirato da bocca divina eleva un carme salvifico: “I primi a fuggire per gli infelici mortali sono i giorni migliori della vita.” Dice: “Perché esiti? Perché indugi? Se non te ne appropri, (i giorni migliori) fuggono.” E pure quando te ne sarai impossessato, essi fuggiranno: pertanto bisogna combattere con il farne rapidamente uso (lett.: la rapidità del farne uso) contro la velocità del tempo e attingerne rapidamente come da un torrente impetuoso e che non scorre per sempre. Anche ciò è molto bello, che per rimproverare un indugio senza fine, dica non “il tempo migliore”, ma “i giorni migliori.” Perché tu, tranquillo e indifferente in tanto fuggire del tempo prefiguri per te una lunga serie di mesi e di anni, a seconda che appaia opportuno alla tua avidità? (Virgilio) ti parla di un giorno e di un giorno che fugge. Vi è dunque dubbio che i migliori giorni fuggano ai mortali sventurati, cioè affaccendati? Sui loro animi ancora infantili preme la vecchiaia, alla quale giungono impreparati ed indifesi; nulla infatti fu previsto: improvvisamente e senza aspettarselo si imbatterono in essa, non si accorgevano che essa si avvicinava giorno dopo giorno. Allo stesso modo che un discorso o una lettura o un pensiero alquanto intenso trae in inganno chi percorre un cammino e si accorge di essere giunto prima di essersi avvicinato (alla meta), così questo viaggio della vita, costante e velocissimo, che percorriamo con la stessa andatura da svegli e da addormentati, non si manifesta agli affaccendati se non alla fine. X Se volessi dividere ciò che ho esposto e le argomentazioni, mi verrebbero in aiuto molte cose attraverso le quali posso dimostrare che la vita degli affaccendati è molto breve. Soleva affermare Fabiano [Papirio Fabiano, filosofo neopitagorico, molto stimato da Seneca], il quale non fa parte di questi filosofi cattedratici ma di quelli genuini e vecchio stampo, che contro le passioni bisogna combattere d’istinto, non di sottigliezza, e respingerne la schiera (delle passioni) non con piccoli colpi ma con un assalto: infatti esse devono essere pestate, non punzecchiate. Tuttavia, per rinfacciare ad esse il loro errore, bisogna non tanto rimproverarle ma ammaestrarle. La vita si divide in tre tempi: passato, presente e futuro. Di questi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro. Solo su quest’ultimo, infatti, la fortuna ha perso la sua autorità, perché non può essere ridotto in potere di nessuno. Questo perdono gli affaccendati: infatti non hanno il tempo di guardare il passato e, se lo avessero, sarebbe sgradevole il ricordo di un fatto di cui pentirsi. Malvolentieri pertanto rivolgono l’animo a momenti mal vissuti e non osano riesaminare cose, i cui vizi si manifestano ripensandole, anche quelli che vengono nascosti con qualche artificio del piacere presente. Nessuno, se non coloro che hanno sempre agito secondo la propria coscienza, che mai si inganna, si rivolge volentieri al passato; chi ha desiderato molte cose con ambizione, ha sprezzato con superbia, si è imposto senza regola né freno, ha ingannato con perfidia, ha sottratto con cupidigia, ha sprecato con leggerezza, ha paura della sua memoria. Eppure questa è la parte del nostro tempo sacra ed inviolabile, al di sopra di tutte le vicende umane, posta al di fuori del regno della fortuna, che non turba né la fame, né la paura, né l’assalto delle malattie; essa non può essere turbata né sottratta: il suo possesso è eterno e inalterabile. Soltanto a uno a uno sono presenti i giorni e momento per momento; ma tutti (i giorni) del tempo passato si presenteranno quando tu glielo ordinerai, tollereranno di essere esaminati e trattenuti a tuo piacimento, cosa che gli affaccendati non hanno tempo di fare. È tipico di una mente serena e tranquilla spaziare in ogni parte della propria vita; gli animi degli affaccendati, come se fossero sotto un giogo, non possono piegarsi né voltarsi. La loro vita dunque precipita in un baratro e come non serve a nulla, qualsiasi quantità tu possa ficcarne dentro, se non vi è sotto qualcosa che la raccolga e la contenga [come un recipiente senza fondo], così non importa quanto tempo è concesso, se non vi è nulla dove posarsi: viene fatto passare attraverso animi fiaccati e bucati. Il presente è brevissimo, tanto che a qualcuno sembra inesistente; infatti è sempre in corsa, scorre e si precipita; smette di esistere prima di giungere, e non ammette indugio più che il creato o le stelle, il cui moto sempre incessante non rimane mai nello stesso luogo. Dunque agli affaccendati spetta solo il presente, che è così breve da non poter essere afferrato e che si sottrae a chi è oppresso da molte occupazioni. XI. Vuoi dunque sapere quanto poco tempo (gli affaccendati) vivano? Vedi quanto desiderano vivere a lungo. Vecchi decrepiti mendicano con suppliche l’aggiunta di pochi anni: fingono di essere più giovani; si lusingano con la bugia e illudono se stessi così volentieri come se ingannassero al tempo stesso il destino. Però quando qualche infermità (li) ammonisce del loro stato mortale, come muoiono terrorizzati, non come uscendo dalla vita, ma come se ne fossero tirati fuori! Van gridando di essere stati stolti, tanto da non aver vissuto e se in qualche modo vengono fuori da quella malattia, di voler vivere in pace; allora pensano a quante cose si siano procurate invano, e delle quali non avrebbero fatto uso, come nel vuoto sia caduta ogni loro fatica. Ma per chi la vita trascorre lungi da ogni faccenda, perché non dovrebbe essere di lunga durata? Nulla di essa è affidato (ad altri), nulla è sparpagliato qua e là, nulla perciò è affidato alla fortuna, nulla si consuma per noncuranza, nulla si dissipa per prodigalità, nulla è superfluo: tutta (la vita), per così dire, produce un reddito. Per quanto breve, dunque, è abbondantemente sufficiente, e perciò, quando che venga il giorno estremo, il saggio non esiterà ad andare incontro alla morte con passo fermo. XII. Chiedi forse chi io definisco affaccendati? Non pensare che io bolli come tali solo quelli che soltanto cani aizzati riescono a cacciar fuori dalla basilica [il centro degli affari], quelli che vedi esser stritolati o con maggior lustro nella propria folla [di clienti] o più vergognosamente il quella [dei clienti] altrui, quelli che gli impegni spingono fuori dalle proprie case per schiacciarli con gli affari altrui, o che l’asta del pretore fa travagliare con un guadagno disonorevole e destinato un giorno ad incancrenire [si riferisce alla vendita all’asta dei bottini di guerra e degli schiavi, il cui commercio era ritenuto disonorevole]. Il tempo libero di alcuni è tutto impegnato: nella loro villa o nel loro letto, nel bel mezzo della solitudine, benché si siano isolat da tutti, sono fastidiosi a se stessi: la loro non deve definirsi una vita sfaccendata ma un inoperoso affaccendarsi. Puoi chiamare sfaccendato chi dispone in ordine con minuziosa pignoleria bronzi di Corinto, pregiati per la passione di pochi, e spreca la maggior parte dei giorni tra laminette rugginose? Chi in palestra (infatti, che orrore!, neppur romani sono i vizi di cui soffriamo) siede come spettatore di ragazzi che lottano? Chi divide le mandrie dei propri giumenti in coppie di uguale età e colore? Chi nutre gli atleti (giunti) ultimi? E che? Chiami sfaccendati quelli che passano molte ore dal barbiere, mentre si estirpa qualcosa che spuntò nell’ultima notte, mentre si tiene un consulto su ogni singolo capello, mentre o si rimette a posto la chioma in disordine o si sistema sulla fronte da ambo i lati quella rada? Come si arrabbiano se il barbiere è stato un po’ disattento, come se tosasse un uomo! Come si irritano se viene tagliato qualcosa dalla loro criniera, se qualcosa è stato mal acconciato, se tutto non ricade in anelli perfetti! Chi di costoro non preferisce che sia in disordine lo Stato piuttosto che la propria chioma? Che non sia più preoccupato della grazia della sua testa che della sua incolumità? Che non preferisca essere più elegante che dignitoso? Questi tu definisci sfaccendati, affaccendati tra il pettine e lo specchio? Quelli che sono dediti a comporre, sentire ed imparare canzoni, mentre torcono in modulazioni di ritmo molto modesto la voce, di cui la natura rese il corretto cammino il migliore e il più semplice, le cui dita cadenzanti suonano sempre qualche carme dentro di sé, e di cui si ode il silenzioso ritmo quando si rivolgono a cose serie e spesso anche tristi? Costoro non hanno tempo libero, ma occupazioni oziose. Di certo non annovererei i banchetti di costoro tra il tempo libero, quando vedo con quanta premura dispongono l’argenteria, con quanta cura sistemano le tuniche dei loro amasi [giovani che si vendevano per libidine], quanto siano trepidanti per come il cinghiale vien fuori dalle mani del cuoco, con quanta sollecitudine i glabri [schiavi che si facevano depilare per assumere un aspetto femmineo] accorrono ai loro servigi ad un dato segnale, con quanta maestria vengano tagliati gli uccelli in pezzi non irregolari, con quanto zelo infelici fanciulli detergano gli sputi degli ubriachi: da essi si cerca fama di eleganza e di lusso e a tal punto li seguono le loro aberrazioni in ogni recesso della vita, che non bevono né mangiano senza ostentazione. Neppure annovererai tra gli sfaccendati coloro che vanno in giro sulla portantina o sulla lettiga e si presentano all’ora delle loro passeggiate come se non gli fosse permesso rinunziarvi, e che un altro deve avvertire quando si devono lavare, quando devono nuotare o cenare: e a tal punto illanguidiscono in troppa fiacchezza di un animo delicato, da non potersi accorgere da soli se hanno fame. Sento che uno di questi delicati - se pure si può chiamare delicatezza il disimparare la vita e la consuetudine umana - , trasportato a mano dal bagno e sistemato su una portantina, abbia detto chiedendo: “Sono già seduto?”. Tu reputi che costui che ignora se sta seduto sappia se è vivo, se vede e se è sfaccendato? Non è facile dire se mi fa più pena se non lo sapeva o se fingeva di non saperlo. Certamente di molte cose soffrono in realtà la dimenticanza, ma di molte anche la simulano; alcuni vizi li allettano come oggetto di felicità; sembra che il sapere cosa fai sia tipico dell’uomo umile e disprezzato; ora va e credi che i mimi inventano molte cose per biasimare il lusso. Certo trascurano più di quanto rappresentano ed è apparsa tanta abbondanza di vizi incredibili in questo solo secolo, che ormai possiamo dimostrare la trascuratezza dei mimi. Vi è qualcuno che si consuma a tal punto nelle raffinatezze da credere ad un altro se è seduto! Dunque costui non è sfaccendato, dagli un altro nome: è malato, anzi è morto; sfaccendato è quello che è consapevole del suo tempo libero. Ma questo semivivo, a cui è necessaria una spia che gli faccia capire lo stato del suo corpo, come può costui essere padrone di alcun momento? XIII. Sarebbe lungo enumerare uno ad uno coloro la cui vita consumarono gli scacchi o la palla o la cura del corpo con il sole. Non sono sfaccendati quelli i cui piaceri costano molta fatica.. Infatti di essi nessuno dubiterà che non fanno nulla con fatica, che si tengono occupati in studi di inutili opere letterarie, le quali ormai anche presso i Romani sono un cospicuo numero. Fu malattia dei Greci questo domandarsi quanti rematori abbia avuto Ulisse, se sia stata scritta prima l’Iliade o l’Odissea e inoltre se fossero dello stesso autore, e poi altre cose di questo genere che, se le tieni per te per nulla sono utili ad una silenziosa conoscenza, se le divulghi non sembrerai più istruito ma più importuno. Ecco che ha invaso anche i Romani un vano desiderio di apprendere cose superflue. In questi giorni ho sentito un tizio che andava dicendo quali cose ognuno dei generali romani ha fatto per primo: per primo Duilio vinse in una battaglia navale, per primo Curio Dentato introdusse gli elefanti nella sfilata del trionfo. Ancora queste cose, anche se non mirano ad una vera gloria, almeno trattano esempi di opere civili: questa conoscenza non sarà di utilità, perlomeno è tale da tenerci interessati dalla splendida vanità delle cose. Perdoniamo anche ciò a chi si chiede chi per primo convinse i Romani a salire su una nave - è stato Claudio, proprio per questo chiamato Codice [”caudica” era una barca, ricavata in un tronco, detto “caudex”], perché l’aggregato di parecchie tavole era chiamato “codice” presso gli antichi, per cui i pubblici registri si dicono “codici” e anche ora le navi, che trasportano le derrate lungo il Tevere, per antica consuetudine vengono chiamate “codicarie” - ; certamente anche ciò ha importanza, che Valerio Corvino per primo debellò Messina e fu il primo della gente Valeria ad esser chiamato Messana, avendo trasferito nel suo nome quello della città conquistata, e poi fu detto Messalla avendone il popolo poco alla volta alterato le lettere: ma permetterai anche che qualcuno si occupi del fatto che Lucio Silla per primo presentò nel circo leoni sciolti, quando normalmente venivano esibiti legati, essendo stati inviati dal re Bocco [re della Mauritania] degli arcieri per ucciderli? E si perdoni pure questo: forse che serve a qualcosa di buono che Pompeo per primo abbia allestito nel circo una battaglia di diciotto elefanti opposti come in combattimento a dei condannati? Il primo della città e tra i primi degli antichi, come si tramanda, di eccezionale bontà, considerò un genere di spettacolo degno di esser ricordato il far morire degli uomini in una maniera nuova. “Combattono all’ultimo sangue? È poco. Sono dilaniati? È poco: vengano schiacciati dall’enorme mole degli animali!”. Era meglio che queste cose andassero nel dimenticatoio, affinché in seguito nessun potente imparasse ed invidiasse una cosa del tutto disumana. Quanta nebbia mette avanti alle nostre menti una grande fortuna! Egli allora ritenne di essere al di sopra della natura, esponendo a bestie nate sotto un cielo straniero tante schiere di infelici, organizzando combattimenti tra animali tanto dissimili, spandendo molto sangue al cospetto del popolo Romano, che presto lo avrebbe costretto a versarne di più [si riferisce alla guerra civile di Pompeo contro Cesare]; ma poi, ingannato dalla perfidia alessandrina [il tradimento del faraone Tolomeo, fratello di Cleopatra], si offrì per essere ucciso dall’ultimo schiavo [l’eunuco Achillas, che pugnalò Pompeo a tradimento], capendo solo allora l’inutile vanagloria del proprio soprannome [Magno]. Ma per tornar lì da dove principiai e per dimostrare nella stessa materia il vacuo zelo di certuni, quello stesso narrava che Metello, dopo aver sconfitto in Sicilia i Cartaginesi, fu il solo tra quelli che ottennero il trionfo tra tutti i Romani ad aver condotto davanti al cocchio centoventi elefanti prigionieri; che Silla fu l’ultimo dei Romani ad aver ampliato il pomerio [spazio di terreno, consacrato e lasciato libero, all’interno e all’esterno della cinta muraria di Roma], che mai fu esteso, per antica consuetudine, con l’acquisizione di terreno provinciale, ma italico. Sapere ciò è più utile (che sapere) che il monte Aventino si trova fuori dal pomerio, come quegli asseriva, per uno dei due motivi: o perché la plebe da lì aveva fatto la secessione [nel 494 a.C.], o perché mentre in quel luogo Remo prendeva gli auspici, gli uccelli non avevano dato buoni presagi, e via dicendo altre cose innumerevoli, che o sono farcite di bugie o sono simili a bugie. Infatti, anche ammesso che essi dicano tutto ciò in buona fede, che scrivano cose che sono in grado di dimostrare, tuttavia di chi queste cose faranno diminuire gli errori? Di chi freneranno le passioni? Chi renderanno più saldo, chi più giusto, chi più altruista? Talora il nostro Fabiano diceva di dubitare se fosse meglio non accostarsi a nessuno studio piuttosto che impelagarsi in questi. XIV Soli tra tutti sono sfaccendati coloro che si dedicano alla saggezza, essi soli vivono; e infatti non solo custodiscono bene la propria vita: aggiungono ogni età alla propria; qualsiasi cosa degli anni prima di essi è stata fatta, per essi è cosa acquisita. Se non siamo persone molto ingrate, quegli illustrissimi fondatori di sacre dottrine sono nati per noi, per noi hanno preparato la vita. Siamo guidati dalla fatica altrui verso nobilissime imprese, fatte uscire fuori dalle tenebre verso la luce; non siamo vietati a nessun secolo, in tutti siamo ammessi e, se ci aggrada di venir fuori con la grandezza dell’animo dalle angustie della debolezza umana, vi è molto tempo attraverso cui potremo spaziare. Possiamo discorrere con Socrate, dubitare con Carneade, riposare con Epicuro, vincere con gli Stoici la natura dell’uomo, andarvi oltre con i Cinici. Permettendoci la natura di estenderci nella partecipazione di ogni tempo, perché non (elevarci) con tutto il nostro spirito da questo esiguo e caduco passar del tempo verso quelle cose che sono immense, eterne e in comune con i migliori? Costoro, che corrono di qua e di là per gli impegni, che non lasciano in pace se stessi e gli altri, quando sono bene impazziti, quando hanno quotidianamente peregrinato per gli usci gli tutti e non hanno trascurato nessuna porta aperta, quando hanno portato per case lontanissime il saluto interessato [del cliente verso il patrono, ricompensato in cibarie], quanto e chi hanno potuto vedere di una città tanto immensa e avvinta in varie passioni? Quanti saranno quelli di cui il sonno o la libidine o la grossolanità li respingerà! Quanti quelli che, dopo averli tormentati a lungo, li trascureranno con finta premura! Quanti eviteranno di mostrarsi per l’atrio zeppo di clienti e fuggiranno via attraverso uscite segrete delle case, come se non fosse più scortese l’inganno che il non lasciarli entrare! Quanti mezzo addormentati e imbolsiti dalla gozzoviglia del giorno precedente, a quei miseri che interrompono il proprio sonno per aspettare quello altrui, a stento sollevando le labbra emetteranno con arroganti sbadigli il nome mille volte sussurrato! Si può ben dire che indugiano in veri impegni coloro che vogliono essere ogni giorno quanto più intimi di Zenone, di Pitagora, di Democrito e degli altri sacerdoti delle buone arti, di Aristotele e di Teofrasto. Nessuno di costoro non avrà tempo, nessuno non accomiaterà chi viene a lui più felice ed affezionato a sé, nessuno permetterà che qualcuno vada via da lui a mani vuote; da tutti i mortali possono essere incontrati, di notte e di giorno. XV. Nessuno di essi ti costringerà a morire, tutti (te lo) insegneranno; nessuno di essi logorerà i tuoi anni o ti aggiungerà i propri; di nessuno di essi sarà pericoloso il parlare, di nessuno sarà letale l’amicizia, di nessuno sarà dispendiosa la considerazione. Otterrai da loro qualsiasi cosa vorrai; non dipenderà da essi che tu non assorba quanto più riceverai. Che gioia, che serena vecchiaia attende chi si rifugia in seno alla clientela di costoro! Avrà con chi riflettere sui più piccoli è sui più grandi argomenti, chi consultare ogni giorno su se stesso, da chi udire il vero senza oltraggio, da chi esser lodato senza servilismo, a somiglianza di chi conformarsi. Siamo soliti dire che non era in nostro potere scegliere i genitori che ci sono toccati in sorte: ma ci è permesso nascere secondo la nostra volontà. Vi sono famiglie di eccelsi ingegni: scegli in quale (di esse) vuoi essere accolto; non solo sarai adottato nel nome, ma anche negli stessi beni, che non dovranno essere custoditi né con avarizia né con grettezza: (i beni) diverranno più grandi quanto a più li distribuirai. Costoro ti indicheranno il cammino verso l’eternità e ti eleveranno in quel luogo dal quale nessuno viene cacciato via. Questo è il solo modo di estendere lo stato mortale, anzi di mutarlo in stato immortale. Onori, monumenti, tutto ciò che l’ambizione ha stabilito con decreti o ha costruito con le opere, presto va in rovina, nulla non distrugge e trasforma una lunga vecchiaia; ma non può nuocere a quelle cose che la saggezza ha consacrato; nessuna età (le) cancellerà o (le) sminuirà; quella seguente e poi quelle sempre successive apporteranno qualcosa in venerabilità, poiché appunto da vicino domina l’invidia, più schiettamente ammiriamo quando (l’invidia) e situata in lontananza. Dunque molto si estende la vita del saggio, non lo angustia lo stesso confine che (angustia) gli altri: lui solo è svincolato dalle leggi della natura umana, tutti i secoli gli sono soggetti come a un dio. Passa un certo tempo: lo tiene legato col ricordo; è pressante: se ne serve; sta per arrivare: lo anticipa. Gli rende lunga la vita la raccolta di ogni tempo in uno solo. XVI. Molto breve e travagliata è la vita di coloro che sono dimentichi del passato, trascurano il presente, hanno timori sul futuro: quando saranno giunti all’ultima ora, tardi comprendono, infelici, di essere stati a lungo affaccendati, pur non avendo combinato nulla. E non vi è motivo di credere che si possa provare che essi abbiano una lunga vita col fatto che invochino spesso la morte: li tormenta l’ignoranza in sentimenti incerti, che incorrono in quelle stesse cose che temono; perciò invocano spesso la morte, perché (la) temono. Non è neppure prova credere che vivano a lungo il fatto che spesso il giorno sembri ad essi eterno, che mentre arriva l’ora convenuta per la cena si lamentino che le ore scorrano lentamente; difatti, se talora le occupazioni li abbandonano, ardono abbandonati nel tempo libero e non sanno come disporne e come impiegarlo. E così si rivolgono a qualsiasi occupazione e tutto il tempo che intercorre è per essi gravoso, proprio così come, quando è stato fissato un giorno per uno spettacolo di gladiatori, o quando si attende il momento stabilito di qualche altro spettacolo o piacere, vogliono saltare i giorni di mezzo. Per essi è lungo ogni rinvio di una cosa sperata: ma è breve e rapido quel tempo che amano, e molto più breve per colpa loro; infatti passano da un posto all’altro e non possono fermarsi in un’unica passione. Per essi non sono lunghi i giorni, ma odiosi; ma invece come sembrano brevi le notti che trascorrono nel vino o nell’amplesso delle meretrici! Dsi qui anche la follia dei poeti, che alimentano con le (loro) favole gli errori umani: secondo loro pare che Giove, sedotto dall’amplesso [lett.: addolcito dal piacere], abbia raddoppiato (il tempo di) una notte [è il mito di Alcmena, cui Giove si era presentato sotto le sembianze del marito Anfitrione: raddoppiò la durata della notte, frutto della quale sarebbe stato poi Ercole]. Cosa altro è alimentare i nostri vizi che attribuire ad essi gli dei quali autori e dare al male giustificata licenza mediante l’esempio della divinità? Possono a costoro non sembrare brevissime le notti che acquistano a caro prezzo? Perdono il giorno nell’attesa della notte, la note per paura del giorno. XVII. Gli stessi loro piaceri sono ansiosi ed inquieti per vari timori e subentra l’angosciosa domanda di chi è al massimo del piacere [lett.: di chi massimamente gioisce]: “Fino a quanto ciò (durerà)?”. Da questo stato d’animo dei re piansero la propria potenza, né li consolò la grandezza della propria fortuna, ma li atterrì la fine imminente. Avendo dispiegato l’esercito attraverso enormi spazi di territori e non abbracciandone il numero ma la dimensione, l’orgogliosissimo re dei Persiani [Serse] versò lacrime, perché di lì a cento anni nessuno di tanta gioventù sarebbe sopravvissuto: ma ad essi stava per affrettare il destino proprio lui che (li) piangeva e che ne avrebbe perduti altri in mare, altri in terra, altri in battaglia, altri in fuga ed in breve tempo avrebbe portato alla rovina quelli per i quali temeva il centesimo anno. E pure le loro gioie non sono forse ansiose? Non appoggiano infatti su solide basi, ma sono turbate dalla stessa nullità dalla quale traggono origine. Quali perciò credi che siano i periodi tristi per loro stessa ammissione, quando anche questi (periodi), nei quali si inorgogliscono e si pongono al di sopra dell’umanità, sono poco veritieri? Tutti i beni più grandi sono ansiogeni e non bisogna fidarsi di nessuna fortuna meno che di quella più favorevole: è necessaria nuova felicità per preservare la felicità e si devono fare voti proprio per i voti che si sono esauditi. Infatti tutto quel che avviene per caso è instabile; ciò che assurgerà più in alto, più facilmente (cadrà) in basso. Certamente le cose caduche non fanno piacere a nessuno: è dunque inevitabile che sia penosissima e non solo brevissima la vita di coloro che si procacciano con grande fatica cose da possedere con fatica maggiore. Faticosamente ottengono ciò che vogliono, ansiosamente gestiscono ciò che hanno ottenuto; mentre nessun calcolo si fa del tempo che non tornerà mai più: nuove occupazioni subentrano a quelle vecchie, una speranza risveglia la speranza, un’ambizione l’ambizione. Non si cerca la fine delle sofferenze, ma si cambia la materia. Le nostre cariche ci hanno tormentato: ci tolgono più tempo quelle altrui; abbiamo smesso di penare come candidati: ricominciamo come elettori; abbiamo rinunziato al fastidio dell’accusare: cadiamo (in quello) del giudicare; ha cessato di essere giudice: diventa inquisitore; è invecchiato nell’amministrazione a pagamento dei beni altrui: è tenuto occupato dai propri averi. Il servizio militare ha congedato Mario: (lo) affatica il consolato. Quinzio [Cincinnato] si affanna ad evitare la carica di dittatore [lett.: la dittatura]: sarà richiamato dall’aratro. Scipione marcerà contro i Cartaginesi non ancora maturo per tanta impresa; vincitore di Annibale [a Zama, nel 202 a.C.], vincitore di Antioco [re di Siria, a Magnesia nel 190 a.C.], orgoglio del proprio consolato, garante di quello fraterno [Lucio], se non vi fosse stata opposizione da parte sua, sarebbe collocato accanto a Giove [Scipione rifiutò che la sua statua fosse posta nel tempio di Giove Capitolino]: sommosse civili coinvolgeranno (lui) salvatore dei cittadini e dopo gli onori pari agli dei, rifiutati da giovane, ormai vecchio (lo) compiacerà l’ostentazione di un orgoglioso esilio. Non mancheranno mai motivi lieti o tristi di preoccupazione; la vita si trascinerà attraverso le occupazioni: giammai si vivrà il tempo libero, sempre verrà desiderato. XVIII. Allontànati dunque dalla folla, carissimo Paolino, e ritirati alfine in un porto più tranquillo, spintovi non a causa della durata della vita. Pensa quanti flutti hai affrontato, quante tempeste private hai sopportato, quante (tempeste) pubbliche ti sei attirato; già abbastanza il tuo valore è stato dimostrato attraverso faticosi e pesanti esempi: sperimenta cosa (il tuo valore) può fare senza impegni. La maggior parte della vita, di certo la migliore, sia pur stata dedicata alla cosa pubblica: prenditi un pò di tempo pure per te. E non sto ad invitarti ad una pigra ed inerte inattività, non perché tu immerga quanto c’è in te di vigorosa indole nel torpore e nei piaceri cari al volgo: questo non è riposare; troverai attività più importanti di tutte quelle finora valorosamente trattate, che portai compiere appartato e tranquillo. Tu di certo amministrerai gli affari del mondo tanto disinteressatamente come (di) altri, tanto scrupolosamente come tuoi, con tanto zelo come pubblici. Ti guadagni la stima in un incarico in cui non è facile evitare il malvolere: ma tuttavia, credimi, è meglio conoscere il calcolo della propria vita che (quello) del grano statale. Allontana questa vigoria dell’animo, capacissima delle cose più grandi, da un ufficio sì onorifico ma poco adatto ad una vita serena e pensa che non ti sei occupato, fin dalla tenera età, di ogni cura degli studi liberali perché ti fossero felicemente affidate molte migliaia (di moggi) di grano: avevi aspirato per te a qualcosa di più grande e di più elevato. Non mancheranno uomini di perfetta sobrietà e di industriosa attività: tanto più adatte a portar pesi sono lente giumente che nobili cavalli, la cui generosa agilità chi mai ha oppresso con una gravosa soma? Pensa poi quanto affanno sia il sottoporti ad un onere così grande: ti occupi del ventre umano; il popolo affamato non sente ragioni, non è placato dalla giustizia né piegato dalla preghiera. Or ora, entro quei pochi giorni in cui morì Caio Cesare [Caligola] - se vi è una qualche sensibilità nell’aldilà, sostenendo ciò con animo molto grato, perché calcolava che al popolo Romano superstite rimanessero certamente cibarie per sette o otto giorni -, mentre egli congiunge ponti di navi [Caligola fece costruire un ponte di navi da Baia a Pozzuoli, come ci tramanda Svetonio] e gioca con le risorse dell’impero, si avvicinava il peggiore dei mali anche per gli assediati, la mancanza di viveri; consistette quasi nella morte e nella fame e, conseguenza della fame, la rovina di ogni cosa e l’imitazione di un re dissennato e straniero e tristemente orgoglioso [il re Serse, che costruì un porto sullo stretto dei Dardanelli per la sfortunata spedizione in Grecia]. Che animo ebbero allora quelli a cui era stata affidata la cura del grano pubblico, soggetti alle pietre, al ferro, alle fiamme, a Gaio? Con enorme dissimulazione coprivano un male così grande nascosto tra le viscere e a ragion veduta; infatti alcuni mali vanno curati all’insaputa degli ammalati: per molti causa di morte è stato il conoscere il proprio male. XIX. Rifugiati in queste cose più tranquille, più sicure, più grandi! Credi che sia la stessa cosa se curi che il frumento venga travasato nei granai integro sia dalla frode che dall’incuria dei trasportatori, che non sia madido di umidità accumulata e non fermenti, che sia conforme alla misura e al peso, o se ti accosti a queste cose sacre e sublimi per conoscere quale sia la materia di Dio, quale la volontà, la condizione, la forma; quale condizione attenda il tuo spirito; dove la natura ci disponga una volta usciti dai (nostri) corpi; cosa sia che sostenga ogni cosa più pesante al centro di questo mondo, sospenda al di sopra quelle leggere, sollevi il fuoco in cima, ecciti gli astri nei loro percorsi; e via via le altre cose colme di strabilianti fenomeni? Vuoi, una volta abbandonata la terra, rivolgere l’attenzione a queste cose? Ora, finché il sangue è caldo, pieni di vigore dobbiamo tendere a cose migliori. Ti aspettano in questo genere di vita molte buone attività, l’amore e la pratica delle virtù, l’oblio delle passioni, il saper vivere e il saper morire (lett.: la conoscenza del vivere e del morire), una profonda quiete delle cose. XX. Certamente miserevole è la condizione di tutti gli affaccendati, ma ancor più misera (quella) di coloro che non si danno da fare nemmeno per le loro faccende, dormono in relazione al sonno altrui, camminano secondo il passo altrui, a cui viene prescritto (come) amare e odiare, cose che sono le più spontanee di tutte. Se costoro vogliono sapere quanto sia breve la loro vita, considerino quanto esigua sia la loro quota parte. Perciò quando vedrai una toga pretesta già più volte indossata o un nome famoso nel foro, non provare invidia: queste cose si ottengono a scapito della vita. Affinché un solo anno si dati da loro, consumeranno tutti i loro anni [gli anni si datavano dal nome dei consoli]. Prima di inerpicarsi in cima all’ambizione, alcuni la vita abbandonò mentre si dibattevano tra le prime (difficoltà); ad alcuni, essendo passati attraverso mille disonestà per il raggiungimento della posizione, venne in mente l’amara considerazione di essersi dannati per l’epitaffio; di certuni venne meno l’estrema vecchiaia, mentre come la gioventù attendeva a nuove speranze, indebolita tra sforzi enormi e gravosi. Vergognoso colui che il fiato abbandonò in tribunale, in età avanzata, difendendo litiganti del tutto sconosciuti e cercando l’assenso di un uditorio ignorante; infame colui che stanco del vivere più che del lavorare, crollò tra i suoi stessi impegni; infame colui che l’erede, a lungo trattenuto, deride mentre egli muore dedicandosi ai suoi conti. Non posso tralasciare un esempio che mi sovviene: Sesto Turranio è stato un vecchio di accurata coscienziosità, che dopo i novant’anni, avendo ricevuto inaspettatamente da Caio Cesare [Caligola] l’esonero dalla procura, diede disposizioni di essere composto sul letto e di esser pianto come morto dalla famiglia attorno a lui. Piangeva la casa l’inattività del vecchio padrone e non cessò il lutto prima che gli fosse restituito il suo lavoro. A tal punto è piacevole morire affaccendato? Lo stesso stato d’animo ha la maggior parte: in essi vi è più a lungo il desiderio che la capacità del lavoro; combattono contro la decadenza del corpo, la stessa vecchiaia giudicano gravosa e con nessun altro nome, perché li mette da parte. La legge non chiama sotto le armi a partire dai cinquant’anni, non convoca il senatore dai sessanta: gli uomini ottengono il riposo più difficilmente da se stessi che dalla legge. Nel frattempo, mentre sono rapinati e rapinano, mentre vicendevolmente si tolgono la pace, mentre sono reciprocamente infelici, la vita è senza frutto, senza piacere, senza nessun progresso dello spirito: nessuno ha la morte davanti agli occhi, nessuno non proietta lontano le speranze, alcuni poi organizzano pure quelle cose che sono oltre la vita, grandi moli di sepolcri e dediche di opere pubbliche e giochi funebri (lett.: presso il rogo) ed esequie sfarzose. Ma sicuramente i funerali di costoro, come se avessero vissuto pochissimo, devono celebrarsi alla luce di fiaccole e ceri. CICLO DI VITA
La vita è un'avventura con un'inizio deciso da altri, una fine non voluta da noi, e tanti intermezzi scelti a caso dal caso. Roberto Gervaso CICLO DI VITA INFANZIA SAROYAN WILLIAM, LA COMMEDIA UMANA,
OVERSEAS EDITIONS, Inc New York, 1945
IL PICCOLO Ulisse Macauley stava un giorno tutto intento ad osservare il nuovo buco di talpa, che c'era nel giardinetto dietro casa, a Santa Giara Avenue, in Itaca, cittadina della California. La talpa di questo nuovo buco buttava fuori gran quantità di terriccio fresco e spiava il ragazzine, che era certamente un estraneo, ma non forse proprio un nemico. Prima che Ulisse avesse finito di godersi questo miracolo, uno dei tanti uccelli di Itaca volò dietro il fogliame del vecchio noce, e, preso posto su un ramo, dette la stura alla sua gioia, richiamando così l'attenzione del ragazzo dalla terra all'albero. Un treno merci rombava e sbuffava da lontano. Il ragazzine stette a sentire: la corsa del treno gli faceva tremare la terra sotto ai piedi. B allora scappò di gran corsa, e gli parve di andar più svelto di tutte le cose del mondo. Arrivò proprio in tempo per vedere tutto il treno al passaggio al livello, dalla locomotiva all'ultimo carro. Fece segno con la mano al macchinista, ma quello non si smosse. Fece segno a cinque o sei altri passeggeri, e anche quelli niente. Avrebbero potuto benissimo ricambiar il gesto, ma non lo fecero. E in ultimo, vide un negro che si sporgeva da un carro merci: il suo canto gli giunse sopra il fracasso del treno. «Oh, non piangere, mia cara. Oh, non pianger tutto il dì ! Canteremo una canzone — la canzone della casa, Della nostra vecchia casa — nel lontano Kentucky. » Ulisse fece segno anche al negro, e allora si vide una gran cosa straordinaria, che nessuno mai se la sarebbe aspettata: quell'uomo nero e diverso da tutti gli altri fece segno a lui e gridò: «Vado a casa, ragazzo! Me ne torno a casa mia!» E continuarono a salutarsi con gran gesti, finché il treno quasi non sì vedeva più. A questo punto Ulisse si guardò intorno, ed ecco, vide lì proprio intorno a sé questo suo mondo strano, pieno di gramigne e rottami, meraviglioso, illogico, eppure bellissimo. Un vecchio con un sacco sulle spalle veniva giù lungo la ferrovia. Anche a lui Ulisse mandò un saluto con la mano, ma quello era troppo vecchio e stanco per gradire le espansioni di un ragazzino. Lo guardò come fossero già morti tutti e due. E così Ulisse andò pian piano verso casa, e dentro di sé ascoltava ancora quel treno, e il canto dì quel negro e le allegre parole: «Vado a casa, ragazzo! Me ne torno a casa mia.» Si fermò vicino a un nespolo per ripensarci meglio, prendendo a calci le nespole marce e giallastre, che stavano in terra. E, passato un momento, fece il sorriso specialissimo dei Macauley, quel sorriso gentile, saggio e riservato che dice di sì a tutte le cose. Quando voltò all'angolo e scorse la casa dei Macauley, Ulisse cominciò a saltellare su un piede e poi sull'altro; inciampò e cadde dalla gioia, ma si rimise in piedi e riprese la corsa. La mamma era nel giardinetto a dar da mangiare ai polli, e guardava il suo bambino correre, cascare, rialzarsi, inciampare di nuovo. Svelto ma tranquillo, le venne vicino, e poi andò a cercare le uova nel cesto delle galline. Ne trovò uno. Lo guardò ben bene per \in momento, lo prese, lo portò alla mamma, e glielo porse cautamente; e con questo intendeva dire una cosa che nessun uomo può indovinare e nessun bambino può ricordare per raccontarla poi. CICLO DI VITA INFANZIA SAROYAN WILLIAM, LA COMMEDIA UMANA,
OVERSEAS EDITIONS, Inc New York, 1945
Che cos'è che tieni in mano? Una lettera? Ho finito di parlare. Via, leggi la tua lettera, ragazzo.» «E una lettera di mio fratello Marco,» disse Omero". «Non ho ancora avuto un momento per aprirla.» «Aprila dunque,» disse il vecchio telegrafista. «Leggi la lettera di tuo fratello. Leggila ad alta voce.» «Vuoi sentire quello che dice, signor Grogan?» disse Omero. «Sì, se non ti dispiace, mi farebbe molto piacere di sentirla, » disse il vecchio telegrafista, e fece un'altra bevuta. Omero lacerò la busta, tirò fuori la lettera di suo fratello Marco, la spiegò, e cominciò a leggere molto lentamente. «Caro Omero» — lesse. «Prima di tutto, ogni cosa che mi appartiene in casa è tua ormai — da dare poi a Ulisse quando tu non saprai più che fartene: i miei libri, il grammofono, i dischi, i miei vestiti quando ti staranno, la bicicletta, il microscopio, gli arnesi da pesca, la collezione di minerali e tutte le altre cose che mi appartengono son tue. Le cedo a te, piuttosto che a Bellina, perché ora sei tu l'uomo della famiglia Macauley di Itaca. Quello che ho guadagnalo l'anno scorso alla fabbrica, l'ho dato alla Mamma, naturalmente, per essere d'aiuto in casa. So però che non può minimamente bastare, e presto la mamma e Bellina penseranno di mettersi a lavorare. Non ti posso chiedere di impedirglielo, ma spero che penserai da te a non permetterglielo. Credo che lo farai, perché io pure farei così. Certo la Mamma vorrà andare a lavorare e Bellina pure. Ma questa sarà per te una ragione di più per opporti. Non so come farai tu a mandare avanti la baracca e a, studiare nello stesso tempo, ma ho fiducia che troverai la maniera. La Mamma riceve la mia paga di soldato, salvo qualche dollaro che devo tenere per me, ma questi quattrini non possono bastare. M'è difficile chiedere tanto a te, quando io stesso non ho cominciato a lavorare prima di diciannove anni; ma ho una strana fiducia che tu sarai capace di fare quello che non è riuscito di fare a me. Tu mi manchi molto, si capisce, e penso a te costantemente. Sono sereno, e anche se non ho mai creduto nelle guerre, — e so che sono assurde, anche quando sono necessarie, — sono orgoglioso di servire il mio paese, che per me significa Itaca, la nostra casa e tutti i Macauley. Non riconosco nemici al mondo, perché nessun essere umano può essere mio nemico. Chiunque esso sia, di qualunque colore abbia la pelle, per quanto errate possano essere le sue opinioni, mi è amico, e non nemico, perché egli non è diverso da me. Io non ce l'ho con lui, ma con quella parte di lui che prima di tutto cerco di distruggere in me stesso. Non mi sento un eroe. Non sono portato a sentimenti di questo genere. Non odio nessuno. Non mi sento neanche patriottico, perché è naturale per me amare il mio paese, i suoi abitanti, le sue città, la mia casa e la mia famiglia. Preferirei non essere soldato. Preferirei che non ci fossero guerre, ma siccome sono soldato e siccome una guerra c'è, è da un pezzo che mi sono proposto di fare il possibile per essere un buon soldato. Non so affato che cosa mi aspetti, ma qualunque cosa sia, sono umilmente pronto ad accettarla. Ho una gran paura — te lo devo dire; ma so che quando verrà il momento, farò il mio dovere, e forse anche un po' più del mio dovere; ma voglio che tu sappia che io non obbedisco a nessun comando, ma solo a quello che mi comanda il cuore. Mi faranno compagnia ragazzi di tutta l'America, di migliaia di città come Itaca. Potrei morire in questa guerra. Devo farmi coraggio e dirtelo. Non mi piace per niente l'idea di morire. Più di ogni altra cosa al mondo desidero tornare a Itaca, e vivere molti, molti anni con te, con mia madre, mia sorella e mio fratello. Desidero tornare per Maria e per la casa e la famiglia che metteremo su insieme. E probabile che si parta presto — per il fronte. Non si sa quale fronte, ma è sicuro che partiremo presto. Può darsi quindi che tu non riceva più lettere mie per un pezzo. Spero però che questa non sia la mia ultima lettera. Se così fosse, sentimi vicino lo stesso. Non credere che io sia andato via per sempre. Fa che gli altri rron lo credano. Ho un amico qui che è orfano — un trovatello; è strano che fra tutti i ragazzi proprio lui sia diventato mio amico. Si chiama Tobey George. Gli ho parlato di Itaca e della nostra famiglia. Un giorno lo porterò a Itaca con me. Quando leggerai questa lettera, non essere triste. Sono contento di essere io quello dei Macauley che è in guerra, perché sarebbe peccato, e non sarebbe giusto, che fossi tu. Posso scriverti ora quello che non ti ho mai potuto dire a voce. Tu sei il migliore dei Macauley. Devi seguitare ad essere il migliore. Niente te lo deve impedire. Hai quattordici anni, ora, ma devi vivere fino a venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta. E negli anni della tua vita, devi vivere per l'eternità. Credo che lo farai. Io ti guarderò sempre. Tu rappresenti quello per cui noi combattiamo. Sì, tu, mio fratello. Come potrei dirti queste cose, se fossimo insieme? Tu mi salteresti addosso e ti metteresti a far la lotta con me, e diresti che son pazzo; ma malgrado tutto, quello che ho detto è vero. Ora scriverò qui il tuo nome, perché tu te ne ricordi: Omero Macauley. Ecco quello che sei. Mi manchi molto. Non vedo l'ora di rivederti. Quando questo si avvererà, quando saremo di nuovo insieme, faremo la lotta, e mi lascerò buttare a terra da te in salotto, davanti alla Mamma e a Bettina e. a Ulisse, e forse anche a Maria; ti lascerò vincere, perché sarò tanto felice di rivederti. Dio ti benedica. Addio. Tuo fratello, Marco. » cinema film La cinematografia è un nuovo modo di scrivere, e quindi ha una sensibilità altra, un altro movimento interiore. Non si tratta di "arte di serie B" o di sintesi succedanea rispetto a teatro, letteratura o pittura, ma della scoperta di altri mondi dentro di noi. CINEMA LETTERATURA Non è un paese per vecchi: "Joel & Ethan Coen: così hanno tradito un grandissimo libro e ne hanno fatto un grandissimo film" da Biblioteca di Garlasco di Silvana "Non è un paese per vecchi è il primo verso di una poesia di William Butler Yeats intitolata Sailing to Byzantium, in cui il poeta irlandese immortala le generazioni destinate a scomparire e parla di 'ciò che è passato, sta passando e sta per venire'.
Quando lo ha scelto come titolo del suo penultimo romanzo, Cormac McCarthy ha utilizzato il verso per commentare lo stato d'animo del suo protagonista, lo sceriffo Ed Tom Bell, un uomo prossimo alla vecchiaia, che parla ripetutamente del tempo passato e pronuncia frasi come: 'Ero sceriffo di questa contea quando avevo venticinque anni'. Chiamati da Scott Rudin a dirigere l'adattamento cinematografico del romanzo, Joel ed Ethan Coen hanno immaginato subito per il ruolo dello sceriffo un attore carismatico come Tommy Lee Jones, ma hanno modificato il personaggio: il libro, che racconta il violentissimo inseguimento di un cacciatore che si imbatte in una valigia con due milioni di dollari, da parte di un assassino psicopatico, un bounty killer e vari narcotrafficanti, è punteggiato dal diario dello sceriffo, che riflette sul male e sulla sua misteriosa natura. Il film è molto fedele al libro sul piano del plot, ma minimizza le riflessioni filosofiche del protagonista, che compaiono in una voce off iniziale e sono integrate in alcuni dialoghi. Non si tratta solo di una scelta tesa a spettacolarizzare l'adattamento cinematografico (il primo nella carriera dei Coen): a differenza di McCarthy, i due registi non sono interessati a riflettere sul perché esista la violenza, ma ne sembrano, invece, affascinati e risolvono la storia sul piano delle immagini forti e dei dettagli apparentemente insignificanti che risultano però rivelatori, degli effetti sorprendenti. Fanno, in altre parole, del grande, grandissimo cinema, che esalta le potenzialità drammaturgiche di una caccia all'uomo avvincente dal primo all'ultimo fotogramma, ma rischia di tradire l'essenza più intima e dolente del romanzo del grande scrittore americano. Non è un paese per vecchi, che ha ottenuto meritatamente otto candidature all'Oscar, è stato girato nei luoghi descritti nel romanzo, tra il New Mexico e il confine meridionale del Texas. E' l'area semidesertica dove è già stata ambientata la trilogia della frontiera di McCarthy e in cui, sulla montagna più alta, campeggia enorme la scritta 'La Bibbia è la verità, leggila'. E' un mondo in cui gli abitanti vivono costantemente alla presenza della morte e i Coen immortalano questa condizione negli sguardi disincantati dei protagonisti, nell'ironia senza speranza e nelle esplosioni di crudeltà senza senso. Una battuta chiave è: 'Non puoi fermare quello che sta arrivando'. [...] Ma l'invenzione più affascinante e azzardata è quella relativa al personaggio di Anton Chigurh. Fedeli all'insegnamento di Hitchcock, secondo cui più è riuscito il cattivo più è riuscito il film, i Coen hanno dedicato la massima attenzione a questo assassino psicopatico, che hanno trasformato nel vero protagonista. [...] Chigurh è una raffigurazione del male assoluto e risulta spaventoso proprio grazie alla scelta di farlo agire goffamente: il totale distacco con cui uccide, che si alterna a lampi di furia assassina, ne fanno uno dei malvagi più memorabili della storia del cinema. Il film ha un altro elemento vincente: non ha alcun commento musicale. I Coen non hanno mai fatto un cinema realistico, e anche in questo caso non cercano l'effetto verità: è la natura a parlare, con i suoi suoni esterni, e insieme a essa il fragore delle armi. Il panorama che si estende sconfinato intorno ai protagonisti, filmato con colori solenni da Roger Deakins, sembra identico a quello di milioni di anni fa, ma l'intervento dell'uomo porta costantemente volgarità e degrado. In quella vasta area bruciata dal sole, dove un flusso di clandestini attraversa ogni giorno il Rio Grande, gli uomini si massacrano per una volontà di dominio che nega la dimensione del sogno e dell'emancipazione sociale. In un universo così degradato non può che trionfare il diabolico Anton Chigurh: lui non ha né sogni, né ambizioni, e testimonia l'ineluttabilità del male in un mondo che ha scelto le tenebre. E' questo il motivo per cui 'non è un paese per vecchi': chiunque abbia a cuore valori o sentimenti è destinato a soccombere, e solo lo sceriffo Bell sa che il passato non è necessariamente migliore del presente, ma porta almeno con sé la dignità del vissuto." (da Antonio Monda, Joel & Ethan Coen: così hanno tradito un grandissimo libro e ne hanno fatto un grandissimo film, "Il Venerdì di Repubblica", 15/02/'08) "No Country for Old Men: Texas Noir" (da NYTimesBooks) "No Country For Old Men: Are the Coens finally growing up?" (da Telegraph.co.uk) CITARE "ripetere gli scritti gli uni degli altri, servono da strumenti a questo Spirito per dare al mondo opere sempre nuove. E se le anime sapessero sottoporsi a quest'azione, la loro vita non sarebbe che una continuazione delle divine scritture, le quali si esprimono fino alla fine del mondo non più con l'inchiostro e sulla carta, ma nei cuori."
J.P. de Caussade, L'abbandono alla divina provvidenza, (proposta da Prisma) citare Perché citare? I motivi sono due: la modestia e l'orgoglio. Si cita per modestia, riconoscendo che la giusta convinzione che condividiamo è stata originata da altri e che noi siamo arrivati dopo. Si cita per orgoglio, poiché è più dignitoso e più cortese, secondo quanto disse Borges (mi perdoneranno la citazione?), andare orgogliosi delle pagine che si sono lette che non di quelle che si sono scritte […] citare è un altro modo di dire "non ho vissuto invano" (in questo caso "non ho letto invano") e anche "stavo pensando a te" citazioni Citazione: motivo linguistico, figurativo o sonoro tratto da un contesto estraneo, quindi facilmente riconoscibile, e inserito in un contesto attuale. La citazione è uno dei concetti con cui convenzionalmente si indica la memoria intertestuale dei testi nella filologia tradizionale. Un altro "interlocutore", assente, viene destato ed evocato nel proprio discorso. Nel Medioevo e nell'Antichità si citava "a senso", non letteralmente - e quindi propriamente in modo "errato" - invece, a partire dal XVI secolo, le virgolette indicano la letteralità dell'estratto. Attraverso la citazione un testo dichiara di richiamarsi all'autorità di un altro e interpreta un presente trascorso come tuttora efficace. La citazione è una modalità di formazione della memoria attraverso la ripetizione. Essa è attestata e messa a disposizione in raccolte o antologie di citazioni, i "luoghi", in cui la circolazione della citazione si sedimenta ed emerge la tensione tra ripetitività e ricercatezza. Nella misura in cui la citazione fa tornare presente il passato inserendolo in un nuovo contesto essa può fungere da caso paradigmatico, o addirittura da modello del ricordo in generale. La facile citabilità e la dignità di citazione indicano due aspetti della citazione come modalità di trasmissione culturale.
Il primo aspetto corrisponde alla forma con cui qualcosa si insinua nella memoria. Si indica con essa una sorta di posteriorità di ciò che viene ricordato: tale posteriorità non è un presupposto, ma piuttosto un effetto della citazione
Il secondo aspetto è un modo dell''auctoritas, di quell'autorità che attraverso la citazione viene chiamata in causa e così trasferita sulla citazione stessa. L'atto di citare esibisce e dimostra il suo presupposto: la disponibilità di ciò che viene richiamato e ripetuto e l'autorità del discorso citato. Ciò che viene presentificato nella citazione racchiude un presente che solo la citazione conquista e che non è dato prima della ripetizione in essa: una presenza che si da a posteriori, postuma. Nella citazione l'evocazione del ricordo è un "travisare", il contesto da cui la citazione è tratta viene spezzato e la citazione ne viene estrapolata per poter essere conservata e quindi poter tornare in uso. W. Benjamin ha proposto una formula per indicare questo nesso di distruzione e permanenza: «alcuni tramandano le cose rendendole intangibili e conservandole, altri le situazioni, mettendole a disposizione e liquidandole» (in II carattere distruttivo). In quanto citazioni le parole o le frasi sono svincolate dal contesto in cui generano senso. Trasferito e inserito in un'altra costellazione ciò che viene citato diviene leggibile tramite il testo in cui è citato, stabilendo nuove connessioni e acquisendo un nuovo contesto. Anche la scrittura della storia può essere definita - in senso lato - come una forma di «citazione» attraverso cui «quello che di volta in volta è l'oggetto storico viene strappato al suo contesto» (Benjamin, I passages di Parigi) e in tal modo conservato per divenire finalmente leggibile. La dignità di citazione e la facile citabilità impostano la differenza fra la consacrazione di un nome attraverso la citazione e l'anonimità della citazione. Come topos, fra l'attribuzione di autorità attraverso la voce di una personalità del passato e l'anonimato di ciò che viene semplicemente ripetuto. Ciò che viene citato abbastanza di frequente non esige più alcuna autorità alle spalle, ma piuttosto una ricorrenza, che lo rende un luogo comune, e una ripetibilità (meme). Il "detto proverbiale" può anche aver conservato nel lessico delle citazioni il riferimento alla fonte originaria , tuttavia, più è proverbiale, meno fa riferimento a quest'origine. La citazione è una cerniera fra passato e presente nella misura in cui interrompe il discorso presente per richiamare il passato e inserirlo come frammento. La condizione interessa il discorso attuale, ma mantiene lo stesso la possibilità, che le aleggia intorno come uno spettro, di un'ulteriore penetrazione del testo attraverso altri discorsi.
In: Nicolas Pethes, Jens Ruchatz (edizione italiana a cura di Andrea Borsari, Dizionario della memoria e del ricordo, Bruno Mondadori, 2002, pagg. 87-89 città amsterdam Amsterdam
A portarmi fu il caso tra le nove e le dieci d’una domenica mattina svoltando a un ponte, uno dei tanti, a destra lungo il semigelo d’un canale. E non questa è la casa, ma soltanto – mille volte già vista – sul cartello dimesso: “Casa di Anna Frank”.
Disse più tardi il mio compagno: quella di Anna Frank non dev’essere, non è privilegiata memoria. Ce ne furono tanti che crollarono per sola fame senza il tempo di scriverlo. Lei, è vero, lo scrisse. Ma a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale continuavo a cercarla senza trovarla più ritrovandola sempre. Per questo è una e insondabile Amsterdam nei suoi tre quattro variabili elementi che fonde in tante unità ricorrenti, nei suoi tre quattro fradici o acerbi colori che quanto è grande il suo spazio perpetua, anima che s’irraggia ferma e limpida su migliaia d’altri volti, germe dovunque e germoglio di Anna Frank. Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam.
Vittorio Sereni CLASSICI PERCHE' LEGGERE I CLASSICI
Nel 1981 Calvino pubblicò un breve saggio sul perchè leggere i classici (e su cosa si debba intendere per un "classico").
1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito "sto rileggendo..." e non "sto leggendo..."
2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli
3. I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale
4. D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima
5. D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura
6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire
7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume)
8. Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso
9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscere per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti
10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani
11. Il "tuo" classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui
12. Un classico è un libro che viene prima degli altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia
13. E' classico tutto ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno
14. E' classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona.
Italo Calvino. Da "Perchè leggere i classici", 1981
==================== Sulla lettura: Il decalogo dei diritti del lettore Non l'ho letto e non mi piace Contorsioni di una lettrice Tecniche di sopravvivenza di una lettrice comune L'arte di non leggere complotto contro l'America di PattyBruce
"Il complotto contro l'America" - Philip Roth - Einaudi ET - pagg. 410 - €. 12,80
Philp Roth si cimenta nel romanzo ucronico, quel genere che si potrebbe chiamare "fantastoria" perché reinventa la Storia tramite la modificazione di alcuni avvenimenti, che danno il via ad una catena di conseguenze possibili, che nella realtà non si sono mai verificate (un altro esempio famoso di romanzo ucronico è "La svastica sul sole" di P.K.Dick).
Stati Uniti 1940: alle elezioni presidenziali C.A. Lindbergh, noto isolazionista e filonazista (nonché eroe dell'aeronautica che trasvolò per primo l'oceano a bordo dello "Spirit of St.Louis") ottiene una vittoria schiacciante contro F.D. Roosevelt, che si candida per il suo terzo mandato presidenziale. Da questo momento inizia il calvario per gli ebrei americani, e la famiglia del piccolo Philip viene travolta da una serie di tragedie a catena.
Tutto plausibile, tutto possibile, narrato dal punto di vista di un bambino e della sua comunissima famiglia di ebrei americani, che sono e si sentono americani come chiunque altro e vivono la loro semplice esistenza strettamente legata ai loro vicini a Newark, in un quartiere quasi totalmente abitato da ebrei. Riflettendo, ho pensato che se non avessi saputo nulla della Storia degli ultimi 68 anni, avrei creduto che questa fosse una storia vera, testimonianza di chi ha vissuto un periodo particolarmente cupo e pericoloso. Come sempre, la capacità di Roth di creare e descrivere personaggi straordinari nella loro semplicità, mi incanta, e il suo stile di scrittura mi trasporta letteralmente in altri luoghi ed in altri tempi. comunicare "Parliamoci chiaro" Ho sempre temuto questa frase, che non è mai un invito alla trasparenza, ma l'apertura delle ostilità comunicare asimmetria comunicativa Ad rivum eundem Lupus et Agnus venerant siti compulsi: superior stabat Lupus, longeque inferior Agnus: tunc fauce improba latro incitatus jurgii causam intulit. Cur, inquit, turbulentam fecisti mihi istam bibenti? Laniger contra timens, qui possum, quaeso, facere quod quereris, Lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor. Repulsus ille veritatis viribus, ante hos sex menses male, ait, dixisti mihi. Respondit Agnus: equidem natus non eram. Pater hercle tuus, inquit, maledixit mihi. Atque ita correptum lacerat injusta nece. Haec popter illos scripta est homines fabula, qui ficti caussi innocentes opprimunt.
Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, si ritrovarono a bere nello stesso ruscello. Il lupo era più a monte, mentre l'agnello beveva a una certa distanza, verso valle. La fame però spinse il lupo ad attaccar briga e allora disse: "Perché osi intorbidarmi l'acqua?" L'agnello tremando rispose: "Come posso fare questo se l'acqua scorre da te a me?" "E' vero, ma tu sei mesi fa mi hai insultato con brutte parole". "Impossibile, sei mesi fa non ero ancora nato". "Allora" riprese il lupo "fu certamente tuo padre a rivolgermi tutte quelle villanie". Quindi saltò addosso all'agnello e se lo mangiò. Questo racconto è rivolto a tutti coloro che opprimono i giusti nascondendosi dietro falsi pretesti.
Il lupo e l'agnello Lupus et agnus di Fedro comunicare film Fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell'infanzia comunicare film Il senso di un film è incorporato al suo ritmo come il senso di un gesto è immediatamente leggibile nel gesto, e il film non vuoi dire nient'altro che se stesso. [...] È la felicità dell'arte di mostrare come qualcosa diventi significato [...] grazie alla disposizione temporale o spaziale degli elementi. comunicare lingue straniere non utilizzare mai un'espressione straniera, un termine scientifico o una parola difficile se puoi trovare l'equivalente nel linguaggio quotidiano comunicare TELEVISIONE La televisione è un'invenzione che vi permette di farvi divertire nel vostro soggiorno da gente che non vorreste mai avere in casa COMUNICAZIONE E’ facile dire: “Eccomi!” - Bisogna anche esserci.
Stanisław Jerzy Lec, Pensieri spettinati comunicazione ascolto Barthes ha distinto tra tipi di ascolto: quello degli indizi sonori, dei nostri progenitori, animali e primati: l'ascolto come allarme. L'ascolto come decifrazione: è l'ascolto dell'uomo, decifra e interpreta. E l'ascolto «applicato»: l'atto intenzionale dell'ascolto, fenomeno del tutto moderno. Questo tipo di ascolto, quello contemporaneo, è tuttavia ancora un ascolto panico: aperto a tutte le forme di ascolto. Qui siamo vicini all'ascolto delle spie, delle talpe. Parlando di questo terzo ascolto Barthes ha scritto che non c'è più da una parte chi si confida, confessa, e dall'altra chi ascolta, tace, sanziona, valuta: ciascuno è nello stesso tempo ascoltato e a sua volta ascolta. La contemporaneità è dunque il paradiso delle spie? Barthes parla di «ascolto libero», un ascolto che circola e scambia, quindi disgrega con la sua mobilità la rete rigida degli antichi luoghi d'ascolto: il carcere, il confessionale, la camera da letto. COMUNICAZIONE CONVERSAZIONE le discussioni pacate sono quelle che prediligo perchè sono certamente più costruttive. Si può pensare in maniera opposta ma discutere in modo civile, così si riesce a trovare sempre un punto di contatto.
Come posso evito le polemiche fini a se stesse perchè non aggiungono niente, di solito. COMUNICAZIONE CONVERSAZIONE CONFLITTI "Per esercitare la nostra umiltà e pazienza Dio si serve di persone che ci fanno male. Un giorno vedremo quanto ci sono utili coloro che ci crocifiggono."
Jacques Bénigne Bossuet COMUNICAZIONE internet RETE Milano, 5 giugno 2007
Nell’era delle tecnologie il 52% degli italiani non usa ancora Internet. E parliamo di qualcosa come 26.6 milioni di italiani. Se poi si analizza quel 31% che rappresenta la reale “avanguardia tecnologica” si assiste ad un’ulteriore suddivisione: a fronte di un 14% della popolazione (qualcosa come 7.4 milioni di italiani) che abbina un uso consapevole, interattivo ed evoluto delle tecnologie con un’elevata propensione al consumo di contenuti culturali (sono i cosiddetti Eclettici), troviamo un 17%, pari a 8.9 milioni di italiani (i cosiddetti Technofan) che utilizzano le tecnologie per lo più in modo passivo, come svago o per comunicare. Dai dati che emergono dall’indagine probabilmente questo gap rischia nel futuro di aumentare.
E’ questa la fotografia (in allegato la sintesi) tracciata da ACNielsen nell’indagine “Liquidi e mutanti. Industrie dei contenuti & consumatori digitali” commissionata dall’Osservatorio permanente sui contenuti digitali, presentata oggi a Roma. La ricerca è stata realizzata su un campione rappresentativo della popolazione italiana di 8.500 individui con più di 14 anni per la parte quantitativa e su specifici focus group per cinque tipologie di utilizzatori di contenuti (dai 13 ai 50enni) per la parte qualitativa. Cosa ne è emerso?
Gli italiani un popolo con bassa propensione alla cultura e tecnologicamente poco evoluti? Ad orientare gli utenti verso un utilizzo evoluto e interattivo delle nuove tecnologie (più cultura=uso più consapevole ed evoluto delle tecnologie) non è tanto la disponibilità o l’uso frequente delle tecnologie nuove e di tendenza: la tecnologia di per sé costituisce uno strumento neutro. Quello che fa la differenza è l’abitudine alla fruizione di consumi culturali. Maggiore è il consumo di cultura e maggiore è la propensione all’uso di tecnologie innovative: sono gli Eclettici, forti lettori, alti acquirenti di musica e DVD e consumatori di cinema, i più forti utilizzatori delle potenzialità offerte dal Web 2.0.
I forti fruitori di programmi TV tendono invece a un consumo tecnologico ridotto: più che di digital divide è quindi più corretto parlare di cultural divide. Non emergono nemmeno grandi differenze tra Nord e Sud, conta invece molto di più se si vive in una grande città o in un piccolo centro.
E il futuro? Uso evoluto delle tecnologie e forti consumi culturali sono strettamente legati: dall’indagine emerge chiaramente però che - ed è questo il segnale più preoccupante - anche i genitori tecnologicamente più avanzati, non riescano a trasmettere la passione per la cultura ai figli, che, di conseguenza sempre di più, utilizzeranno le tecnologie come puro gadget. Anche i figli di genitori Eclettici, legati cioè alle tecnologie e alla cultura, stanno migrando nel gruppo dei Technofan, sicuramente emancipati in fatto di tecnologia, ma poco dotati di strumenti culturali che permettano loro di controllarla e gestirla.
Le ragazze hanno più confidenza con le tecnologie? Un segnale positivo viene dalle più giovani: non solo le 14- 24enni usano Internet quanto i loro colleghi maschi ma l’utilizzo settimanale di forum e blog vede un’incidenza superiore tra le donne giovani (14-24 anni) rispetto ai loro coetanei maschi (43% vs 35% tra le 14-19enni e 28% vs 19% tra le 20-24enni, base utilizzatori internet), probabilmente per maggior bisogno confronto e condivisione. A partire dai 25 anni sono invece i maschi ad essere maggiori utilizzatori. Al contrario l’utilizzo di sistemi di file sharing risulta un “fatto maschile” in tutte le fasce d’età.
Le piattaforme più utilizzate: (almeno una volta alla settimana) il PC con DVD (39%) e il cellulare conMP3/video/fotocamera (33%), seguito dal lettore DVD (26%). Lettore MP3/i-Pod e TV LCD/al plasma seguono con il 15%. Sistemi di messaggistica istantanea (Messenger, Skype) e forum/blog sono i servizi Internet più frequentemente utilizzati: lo usano almeno una volta la settimana rispettivamente il 27% e il 22% degli utilizzatori di internet.
Gli acquisti di contenuti online: fenomeno emergente. L’acquisto di CD, DVD e libri avviene ancora massicciamente offline. L’online è un fenomeno ancora contenuto che interessa ad oggi circa il 10% degli heavy user di internet, coloro che si connettono da casa tutti i giorni o quasi (e il 3% se riportato alla popolazione italiana nel suo complesso). Il ruolo di internet è ancora solo emergente con la parziale eccezione del P2P per la musica (15% della popolazione) e i video (11% della popolazione) ok. Il free download per la musica si attesta all’8% della popolazione.
“L’indagine evidenzia in modo chiaro che l’utilizzo consapevole ed evoluto delle tecnologie dipende in gran parte dagli strumenti culturali di cui gli utilizzatori sono dotati – ha sottolineato il presidente del Gruppo Editoria Digitale di AIE, Fernando Folini – Solo creando condizioni per il loro sviluppo sarà possibile sfruttare e sviluppare al meglio le opportunità che le innovazioni man mano presenteranno. Per questo AIE, AIDRO, FIMI, UNIVIDEO e CINECITTÁ HOLDING hanno scelto di dare vita ad un osservatorio permanente. Da questi dati ripartiamo, non solo per avvicinare la cultura e i contenuti culturali in digitale ai giovani e meno giovani, ma anche per capire come sensibilizzare al meglio gli italiani su temi delicati per noi irrinunciabili come la tutela del diritto d’autore”.
IN http://www.acnielsen.it/news/Osservatorio.shtml comunicazione nemico Diffama sempre il tuo nemico. Vedrai che qualcosa resta nella memoria della gente. Francis Bacon comunicazione parole amare le parole col gusto che il musicista ha per i suoni ed i timbri, il pittore per i colori e gli impasti, lo scultore per le forme e la pelle della materia COMUNICAZIONE SCRITTURA AFORISMA L’aforisma è una breve frase che esprime in modo conciso e sostanzioso riflessioni e considerazioni personali, basate su una lunga esperienza di vita e un’attenta osservazione della realtà (dal greco aphorizein, delimitare). Fa parte, sin dall’epoca classica, di una famiglia di forme brevi del modo «gnomico» o moraleggiante: il proverbio, la sentenza, la massima, l’epigramma. Si distingue dalle forme più vicine, come il proverbio, perché non vuol essere espressione di un’esperienza generale, e la sentenza (o massima), perché è più sciolto, arguto, soggettivo. Fra le sue caratteristiche stilistiche: l’uso di figure come l’antitesi, il paradosso, l’enfasi, l’iperbole. Spesso presenta anche una certa ambiguità e allusività; il che significa che l’aforisma si presenta al lettore non come forma chiusa in sé, ma sollecitandolo a lasciarsi coinvolgere, a contribuire con una propria riflessione. Gli aforismi sono a volte raccolti per temi (come avviene nelle opere di Kraus e di Nietzsche), oppure senza nessun ordine, come «frammenti di pensieri» posti l’uno accanto all’altro. Già praticati nella letteratura classica e in quella europea del passato (hanno spesso un carattere aforistico, per esempio, i Ricordi di Guicciardini, i Saggi di Montaigne, i Pensieri di Pascal), gli aforismi sono divenuti un modo d’espressione tipico di quegli scrittori moderni che privilegiano l’esperienza soggettiva e intuitiva del pensiero, preferiscono la penetrazione al sistema, rifiutano i valori stabiliti e chiusi e le grandi costruzioni filosofiche (F.Schlegel, A. Schopenauer, F.Nietzsche, S.Kierkegaard, P.Valéry, K.Kraus, R.Musil, W.Benjamin, T.W.Adorno).
da REMO CESERANI - LIDIA DE FEDERICIS, Il materiale e l’immaginario. Laboratorio di analisi dei testi e di lavoro critico, 8 tomo primo, LOESCHER EDITORE 1982, pag.434 COMUNICAZIONE SILENZIO Parole sceme, orecchie sorde
proverbio sardo ricordato da Beppe Pisanu CONCETTI I regimi di funzionamento delle opposizioni concettuali (cfr. concetto) sono differenti nel mito (cfr. natura/cultura e anthropos, maschile/femminile, caos/cosmo, natura e mythos/logos), nelle filosofie (cfr. essere, identità/differenza, filosofia/filosofie) e nel pensiero scientifico (cfr. astratto/concreto, qualità/quantità conoscenza, scienza), e si diversificano ancora in rapporto alle configurazioni storiche del sapere. Ma, in quanto forma fondamentale del pensiero categoriale (cfr. categorie/categorizzazione e sistematica e classificazione), le opposizioni concettuali informano nello stesso tempo quelle configurazioni. La loro classificazione, dalle simmetrie (cfr. simmetria) fino alle contraddizioni (cfr. opposizione/contraddizione), deve tener conto di quest’ambiguità che è loro costitutiva; essa si forma da un lato a partire dalla logica della negazione e dalle corrispondenti figure di mediazione (cfr. dialettica), dall’altro collegando le opposizioni a coppie di intuizioni semantiche soggiacenti al discorso e alla cognizione (cfr. semantica), in particolare: continuo/discreto, analogico/digitale, metaforia/metonimia, analisi/sintesi, integrazione e differenziamento, uno/molti.
[ Sintesi della voce Coppie filosofiche, curata da Fernando Gil, Enciclopedia 3, pp.1050-1095 ] CONOSCENZA SINTESI DELLA VOCE CONOSCENZA, CURATA DA FERNANDO GIL
Volume 3° dell’Enciclopedia Einaudi, pp.778-805
La problematicità della conoscenza è associata alle modalità della sua trasmissione: così, le forme della conoscenza possono essere disposte attorno alla grande opposizione orale/scritto, alla luce della quale si descriverà il passaggio storico da una conoscenza basata sulla parola (magari consegnata in un libro sacro: un libro che parla) a un sapere socialmente mediato attraverso la scrittura (cfr. anche esoterico/essoterico). La conoscenza moderna si basa sulla produzione di un sapere cumulativo e sistematico (cfr. sistematica e classificazione), universale ed astratto (cfr. in generale astratto/concreto, analisi/sintesi) ben diverso da quello consegnato nelle antiche discipline (cfr. disciplina/discipline). Preannunziata dalla ricerca medievale e rinascimentale di un metodo la conoscenza moderna ha trovato la sua figura più propria nella scienza, e il suo veicolo di trasmissione nella scuola (cfr. insegnamento). La scienza è artefattuale (cfr. naturale/artificiale, convenzione) sia nel modo di produzione dei suoi concetti (cfr. concetto), sia nei suoi procedimenti (cfr. esperimento, osservazione), sia infine nei suoi oggetti (cfr. empiria/esperienza). Trasportata da un movimento senza fine in vista della corroborazione delle sue teorie (cfr. teoria, verificabilità/falsificabilità), la scienza ha come ideale un sapere obiettivo (cfr. soggetto/oggetto) e formalizzato (cfr. formalizzazione), peraltro sempre legato a determinate pratiche sociali (cfr. teoria/pratica).Complementare ad essa sul piano psicologico è una teoria della cognizione che vede l’apprendimento come un processo di socializzazione, col passaggio dalla soggettività individuale a una razionalità condivisa (cfr. ragione, razionale/irrazionale). Sul piano filosofico (cfr. filosofia/filosofie), il confronto fra le teorie aristotelica e cartesiana dell’errore, la distinzione tra qualità primarie e secondarie, permettono di cogliere simultaneamente aspetti epistemologici e psicologici, e la scienza appare in tal modo come uno strumento privilegiato per assicurare una comunicazione tra soggetti «normalizzati». controllare PARSONS T.descrive tre metodi di controllo sociale: -isolamento scopo di tenere il deviante lontano dagli altri -allontanamento limita i contatti del deviante con gli altri ma non lo segrega completamente dalla società e gli consente,dopo un certo tempo, di ritornare ad accettare le norme della società
-riabilitazione processo attraverso il quale molti devianti vengono aiutati a riassumere il loro ruolo nella società (anche la psicoterapia) controllare I modi del controllo sociale. Mezzi: 1) controllo diretto (fisico): violenza
2) controllo organizzativo: apparati burocratici
3) controllo dei risultati: competizione economica
4) controllo ideologico: manifestazione dell'adesione
5) controllo d'amore: identificazione totale o espressione della fiducia
6) controllo per saturazione: diffusione di un solo testo indefinitivamente ripetuto
7) controllo per dissuasione: instaurazione di un sistema di schedatura e di un apparato poliziesco che metta in rotta ogni tentativo di contestazione conversare la conversazione è feconda soltanto fra spiriti dediti a consolidare le proprie perplessità la conversation n'est féconde qu'entre esprits attachés à consolider leurs perplexités
Cioran Emil CONVERSAZIONE "una buona conversazione ha presa: ci apre gli occhi su qualcosa, ci fa drizzare le orecchie. una buona conversazione lascia degli echi: più tardi, nel corso della giornata, nella nostra mente si continua a parlare; e il giorno dopo ci si ritrova ancora a conversare con quello che è stato detto. ... e' necessario ripensare a cosa è la conversazione. Il termine significa 'cambiare direzione con', tornare indietro, invertire il movimento, e probabilmente ha a che fare con l'andare avanti e indietro con qualcuno o qualcosa, voltandosi e dirigendosi verso lo stesso terreno dalla direzione opposta. Una conversazione fa cambiare direzione alle cose e per ogni conversazione esiste un 'verso' un rovescio, un lato opposto. ... per questo lo stile delle nostre conversazioni deve essere un po' sconcertante, cambiando la direzione prevista di un pensiero o di un sentimento. Ed è per questo che dobbiamo parlare con ironia, e perfino con scherno, con sarcasmo. magari scioccando anche: perché la coscienza arriva attraverso un piccolo shock di consapevolezza, tenendoci sul filo, acuti, desti, e un pochino di traverso."
James Hillman, Cent'anni di psicanalisi. E il mondo va sempre peggio, Rizzoli Bur CORPO Lady Lazarus
L’ho rifatto. Un anno ogni dieci ci riesco – Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle splendente come un paralume Nazi, un fermacarte il mio piede destro, la mia faccia un anonimo, perfetto lino ebraico. Via il drappo, o mio nemico! Faccio forse paura? – Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti? Il fiato puzzolente in un giorno svanirà. Presto, ben presto la carne che il sepolcro ha mangiato si sarà abituata a me e io sarò una donna che sorride. Non ho che trent’anni. E come il gatto ho nove vite da morire. Questa è la numero tre. Quale ciarpame da far fuori ogni decennio. Che miriade di filamenti. La folla sgranocchiante noccioline si accalca per vedere che mi sbendano mano e piede – Il grande spogliarello. Signori e signore, ecco qui le mie mani, i miei ginocchi. Sarò anche pelle e ossa, ma pure sono la stessa identica donna. La prima volta successe che avevo dieci anni. Fu un incidente. Ma la seconda volta ero decisa a insistere, a non recedere assolutamente. Mi dondolavo chiusa come conchiglia. Dovettero chiamare e chiamare e staccarmi via i vermi come perle appiccicose. Morire è un’arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in modo eccezionale. Io lo faccio che sembra come inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammettete che ho la vocazione. E’ facile abbastanza da farlo in una cella. E’ facile abbastanza farlo e starsene lì. E’ il teatrale ritorno in pieno giorno a un posto uguale, uguale viso, uguale urlo divertito e animale: “Miracolo!” E’ questo che mi ammazza. C’è un prezzo da pagare per spiare le mie cicatrici, per auscultare il mio cuore – eh sì, batte. E c’è un prezzo, un prezzo molto caro, per una toccatina, una parola, o un po’ del mio sangue o di capelli o un filo dei miei vestiti. Eh sì, Herr Doktor. Eh sì, Herr Nemico. Sono il vostro opus magnum. Sono il vostro gioiello, creatura d’oro puro che a uno strillo si liquefà. Io mi rigiro e brucio. Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà. Cenere, cenere – Voi attizzate e frugate. Carne, ossa, non ne trovate – Un pezzo di sapone, una fede nunziale, una protesi dentale. Herr dio, Herr Lucifero, attento. Attento. Dalla cenere io rivengo Con le mie rosse chiome E mangio uomini come aria di vento.
Sylvia Plath CORPO VOLTO PSICHE Il volto è la parte privilegiata del corpo umano; è ciò che ci comunica l'essenza di una persona. Ma il volto è anche una "forma" dotata di una determinata superficie; è faccia su cui si rivelano le emozioni, i sentimenti, i pensieri segreti. Il volto è "lo specchio dell'anima". Nel mondo fisico, ha scritto Simmel, non c'è nessuna struttura "che come il volto umano riesca a convogliare una così gran varietà di forme e superfici in un'incondizionata unità di senso". [Marco Belpoliti - Doppio Zero] crescere Non ho mai raccontato a nessuno questa storia, e non ho mai pensato di doverlo fare - non perché temessi di non essere creduto, ma esattamente perché mi vergognavo... e perché era mia. crescere Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e come è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte queste baggianate alla David Copperfield, ma a me non va proprio di parlarne crescere L'amicizia è una trovata di Dio per farsi perdonare l'istituto della famiglia. crescere Mark aveva undici anni e fumava saltuariamente già da due anni crescere Sono un trovatello. crescere Nell'ombra della casa, sulle rive soleggiate del fiume presso le barche, nell'ombra del bosco di Sal, all'ombra del fico crebbe Siddharta, il bel figlio del Brahmino, il giovane falco, insieme all'amico suo, Govinda, anch'egli figlio di Brahmino. Sulla riva del fiume, nei bagni, nelle sacre abluzioni, nei sacrifici votivi il sole bruniva le sue spalle lucenti. Ombre attraversavano i suoi occhi neri nel boschetto di mango, durante i giochi infantili, al canto di sua madre, durante i santi sacrifici, alle lezioni di suo padre, così dotto, durante le conversazioni dei saggi. Già da tempo Siddharta prendeva parte alle conversazioni dei saggi, si esercitava con Govinda nell'arte oratoria, nonché nell'esercizio delle facoltà di osservazione e nella pratica della concentrazione interiore. Già egli sapeva come si pronuncia impercettibilmente l'Om, la parola suprema, sapeva assorbirla in se stesso pronunciandola silenziosamente nell'atto di inspirare, sapeva emetterla silenziosamente nell'atto di espirare, con l'anima raccolta, la fronte raggiante dello splendore che emana da uno spirito luminoso. Già egli sapeva, nelle profondità del proprio essere, riconoscere l'Atman, indistruttibile, uno con la totalità del mondo. Il cuore del padre balzava di gioia per quel figlio così studioso, così avido di sapere; era un grande sapiente, un sommo sacerdote quello ch'egli vedeva svilupparsi in lui: un principe fra i Brahmini. crescere Nell'Aprile del 1831, Clementina Sanvitale entrò insieme alle sorelle minori, Paolina e Virginia, nel Collegio Lasagna di Parma. Aveva quattordici anni crescere Il mondo aveva i denti e in qualsiasi momento ti poteva morsicare. Questo Trisha McFarland scoprì a nove anni crescere Tra i vari edifici pubblici di una certa città che per molte ragioni evito di nominare e a cui non voglio dare alcun nome fittizio, ve n'è uno comune da tempo a molte città grandi e piccole, voglio dire l'ospizio di mendicità crescere Quello della svolta era un bel giorno, una bella mattina di maggio crescere C'era una volta … "Un re!" diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno crescere A quattordici anni ero educanda in un collegio dell'Appenzell. Luoghi dove Robert Walser aveva fatto molte passeggiate quando stava in manicomio, a Herisau, non lontano dal nostro istituto. E’ morto nella neve. Fotografìe mostrano le sue orme e la positura del corpo nella neve. Noi non conoscevamo lo scrittore. E non lo conosceva neppure la nostra insegnante di letteratura. A volte penso sia bello morire così, dopo una passeggiata, lasciarsi cadere in un sepolcro naturale, nella neve dell'Appenzell, dopo quasi trent'anni di manicomio, a Herisau. E un vero peccato che non sapessimo dell'esistenza di Walser, avremmo colto un fiore per lui. crescere Stavo per superare Salvatore quando ho sentito mia sorella che urlava. Mi sono girato e l'ho vista sparire inghiottita dal grano che copriva la collina.
Non dovevo portarmela dietro, mamma me l'avrebbe fatta pagare cara.
Mi sono fermato. Ero sudato. Ho preso fiato e l'ho chiamata. - Maria? Maria?
Mi ha risposto una vocina sofferente. - Mi- chele !
- Ti sei fatta male ?
- Si, vieni.
- Dove ti sei fatta male ?
- Alla gamba.
Faceva finta, era stanca. Vado avanti, mi sono detto. E se si era fatta male davvero?
Dov'erano gli altri?
Vedevo le loro scie nel grano. Salivano piano, in file parallele, come le dita di una mano, verso la cima della collina, lasciandosi dietro una coda di steli abbattuti. crescere In un college del New England arriva a insegnare un professore, Kitting, molto diverso dagli altri - siamo negli anni cinquanta -. Le lezioni sono strane e vive, e del tutto anticonformiste: una volta l'insegnante fa strappare dai libri di poesia tutte le critiche iniziali. L'idea è quella di viver secondo le proprie attitudini e non secondo quelle ereditate. Uno degli studenti - che adorano l'insegnante -, in conflitto col padre, si uccide. Il preside e il "sistema" cercano di attribuirne la responsabilità all'insegnante, che deve lasciare la scuola. Film fondamentale dell'era moderna del cinema, dove è molto difficile portare qualcosa di nuovo.
Sono presenti gli studenti Todd e Knox che si alzano in piedi, il preside Nolan e Kitting. TODD Professor Kitting, mi hanno costretto a firmare. La prego, deve credermi, è vero! PRESIDE NOLAN Si sieda, signore. PROF. KITTING Certo che ci credo Todd. PRESIDE NOLAN Ho detto: si sieda signor Anderson: un'altra intemperanza sua o di chiunque altro e sarà espulso dalla scuola. Se ne vada professore! Ho detto: se ne vada Kitting! TODD Capitano, mio capitano. PRESIDE NOLAN Si sieda immediatamente Anderson. Mi ha sentito vero? Si sieda. Guardi è l'ultima volta che glielo dico: come si permette? Mi ha sentito Anderson? KNOX Capitano, mio capitano. PRESIDE NOLAN Signor Anderson l'avverto: si sieda immediatamente. Seduti ho detto. A sedere: dico a tutti, voglio che vi sediate. Tutti a sedere! Capito? Lei se ne vada Kitting. Scendete, avanti! Scendete tutti! Mi avete capito? Se- du-ti! PROF. KITTING Grazie figlioli, grazie!
(tratto da: Daniela Farinotti, Domani è un altro giorno: sessanta finali di sessanta film leggendari …, La Tartaruga Edizioni, Milano 1995) crescere adolescenza L'adolescenza non è solo una stagione della vita, ma una modalità ricorsiva della psiche dove i tratti dell'incertezza, l'ansia per il futuro, l'irruzione delle istanze pulsionali, il bisogno di rassicurazione e insieme di libertà si danno talvolta convegno per celebrare, in una stagione, tutte le possibili espressioni in cui può cadenzarsi la vita. Per questo di fronte agli adolescenti siamo ansiosi. Essi ci testimoniano tutto il possibile che in noi non è divenuto reale. crescere formazione Direi volentieri (e non è una battuta) che il primo obiettivo dell'educatore è quello di formare degli autodidatti, perché dopo il periodo di formazione, ognuno sarà portato tutti i giorni a rispondere alla domanda "che cosa devo fare? e come devo farla?", e difficilmente ci sarà qualcuno di fianco per dirgli quello che deve fare e come. Questa è la scuola. Il bravo allievo, a scuola, chiede al professore: "Che cosa devo fare, e come devo farlo?". Ma quando sarà anch'egli alle prese con la vita personale, professionale, familiare, amorosa, affettiva ecc., è lui che dovrà scoprire ciò che dovrà fare e come dovrà farlo. Il problema della conoscenza è tutto qui. Penso che la conoscenza abbia due versanti. C'è il sapere acquisito, quello che gli altri hanno trovato, ed è quello che si impara a scuola, ciò che hanno scoperto gli altri, che è importante sapere, ma è solo la metà. L'altra metà si deve scoprire da soli; del resto, quello che si impara a scuola è quanto altri hanno scoperto senza che si sia detto loro che cosa dovevano scoprire, e dunque esiste tutta quella dialettica tra ciò che si è imparato dagli altri e ciò che si deve trovare da soli per comunicarlo agli altri. Il rapporto tra gli altri e se stessi, tra ciò che si è imparato dagli altri e ciò che dobbiamo insegnare loro, è dunque al centro della nozione di formazione, di educazione. Penso che per formare qualcuno alle sue responsabilità sul piano della scoperta, della creazione, occorre fargli scoprire che cosa sia la sua propria libertà; che non è la libertà di fare qualunque cosa, ma la libertà responsabile. CRIMINI VITTIME Quello che mi disturba e mi dispiace è che la società contemporanea tende alla deresponsabilizzazione (per usare un termine che non ho mai usato perché astratto), alla cancellazione della responsabilità personale, della colpa. Ecco, noto che c'è la tendenza a svuotare molti reati, anche i più gravi, della responsabilità morale che implicano, a preoccuparsi esclusivamente della pronta riabilitazione anziché del giusto risarcimento per quello che hanno patito le vittime. C'è un profondo squilibrio: è molto importante la riabilitazione dei colpevoli, infatti sono contrario alla pena di morte e alle forme punitive che offendono la persona, ma lo è altrettanto la sicurezza della pena. Se un individuo ha commesso una colpa grave è giusto anche che paghi e questo va considerato sia come strumento di riabilitazione per il colpevole, sia come risarcimento per la società; per questo la pena ma non va cancellata. Invece c'è la gravissima tendenza a dimenticare questo secondo aspetto e la cosa genera nei cittadini un senso di frustrazione e di angoscia.
Ci spieghi meglio questo concetto.
Quando uno ha la casa devastata dai ladri e sa che i ladri non saranno puniti, quando ha un parente che è stato investito da una macchina pirata e sa che il colpevole se la caverà con poco o niente, allora la vittima prova un senso di abbandono e di angoscia. Penso che questa società, indebolendo la certezza della pena, tolga alla giustizia una delle sue funzioni più importanti cioè quella di deterrente: molte persone sicure dell'impunità commettono reati. Pensiamo a quello che è successo recentemente alla Malpensa, per parlare di un reato non dei più atroci ma comunque grave: il crimine è stato commesso da persone che erano state scagionate o comunque non punite in un precedente processo. Domina purtroppo l'idea assurda che usando l'indulgenza si agevoli l'esercizio della giustizia, invece si offende la vittima, privandola del giusto risarcimento, si favorisce la replica del reato, anzi la sua moltiplicazione matematica, e si genera uno stato di angoscia nei cittadini.
da "Alice.it", 27 giugno 2003 CULTURE A conclusione di questo itinerario nel rancore, incontriamo un elemento che riconnette quanto detto ora sulla situazione italiana con il significato più generale del "populismo globale". E che ci consente di individuare i segni tangibili di un percorso che non ha un solo luogo d'elezione: ha infatti a disposizione il mondo intero. Si tratta dei temi evocati dal sociologo tedesco Hans Magnus Enzensberger ne Il perdente radicale (Einaudi, 2007). Enzensberger segue le tracce di quella scia di sangue che attraversa l'orizzonte contemporaneo e che dalle nostre piccole barbarie domestiche ci conduce fino a incontrare la figura dei terroristi kamikaze. Dal caso degli adolescenti assassini nei college americani fino all'11 settembre c'è – suggerisce Enzensberger – un filo di disperazione e di rabbia, di cieca violenza e di studiata esaltazione del rancore che finisce per legare gli assassini di provincia ai killer delle Twin Towers. I primi indicano una tendenza, una possibilità che si cela nelle contraddizioni manifeste di un modello culturale in crisi, i secondi fanno parte dell'esercito di coloro che socializzano questa crisi e ne fanno la bandiera di una guerra planetaria. In comune, questi due esempi apparentemente così lontani tra loro, hanno il senso della sconfitta, la percezione di una inadeguatezza che si trasforma in furia omicida, in uno sterminato desiderio di morte e di distruzione. In entrambi i casi siamo di fronte a quelli che lo studioso tedesco presenta come "i perdenti radicali". Definizione riferibile non tanto a coloro che si possono percepire come gli sconfitti della globalizzazione o delle trasformazioni culturali insite nella modernità, quanto a quelli che non sono stati o non sono in grado di elaborare un vocabolario del cambiamento, un lessico emozionale con cui rispondere alle modifiche di breve o di lungo corso che attraversano il loro spazio di vita. «In ogni momento — scrive Enzensberger — il perdente può esplodere. Questa è l'unica soluzione del problema che riesce a immaginare: il parossismo del disagio che lo fa soffrire».
Il vero problema nasce però quando dalla follia individuale si passa a ciò che il sociologo definisce come la "socializzazione del rancore". «Che cosa accade quando il perdente radicale supera il suo isolamento, quando si socializza, quando trova una patria dei perdenti, da cui si ripromette non solo comprensione, ma riconoscimento, un collettivo di simili che lo accoglie a braccia aperte e ha bisogno di lui?», si chiede Enzensberger. È questo, ad esempio, l'orizzonte nel quale il terrorista kamikaze diventa una figura centrale, il simbolo di una cultura di morte che «progetta il suicidio di un'intera società». Qualcosa, conclude lo studioso tedesco, che l'Europa ha già conosciuto, proprio in Germania nel periodo tra le due guerre mondiali: quel vasto movimento all'insegna della frustrazione patriottica e del risentimento dei giovani maschi tornati dal fronte e non più esaltati come eroi, che fu lo scenario dell'ascesa del nazismo. CULTURE «L'Occidente non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione ma attraverso la sua superiorità nell'uso della violenza organizzata (il potere militare). Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai. (...) Alcuni occidentali hanno sostenuto che l'Occidente non ha alcun problema con l'Islam, ma solo con gli estremisti islamici violenti. Millequattrocento anni di storia dimostrano tuttavia il contrario. I rapporti tra Islam e cristianesimo sono stati spesso burrascosi. Per entrambi, la parte opposta ha sempre rappresentato "l'Altro" (...) Le cause di questa costante conflittualità non vanno ricercate in fenomeni transitori quali il fervore cristiano del XII secolo o il fondamentalismo musulmano del XX, bensì nella natura stessa di queste due religioni e delle civiltà su di esse fondate, nelle loro differenze e nelle loro similitudini». Perciò, «una guerra planetaria che coinvolga gli stati guida delle maggiori civiltà del mondo è altamente improbabile ma non impossibile. Un simile conflitto potrebbe scaturire dall'escalation di una guerra (locale) tra musulmani e non musulmani».
Sono passati più di dieci anni da quando Samuel Phillips Huntington propose questa lettura delle future relazioni internazionali alla luce di una netta contrapposizione tra ciò che definiva come "Islam" e ciò che definiva come "Occidente". L'11 settembre non c'era ancora stato, l'amministrazione statunitense non aveva ancora dichiarato la "guerra permanente al terrorismo", il dibattito internazionale ruotava in larga misura intorno alle promesse annunciate dal pieno dispiegarsi dei processi di globalizzazione. Eppure, era proprio muovendo da un'analisi del "nuovo" mondo globalizzato, che questo docente di Harvard – stimato specialista di studi strategici e direttore del John T. Olin Institute for Strategic Studies – aveva pubblicato, già nel 1993, sulla rivista da lui fondata, Foreign Affairs, un articolo intitolato "The Clash of Civilizations?" che sarebbe poi stato sviluppato nell'omonimo saggio del 1996, edito dall'importante editore Simon and Schuster e tradotto in tutto il mondo (in Italia la prima edizione è del 1997, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti).
Da allora, le tesi di Huntington che annunciavano come possibile, prossimo e in qualche misura inevitabile lo "scontro di civiltà" tra gli occidentali e i musulmani – i primi rappresentati come i depositari della filosofia dei diritti dell'uomo e i secondi più o meno come dei "barbari" – hanno non solo caratterizzato il dibattito politico e culturale internazionale, ma, come una sorta di terribile profezia, sono apparse come il drammatico annuncio di quanto poi si sarebbe concretamente verificato. Questo almeno in apparenza. In realtà, Lo scontro delle civiltà è diventato la bandiera dietro la quale buona parte delle culture di destra dell'Occidente hanno ridefinito la propria identità. Dalla dottrina neoconservatrice sbarcata alla Casa Bianca fin dalla prima elezione di George W. Bush alla guida degli Stati Uniti nel 2000, ai tanti paladini dell'identità occidentale apparsi negli ultimi anni in Europa, da Orfana Fallaci a Pym Fortuyn, solo per citare due esempi, tutti sembrano aver fatto proprie le parole di Huntington. Così, come sottolinea Mondher Kilani, docente di Atropologia culturale dell'Università di Losanna, in Niente sarà più come prima (Medusa, 2002): «Sono parecchi i commentatori occidentali che, dopo l'11 settembre, hanno tenuto a ricordare l'origine occidentale dei diritti dell'uomo, contribuendo così (...) a sostenere la profezia autorealizzantesi della tesi di Huntington sullo "scontro di civiltà". Una tesi che, come è noto, ha la particolarità di scambiare la conseguenza (i conflitti e le contraddizioni che risultano da rapporti di forza storici e congiunturali) con la causa (una irriducibilità di valori tra l'"Occidente cristiano" e il "mondo arabo-musulmano")».
Le tesi di Huntington, un conservatore vicino ma non assimilabile tout-court all'ambiente neocon americano, hanno così finito per assumere il significato di una via d'uscita da destra di fronte alla crisi dello Stato-nazione e all'avvento dell'era globale. «La mia ipotesi – spiegava infatti l'autore di Lo scontro delle civiltà – è che la fonte di conflitto fondamentale nel mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell'umanità saranno legate alla cultura (...) I conflitti più importanti avranno luogo tra gruppi di diverse civiltà». «Questo perché – aggiungeva Huntington – nel mondo post-Guerra fredda, la cultura è una forza al contempo disgregante e aggregante. Popolazioni divise dall'ideologia ma culturalmente omogenee vengono a unificarsi, come hanno fatto le due Germanie (...) Società unite dall'ideologia o da circostanze storiche ma appartenenti a differenti civiltà finiscono viceversa con lo sgretolarsi, com'è accaduto all'Unione Sovietica».
La rinascita identitaria, le tendenze comunitaristiche, "la rivincita di Dio" – come lo stesso Huntington definiva il prepotente ritorno della religione nella politica e nella sfera pubblica di molte società – più che essere presentate come altrettante possibili derive assunte dall'umanità in una condizione di crisi, diventavano "la risposta" alle trasformazioni introdotte dalla globalizzazione. Al punto che lo scienziato politico di Harvard annunciava già all'epoca quelli che sarebbero stati i temi delle sue riflessioni successive, raccolti nel 2004 in La nuova America. Le sfide della società multiculturale (Garzanti, 2005), un violento manifesto contro il modello di melting pot statunitense e in particolare contro l'emergere della presenza degli immigrati "latinos" negli Usa. «La cultura occidentale - si poteva leggere in Lo scontro delle civiltà – è minacciata da gruppi operanti all'interno delle stesse società occidentali. Una di queste minacce è costituita dagli immigrati provenienti da altre civiltà che rifiutano l'assimilazione e continuano a praticare e propagare valori, usanze e culture delle proprie società d'origine. Questo fenomeno prevale soprattutto tra i musulmani in Europa, che sono, comunque, una piccola minoranza, ma è presente anche, in minor misura, tra gli ispanici degli Stati Uniti, che invece sono una minoranza molto nutrita».
Le "civiltà" poste da Huntington al centro della sua riflessione rappresentano perciò entità definite, stabili e connotate secondo criteri pressoché "etnici", al punto che la frontiera che lui stesso fa correre tra occidentali e musulmani conosce poi il suo doppio all'interno di ogni società tra gli "autoctoni" e gli "stranieri". «Il politologo di Harvard – spiega a questo riguardo Annamaria Rivera, etnologa dell'Università di Bari e autrice di La guerra dei simboli (Dedalo, 2005) – propone, attraverso nozioni totalizzanti come quella di civiltà, una configurazione dei rapporti di forza internazionali basata su rigide linee di frattura culturalreligiose. Nella "cattiva antropologia" di Huntington, le "civiltà" sono viste come universi compatti, autonomi, irriducibili, potenzialmente o effettivamente ostili l'uno all'altro; i rapporti del cosiddetto Occidente con altre aree, paesi e culture sono rappresentati nei termini dell'opposizione fra the West and the Rest».
Sono "mondi chiusi", impenetrabili, quelli che, secondo Huntington, sono destinati ad incrociarsi solo per l'inevitabile clash. In questo quadro, si può leggere ancora ne Lo scontro delle civiltà, «il vero problema per l'Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l'Islam in quanto tale, una civiltà diversa le cui popolazioni sono convinte della superiorità della propria cultura e ossessionate dallo scarso potere di cui dispongono. Il problema dell'Islam non è la Cia o il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ma l'Occidente (...) Sono questi gli ingredienti di base che alimentano la conflittualità tra Islam e Occidente». Perciò, come suggerisce il sociologo afro-britannico Paul Gilroy nel suo Dopo l'impero (Meltemi, 2006) «vecchie questioni coloniali tornano in gioco quando i conflitti geopolitici vengono declinati come una battaglia tra civiltà omogenee». Gilroy paragona il libro di Huntington al Saggio sull'ineguaglianza delle razze pubblicato a metà dell'Ottocento dal conte de Gobineau e considerato come il testo fondante il razzismo moderno. «Nonostante le molte differenze – spiega il sociologo –, entrambi gli autori condividono la preoccupazione per le dinamiche di mutua repulsione delle civiltà e le disastrose conseguenze dei tentativi di incrocio. Gobineau identificò il pericolo mortale per le civiltà in ogni deviazione dalla "omogeneità necessaria alla loro vita" (...) Huntington specifica lo stesso tipo di problema, geopolitico e scientifico-razziale, sotto forma aforistica, nell'idioma contemporaneo del multiculturalismo e della globalità». CULTURE conflitto etnico conflitto ètnico Locuzione con cui nelle scienze sociali si fa riferimento ai conflitti in cui i protagonisti principali organizzano le proprie posizioni ideologiche sulla base dell'appartenenza a uno specifico gruppo etnico, i cui valori culturali e religiosi vengono ritenuti preferenziali e utilizzati come strumenti identitari da opporre a quelli di altri gruppi compresenti nel medesimo ambito territoriale. Soprattutto presso le moderne società industrializzate le cause dei conflitti etnici vanno ricercate nelle contraddizioni del più vasto sistema sociale in cui essi hanno luogo, all'interno del quale antagonismi di varia natura sono concettualizzati e gestiti nei termini dell'"etnicità" dei gruppi coinvolti.
In http://www.treccani.it/Portale/elements/categoriesItems.jsp?pathFile=/BancaDati/Enciclopedia_online/00_Redazione _Portale/conflitto_etnico.xml CULTURE RELIGIONI ISLAMISMO Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid da Biblioteca di Garlasco di Silvana
"Un fatto è una civiltà che ha tra i miti fondatori quello del figlio che uccide il padre. Tutt'altro la civiltà nella quale sono invece i padri a sterminare i figli. 'Edipo contro l'antica mitologia indù', è il modo volutamente semplificato con cui Mohsin Hamid riassume la differenza tra Occidente e Oriente e soprattutto la propria identità 'divisa' di scrittore nato in Pakistan 36 anni fa, ma educato nelle migliori università angloamericane e oggi residente a Londra. 'In Edipo il futuro trionfa sul passato, ci si rinnova drammaticamente nell'annullamento del genitore. E' la freschezza irresponsabile del nuovo sempre proiettato in avanti, del dinamismo, del processo a tutti i costi. Con il rischio costante di cadere nell'utopia, nell'illusione che, ogni volta, a ogni generazione, sia possibile creare un mondo migliore', dice per sintetizzare i suoi 20 anni trascorsi in occidente. Quanto al retaggio dei 16 anni in Pakistan aggiunge: 'Nel secondo caso però vince l'immobilismo, la conservazione. Il passato uccide il nuovo, ci si chiude nella nostalgia dell'età dell'oro, nella convinzione della supremazia delle proprie antiche tradizioni, senza mai avere il coraggio di confrontarle con il diverso e con le sfide del mutamento'. Hamid guarda con sofferta partecipazione emozionale e ricercato distacco intellettuale alle cronache che arrivano dal suo Paese natale. 'Ero a casa dei miei genitori a Lahore, quando venne assassinata Benazir Bhutto. Tutti sapevamo che poteva essere uccisa. Ma quando avvenne, lo choc fu fortissimo, mi ritrovai attaccato al mio Paese come mai avrei pensato'. Poi però è rientrato a Londra, dove sta scrivendo un nuovo romanzo dopo il successo di Il fondamentalista riluttante, e lunedì non tornerà in Pakistan per votare. Qui a Londra ha ritrovato l'equilibrio. Nella sua ricerca di un'identità autonoma si definisce 'uno scrittore molto pakistano, ma anche parecchio americano, cittadino britannico e attirato dalla tradizione moderna europea di Calvino, Camus e Nabokov'. Otto anni fa la critica lo rivelò come la miglior promessa tra gli scrittori pakistani. Il suo Nero Pakistan (Piemme) fu a lungo in testa alle classifiche.
Poi arrivò l'11 settembre. Lui era immerso nella stesura di un secondo romanzo incentrato su quella che i russi chiamerebbero la 'polu-intelligentsia', gli intellettuali nati nella bambagia delle loro limitate società di origine e poi influenzati da correnti culturali molto cosmopolite ed aperte. Hamid pensava ai difficili processi di integrazione nei grandi atenei occidentali di studenti che, come lui, arrivavano nel mondo musulmano. Voleva controbattere alle teorie dello 'scontro di civiltà'. Si sentiva totalmente assimilato e voleva dimostrarlo. Ma fu rivoluzione: guerra, caccia al terrorismo, questione sicurezza, dibattito su Islam e democrazia. 'Da allora posso affermare che il crollo delle Torri Gemelle rappresentò per me, e tanti altri immigrati dai Paesi musulmani, quello che per Primo Levi fu l'Olocausto: divenne un elemento centrale del nostro pensare, del nostro vivere e del nostro scrivere'. Gli ci vollero altri sei anni per terminare Il fondamentalista riluttante. Appena poco più di cento pagine, però grondanti emozioni, intime e traumatiche esperienze autobiografiche. [...] Attraverso la metafora del contrasto tra Edipo e gli antichi miti indù, Hamid sintetizza anche i motivi dello stato di paralisi che a suo dire ammorba il suo paese e tanti intellettuali musulmani. 'Il Pakistan post-Benazir Bhutto e nell'era della decadenza del presidente Pervez Musharraf è uno stato bloccato tra le spinte verso la modernizzazione e l'incapacità di reagire a causa dei condizionamenti di un sistema tribale e religioso repressivo, immobile'. Hamid condensa tutto ciò in una sola parola: inadeguatezza. 'Il nostro governo è inadeguato alle domande del Paese, alle sfide della mondializzazione, come del resto sono inadeguati gli intellettuali musulmani nel confronto con il mondo occidentale'. Le conseguenze sono traumatiche: 'Ecco da cosa nasce il fondamentalismo, dall'incapacità di fare fronte alle complessità del mondo moderno e dal rifiuto di assumersi le proprie responsabilità'. Eppure anche la tentazione di esaltare ciecamente Edipo comporta conseguenze negative. [...] Così può anche togliersi il gusto di criticare le società occidentali per quella che lui definisce la loro 'carenza di religiosità'. '[...] L'Islam con il suo sistema di regole, con il ruolo centrale dato agli anziani, i profondi legami familiari e comunitari, in qualche modo offre ancora risposte a queste domande. Se gli Stati Uniti, prima di lasciarsi andare alla rabbia e alla vendetta dopo l'11 setembre, avessero cercato di condividere il loro senso del lutto con il resto del mondo, forse le loro reazioni apparirebbero oggi meno inadeguate." (da Lorenzo Cremonesi, Edipo contro i miti indù, "Corriere della sera", 16/02/'08) "Mohsin Hamid and The Reluctant Fundamentalist" (da Npr.org) DESIDERIO POSSIBILITA' si può portare un cavallo al fiume ma non si può costringerlo a bere DESTINI Non c'è trama della vita che sia mia in via esclusiva; qua e là emerge un volto, una frase, una semplice parola da qualche punto oscuro dell'esistenza. Può essere che quel flash mi lasci smarrita a cercare complicate ipotesi di salvezza, più probabile che esso fugga via, preso dalla corrente del tempo che non indugia sulle piccole sorti private, preoccupato com'è a modificare la sostanza universale degli eventi. Qualcuno lo chiama destino e ci si affida: non io, perché non sono mai riuscita a riconoscere un valore d'ineluttabilità ai giorni futuri, e neppure a far gravare su di essi il macigno di quelli passati. Forse non mi resta che il presente, che non mi dà gioia, ma neanche dolore. E questo non è poco. Anzi. DIARIO 254. Sono una "diarista" convinta (e questo blog ne è in qualche modo testimone). Amo anche (e soprattutto) i diari degli altri, perché mi danno l'impressione di entrare nella loro psicologia, di comprendere a fondo quello che in altre letture resta solo in superficie. Il diario che mi ha affascinato più di tutti è quello di André Gide, perché è la storia di uno spirito inquieto, ma anche la lezione di un maestro del gusto. Forse nella letteratura italiana non abbiamo una grande tradizione diaristica. Se guardo all'800 penso a Niccolò Tommaseo, al suo "pecco, mi pento, ripecco". Il suo è un buon diario, non costruito "ad arte". Quello di Leopardi non si può definire "strictu sensu" un diario; troppo composito, poco incline al biografismo sincero (che invece è assai più deducibile dal suo epistolario). Per quanto riguarda il '900, invece, mi sono piaciuti molto i diari "morali" di Corrado Alvaro, scrittore che credo abbia scritto proprio fra quelle pagine le sue cose migliori. E poi c'è Tommaso Landolfi (ancora lui): i suoi diari sono solo in apparenza lavori "letterari", in realtà non fanno altro che denunciare una tragedia. Anche D'Annunzio (autore che non sta di solito in cima ai miei pensieri) ha scritto buone pagine di journal, a volte mi diletto a leggerle, anche con passione. DIARIO BLOG "Questo, lettore, é' un libro sincero. Ti avverto fin dall'inizio che non mi sono proposto, con esso, alcun fine, se non domestico e privato. Non ho tenuto in alcuna considerazione nè il tuo vantaggio nè la mia gloria. Le mie forze non sono sufficienti per un tale proposito. Se lo avessi scritto per procacciarmi il favore della gente, mi sarei adornato meglio e mi presenterei con atteggiamento studiato.Voglio che mi si veda qui nel mio modo d'essere semplice, naturale e consueto,senza affettazione ne artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno qui i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale, per quanto me l'ha permesso il rispetto pubblico. Ché se mi fossi trovato tra quei popoli che si dice vivano ancora nella dolce libertà delle primitive leggi della natura, ti assicuro che ben volentieri mi sarei qui dipinto per intero, e tutto nudo. Cosi', lettore, sono io stesso la materia del mio libro: non c'e' ragione che tu spenda il tuo tempo su un argomento tanto frivolo e vano. Addio dunque, da Montaigne il primo marzo millecinquecentottanta."
Michel de Montaigne. Testi presentati da André Gide, Adelphi, p. 43 traduzione di Fausta Garavini DIARIO CITAZIONI Un buon pensiero che abbiamo letto, una cosa che ci abbia colpito nell'ascoltarla, li riportiamo volentieri nel nostro diario. Se ci prendessimo però ugualmente la pena di annotare dalle lettere dei nostri amici osservazioni, caratteristiche, garbati giudizi, detti fugaci e arguti, potremmo divenire molto ricchi. Ci sono lettere che si conservano per non rileggerle mai più, infine viene il giorno che si distruggono per discrezione, e così ne scompare il più bello e più immediato alito di vita, e non sarà possibile né per noi né per altri riprodurlo mai più. Io mi propongo di riparare a questa negligenza...
Johann Wolfgang Goethe - Le affinità elettive DIFFERENZE DI GENERE UOMO DONNA le parole di NADIA FUSINI: «Di un essere che definiamo un uomo, una donna, dovremmo poi dire il come: come è donna quella donna? E come è uomo quell’uomo? Troveremo che siamo tutti sempre spostati, sempre obliqui, sempre almeno in parte eccentrici rispetto a quel significante, alla sua legge. Questa è la condizione della donna e dell’uomo moderni». E più avanti: «Come sono donna, mi chiedo, io che sono una donna? Quanto incarno di quel significante nel reale? La verità che scopro interrogandomi è una penosa distanza, un fondamentale smarrimento rispetto a quel nome comune di “donna”; ed è l’avventura in questo smarrimento, o errore, che mi definisce in modo assolutamente decentrato rispetto al punto nodale di quella mia domanda a me stessa. E questo accade non solo a me, che sono una donna, ma scopro lo stesso gioco di complicità, e di estraneità insieme, in ogni maschio che si interroghi riguardo alla legge che lo vuole identificare. Che non si abbandoni incosciente al privilegio della sua identità - pur sempre parziale, quand’anche si aggiudichi pretese universali. Perché, prima o poi, viene per tutti il giorno in cui dovremo dare conto di chi siamo a qualcuno che veramente lo chiede; e allora quella anonima maschera di genere non servirà. L’identità sessuale oggi più che mai è un miraggio, e qualora si dia come compiuta, essa è effetto di un fondamentale misconoscimento. Perché, in verità, non ci sono che esperienze in eccesso o in difetto rispetto al polo maschile o femminile dell’identità. Mogli obbedienti, madri perfette, padri severi, mariti autoritari, maschi aggressivi, femmine passive - chi crede più a queste maschere? […] Ciò che scopro, insomma, se osservo con attenzione il mondo che mi circonda, è che il sapere della differenza sessuale, il taglio, cioè, che l’appartenenza all’uno o all’altro sesso scava nel corpo umano, coincide con ciò che nell’esperienza veniamo a conoscere della nostra radicale, disperata distanza da una sicura identità basata sul sesso. […] Non è da lì che possiamo trarre, uomini e donne moderni, un orientamento o un destino. Neppure l’indicazione di un compito. […] Non siamo animali; e, a differenza di loro, che hanno la propria immagine dentro, a noi l’immagine viene da fuori, è un riflesso. E’ specchiandoci l’uno nell’altra che ci riconosciamo. Se siamo maschi e femmine, lo sapremo dall’altro. E ciò che potremo fare e essere a partire da questo si inscrive oggi nell’orizzonte della nostra libertà». (pp.8-10) DOLORE La vita segreta delle parole di Isabel Coixet
recensione tratta da Lella Ravasi Bellocchio, Gli occhi d'oro, ancora. Il cinema nella stanza dell'analisi, Moretti & Vitali, 2008, p. 101-106
Una piattaforma petrolifera in mezzo al mare. Un incidente. Un uomo ferito, Josef, ustionato gravemente nell'incidente, ha perso la vista temporaneamente. Una giovane infermiera, Hanna, straniera, ha un apparecchio acustico; quando vuole isolarsi dal mondo spegne l'interruttore. Due vite segnate nel corpo da una possibile incomunicabilità. Lui non la vede. Lei lo sente solo se vuole. Ma la storia è molto più complessa, e fin dall'inizio entriamo nel mistero di lei: la vediamo operaia in fabbrica, chiusa al mondo, senza amici, una vita difesa dai sentimenti; in mensa mangia da sola - riso in bianco, petto di pollo, mela - sempre lo stesso non sapore; quando rientra a casa l'aspetta il vuoto asettico, garantito da saponi impilati con cura accanto al lavandino. Una fobica, così appare. C'è una piccola voce di bimba che parla, all'inizio del film: l'accompagna, racconta la cura dell'immaginario che la ragazza ha di lei, il suo pensarla, con una salopette rossa e un golfino azzurro, capelli lunghi, capelli corti, come se fosse una figlia perduta, o una figlia non nata, una parte di lei inabissata. E la voce di bambina dice «ci sono così poche cose: silenzio e parole.. .nel fondo del mare». Costretta a una vacanza, da sola in albergo su un oceano freddo e ventoso, Hanna ascolta per caso di una persona ustionata che ha bisogno di cura; si propone. Meglio che stare da sola con i suoi fantasmi. Sulla piattaforma petrolifera entra in contatto con Josef, con la sua rabbia provocatoria, le ferite, il buio degli occhi. Il suo modo di stargli accanto è professionalmente perfetto, ma lui chiede una presenza che lei non gli può dare; lui ha bisogno di perdonarsi, non solo di guarire. Hanna ha lo stesso bisogno. La distanza, lo sapremo poi, è l'unica difesa possibile dall'orrore patito, dalla malattia di essere viva che le è rimasta addosso. All'inizio la guarigione di lei, l'avvicinamento alla vita, passa dal cibo: c'è un cuoco sulla terra-non terra che è la piattaforma petrolifera; quando cucina ascolta la musica del paese da cui viene la ricetta, «cucino per me, per non impazzire», dice. Così un piatto di gnocchi al pomodoro nasce ispirato da una canzone di Paolo Conte. Josef la interroga: «Cosa ti piace?», e alla sua risposta «pollo, riso in bianco, mela» le dice con stranita dolcezza «che cosa c'è che non va? Che cosa ti fa tanta paura?» E lei, quasi furtivamente, comincia ad assaggiare gli gnocchi dal piatto di lui. È l'inizio di un cambiamento: dal vuoto del non-senso, del non-sapore, dal silenzio di chi è portatore di ferite indicibili, a una possibile parola, semplice, nell'intimità che si crea tra loro nella terra del dolore, di cui sono entrambi prigionieri. È l'attenzione al corpo ferito che cura lui e cura lei. Che cosa passa da tutto questo soffrire? I due imparano ad accettare l'uno dell'altro i silenzi, imparano che è possibile non farsi male, che la vergogna e la pietà possono anche curare. La commozione di chi è nel buio della sala è sobria, guidata dalla verità delle immagini. Nel microcosmo che è la vita sulla piattaforma petrolifera c'è un campionario normale nella sua bizzarria: oltre al cuoco, qualche marinaio, uno studioso dell'oceano che misura la forza delle onde, e per hobby controlla le cozze, un'oca selvatica addomesticata che passeggia da padrona, un'altalena su cui lasciarsi dondolare. Il mondo è altrove. L'essere lontani, un punto di luce nell'oceano, garantisce la vita segreta delle parole. Hanna tocca Josef, con delicatezza lo lava, lo massaggia, permette al corpo di lui di lasciarsi andare al tocco gentile di lei che lo cura, come fa una madre con un bambino. Passa dal corpo, dagli occhi ciechi di lui che immaginano lei, dal sentirne l'odore. Solo alla fine, quando stanno per separarsi, quando lui verrà trasportato sulla terraferma in un ospedale, quando le dice la vergogna di avere portato via la donna a un amico (il cui suicidio è all'origine dell'incidente di lui che si è gettato nel fuoco invano per salvarlo), quando lei è sicura che non avranno un futuro le parole tra loro, Hanna gli racconta la sua storia. Irrompe con la grazia del suo racconto di ragazza, dal ricordo leggero delle risate con l'amica del cuore, irrompe senza darci il tempo di pensare, entra in scena la sciagura: la guerra in Bosnia, l'albergo in cui Hanna e l'amica - che hanno lasciato la scuola infermiere per tornare a casa per un breve viaggio - vengono portate. Sono arrivate a pochi chilometri da casa; i soldati - quelli che parlano la loro lingua, per primi, e poi i caschi blu - sono loro gli uomini del male, e loro, le ragazze, belle, ridenti, bottino di guerra, corpi da trapassare. Le torture. La violenza. L'amica morta. L'indicibile del male. La vita segreta delle parole trova nell'intimità della cura di un corpo di uomo ferito, il modo di dirsi. Dai tanti libri, dalle tante storie lette, dal tanto - e poco - saputo di quegli anni, da quella guerra così vicina e così dimenticata, riaffiora il mistero di come si fa a sopravvivere in un corpo di donna, nella vergogna di essere al mondo, tu sì e altre no, nell'incancellabile sporca guerra addosso che lascia la traccia di sperma e sangue, che nessun sapone laverà mai via. È l'incontro allora, l'abbraccio, a restituire il pianto e l'innocenza alla donna e all'uomo. Hanna se ne va, anche se lui urla il suo nome, lontano sull'elicottero che lo porta via. Torna lei al suo lavoro in fabbrica, ai suoi saponi. Ma l'uomo deve cercarla: sa che è l'incontro con lei che potrà salvare entrambi. È a lui che tocca la riparazione. Inizia il percorso della ricerca incontrando la persona di cui trova traccia in un taccuino di lei; è la psicoanalista di Hanna, la donna che sa di Hanna e delle altre; sa le storie racchiuse negli schedari dell'associazione che si occupa della cura delle donne che hanno subito l'orrore. Non lo incoraggia l'analista, gli prospetta il fallimento possibile di un incontro con una donna così ferita, ma non gli impedisce l'incontro. E lui va avanti. Lo vedremo nell'ultima parte del film, seguiremo con lui i passi semplici e durissimi del faccia a faccia con i danni della guerra nel corpo e nella psiche di Hanna, come delle altre donne violate. E quando lei gli dice di aver paura che un giorno potrebbe cominciare a piangere, e che queste lacrime non si fermerebbero più, tanto da inondare lo spazio, da riempire una stanza, da farli annegare entrambi, lui (che le aveva confessato il segreto di essere un marinaio che non sa nuotare da quando, bambino, il padre l'aveva gettato in mare facendolo quasi annegare) le risponde solo «imparerò a nuotare». Sono semplici le parole tra loro, semplici ed essenziali. Infine la vita ricomincia. Hanna è in una casa, normale, si prepara una tazza di té, i suoi bambini sono in giardino. Si ascolta la voce della bambina dell'inizio: torna a salutare, forse per sempre, Hanna e "i fratellini". Riporta John Berger, nelle note al i film, la frase, che tocca e cura, di uno scrittore vietnamita Le i Thi Diem Thuy: «Lascia che la parola sia umile, lascia che si sappia che il mondo non è cominciato con parole, ma con due corpi stretti l'uno all'altro, uno che piange e l'altro che canta». Raramente un film trasporta nei luoghi dello strazio, dello smarrimento della guerra, del lavoro del lutto, della riparazione, con tanta intensa e sobria commozione senza cedere ad alcuna forma di sentimentalismo. Raramente cura con l'umiltà delle emozioni fisiche che entrano nelle nostre vite oltre le parole. È "la vita segreta delle parole" allora a prendersi cura di noi: è il dire che non si esaurisce nel detto, che rimane segreto nelle vite, illuminate e in ombra, nelle parti di noi, ferite, che accettano di tornare a vivere, segretamente, non in pace ma in tregua, come in questi versi tratti da un testo che si intitola Notti di pace occidentale. Sono versi scritti vedendo alla televisione la guerra e l'immagine è quella di una donna bosmaca, colta in un attimo dell'assurdo quotidiano:
Correva verso un rifugio, si proteggeva la testa. Apparteneva a un'immagine stanca non diversa da una donna qualsiasi che la pioggia sorprende. Non volevo dire della guerra ma della tregua meditare sullo spazio e dunque sui dettagli la mano che saggia il muro, la candela per un attimo accesa e - fuori - le fulgide foglie. Ancora un recinto con spine confuse ad altre spine spine di terra che bruciano i talloni. Ciò che si stende tra il peso del prima e il precipitare del poi: questo io chiamo tregua misura che rende misura lo spavento metro che non protegge. Alla tregua come al treno occorre la pianura un sogno di orizzonte con alberi levati verso il cielo uniche lance, sentinelle sole. ANTONELLA ANEDDA DOLORE La potenza del male è grande, ma la potenza del dolore è maggiore. Solo il dolore è più forte del male: l’unica speranza di debellare il male è affidata al dolore, che per travagliosa e dilaniante che sia la sua opera è l’energia nascosta del mondo, la sola capace di fronteggiare ogni tendenza distruttiva e di vincere gli effetti letali del male.
LUIGI PAREYSON, Filosofia e libertà DONNE "Le donne sono fatte per essere amate non per essere comprese."
Oscar Wilde DONNE "Ricorda, un uomo ti ferisce, ma una donna ti finisce". dono volontariato MASSIMO CACCIARI, Liberi di donare
[La parola "volontariato" non rende adeguatamente il significato del dono, che si fonda sulla libertà intesa come responsabilità.]
Premessa
Tenterò di riflettere sui fondamenti del volontariato, ossia la sua ragione di fondo. Intanto, in senso provocatorio, mi chiedo se il termine volontariato renda l'idea. Forse non fa giustizia delle ragioni del volontariato. Vorrei ricordare quei versi di Dante nel canto di Paolo e Francesca, quando dice "…Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vengono per l’aere dal voler portate". Qui le anime di due dannati che hanno sottomesso la ragione al loro arbitrio vengono ritratte volando per l’aere dal voler portate. Cioè la volontà può essere ritenuta causa sui: la nostra volontà, se ci pensiamo, è sempre già accaduta. La nostra volontà segue necessariamente il nostro essere. Se ci limi-tassimo alla nostra volontà dovremmo dire che il nostro operare segue al nostro es-sere.
Volontà e libertà
Ritengo che non vi sia nessun sviluppo lineare tra volontà e ciò che il volontariato intende. Cioè il volontariato parla di volontà, ma intende un’altra cosa, che non ha nessun rapporto semplice, lineare, univoco, con la volontà. Intende cioè la libertà. Ma libera non è mai la volontà in quanto tale. Ciò che noi possiamo dire è che desi-deriamo ardentemente di essere liberi, però non c’è nessuna dimostrazione possibi-le che siamo effettivamente liberi. Per affrontare il problema dobbiamo procedere fi-no a disperare della nostra volontà: lì vi è il contraccolpo che dà vita al volontariato. Cattivo nome, io ritengo. Perché doveva inventare un nome che non ha la sua radi-ce nella volontà, ma nella libertà. Se noi comprendiamo come sia impossibile dare una dimostrazione razionale della libertà e tanto più della volontà, ebbene se noi giungiamo fino a questo fondo, fino all’angustia dicevano i padri medievali, fino a sentirci soffocare dall’impossibilità di definire ciò che ardentemente desideriamo, cioè l’essere libero, da lì scatta il fatto di essere costretti a prenderci cura di questa nostra angustia. La volontà si vuole libera, decide di essere libera dal fondo della sua humilitas, per-ché noi reagiamo a questo soffocamento quando comprendiamo quanto ardente-mente desideriamo ciò che ci è impossibile definire. Quando comprendiamo che non siamo in grado di dirci liberi, di dirci causa sui. La libertà è la volontà che si vuole libera, che decide per la propria libertà, o meglio ancora che crede nella propria libertà. Il volontario è colui che crede nella propria libertà, perché sente fino in fondo in-sopportabile il soffocamento, l’angustia per la necessità, propria e di chiunque al-tro. E crede di potersi far libero. Crede, ma non è possibile dimostrarlo. Questo è un fatto fondamentale, perché su questa base il volontario è sempre caratterizzato da una profonda humilitas e da una profonda insecuritas. È davvero nel suo atteg-giamento l’opposto di alcunché di confessionale e di fondamentalista, proprio per-ché è colui che cerca disperatamente di farsi libero e di fare libero. E questo essere insecurus, humilis lo caratterizza laicamente rispetto a tanto fondamentalismo laici-sta che circola. Quindi il volontario è il vero laico, perché il vero laico dal punto di vista filosofico razionale è colui che sa, ma mentre il pensiero puramente laico come quello di Spinoza si conclude necessariamente in una posizione scettica, il volonta-rio decide, e questo non ha a che fare con un fondamento razionale, decide o scommette di credere di poter essere libero e di poter fare libero.
La responsabilità come risposta
Il volontario è quello che risponde allo stato di necessità, colui che risponde all’angustia, propria e a quella degli altri, perché vede il mondo dominato dalla ne-cessità, e questo gli è insostenibile e inaccettabile e perciò crede di poter essere li-bero. La responsabilità è un grande nome che non può continuare ad essere ridotto ad un’etica del calcolo razionale. La responsabilità viene da un termine impegnativo. Spendo in greco voleva dire "libare agli dei". E respondere in latino viene dallo stes-so termine da cui viene sposare, cioè una promessa che ti impegna integralmente. Il volontario è colui che risponde, cioè colui il cui esserci è determinato dal tentati-vo, dalla ricerca di dare risposta all’angustia, allo stato di massima necessità, di massima sofferenza. Che è di ognuno di noi nel momento in cui sente che ciò che massimamente desidera, l’essere libero, non gli è afferrabile, non è determinabile. Allora c’è la simpatia, la consofferenza. Il termine chiave da usare è responsabilità, ma secondo il grande impegno del termine. Si risponde alla disperazione. A colui che non pensa più di poter essere salvo, di potersi conservare. E ciò propriamente fa il volontariato, questa è la sua cura. Questo significa essere figli, perché è figlio colui che risponde, che necessariamente è in relazione, perché il figlio è inconcepibile senza una radice, un’appartenenza, senza l’hu-militas. Cioè il fatto di sapere che la sua volontà è determinata, che sono una serie di cause che hanno necessitato il suo volere. E quindi la libertà del figlio si determina tutta nella capacità di rispondere. Ecco l’abisso con la concezione con-temporanea di libertà. La libertà come idea di obbligazione non è un concetto solo cristiano o islamico, è un’idea romana. Quando la libertà non è obbligazione i ro-mani la chiamavano licentia. C’è la libertà che è obbligazione e c’è la libertà che è li-cenza e che non è libertà, perché la libertà è tutta nella capacità di rispondere, ma dove la risposta non è quella del papà buono, ma quella del servo co-sofferente: niente di filantropico.
La radicalità del dono
Ormai certi termini stanno perdendo ogni significato, li usano tutti dappertutto. Li-bertà, responsabilità, democrazia, sono diventati flatus voci, musica d’atmosfera. Bisogna ridefinire i termini e su questa base definire da che parte stare. Libertà è obbligazione, responsabilità. La libertà obbliga, non libera. Ma allora se la libertà ha questo significato è evidente che se la libertà si caratterizza come respon-sabilità, al colmo della libertà starà la mia capacità di abbandonarmi completamen-te nella risposta, proprio di farmi tutto risposta. Allora, se la libertà è responsabili-tà, sarò completamente libero quando mi sarò svuotato completamente nella rispo-sta. Quando non sarò altro che risposta. Ecco il concetto radicale di dono, che do-vrà illuminare ogni atto donativo: la libertà come responsabilità si conclude neces-sariamente nella mia capacità di farmi dono, di farmi risposta, e il donare è da que-sto punto di vista l’immagine più propria della libertà. Da questo punto di vista non si distingue tra credente e non credente. Il credente è colui che crede che la sua libertà e la sua capacità di donare gli sia a sua volta do-nata, e questo non lo può dire il non credente. Ma sul fatto che libertà è concepibile solo come responsabilità e dono non vi può essere differenza tra i due. La differenza si pone a tutt’altro livello, più propriamente teologico. E allora, lungo il cammino che ci conduce a questa idea di libertà come responsabi-lità e dunque dono, vi è in tutta la sua drammatica evidenza la parabola evangelica, quella di Luca 17,10. Quando dice che alcuni servi fanno tutto quello che il padrone gli aveva comandato e alla fine della loro giornata di lavoro sono chiamati a dire: abbiamo fatto tutto quello che dovevamo, siamo servi inutili. Siamo servi perché semplicemente facendo il nostro lavoro abbiamo obbedito, in più inutili, dal radica-lissimo punto di vista del Vangelo. Cioè fintanto che tu obbedisci soltanto in questa chiave e non ami, e cioè non dimostri questa tua sovrumana e indefinibile libertà attraverso il dono e il sacrificio di te che è il dono della tua libertà, non solo sei ser-vo ma sei anche inutile. Eppure sono persone che hanno fatto fino in fondo il loro dovere, assolutamente incontestabili. Questa è la radicalità con cui dobbiamo affrontare queste questioni. Perché qual-siasi nostra pratica viene illuminata dalla sua idea limite. E all’interno di questa possiamo sviluppare anche tutte le nostre politiche, che staranno da una parte pre-cisa, in giusto conflitto con le altre. Perché il conflitto è sano visto che fa maturare delle decisioni e senza le decisioni non c’è figlio, non c’è uomo maturo, non c’è volontariato. EMPATIA Al riguardo UMBERTO GALIMBERTI ha scritto: «L’empatia è quella capacità di intendere l’altro al di là della comunicazione esplicita, di cui tutti si ritengono forniti, soprattutto quelli che si fidano ciecamente della loro “prima impressione”, senza neppure sospettare che con la prima impressione si viene a conoscere non tanto l’altro, quanto, appunto, la propria impressione cioè l’effetto che l’altro ha fatto su di noi, che non siamo specchi cristallini, ma vetri deformati dalla nostra vita e dalla nostra esperienza, per cui, dalle nostre impressioni è più facile ricavare chi noi siamo e non tanto chi è l’altro. L’empatia mette in gioco spazio e tempo, in quella “giusta distanza” che impedisce all’amore di travolgere e all’indifferenza di raggelare. Empatia vuol dire “giusto tempo”, perché dove è in gioco il dolore (ma anche l’amore) ciò che conta non è la verità, che gli psicologi chiamano “diagnosi”, ma il tempo della sua comunicazione, che non deve essere né anticipato né ritardato. Anche per questo i Greci avevano una parola: kairós, il tempo opportuno, il tempo debito, il tempo dove la parola si incontra con l’ascolto senza fraintendimento in quella giusta coincidenza che la lunga frequentazione rende possibile e che conduce alla scoperta dell’irripetibilità dell’individuo come intersezione di piani spazio-temporali imprevedibili, nonché al senso di un accadere infondato, rivelato dal caso e intuibile nell’istante come kairós terreno, «tempo debito» di ogni cosa e di ciascuno, ritaglio temporale che ci viene offerto in dono, e dove la nostra quotidiana esperienza può trovare un’occasione per tornare a manifestarsi.» EROS SINTESI DELLA VOCE EROS CURATA DA GIOVANNI BOTTIROLI ENCICLOPEDIA EINAUDI - VOLUME 5 (Pag.656-681)
L’eros comunemente viene connesso all’amore, per sottolinearne la differenza o la complementarità: l’eros è qualcosa di diverso dall’amore, l’eros si completa con l’amore e viceversa; ma anche: l’eros si oppone all’amore, l’eros è la parte di amore a cui va applicata una decisa censura. Tutte queste convinzioni, che costituiscono un complesso luogo comune, diversamente connotato a seconda dell’ideologia che ad esso si applica, sembrano trascurare anche in minima parte la lezione freudiana (più di rado ne costituiscono una qualche forma di superamento). � Se infatti il soddisfacimento, più o meno completo, delle pulsioni (cfr. pulsione, inconscio), anzi la risoluzione di qualsiasi conflitto, fondata sul superamento di ogni forma di castrazione e complesso (o almeno di quelle dominanti), si considera come punto di riferimento necessario, allora l’eros difficilmente potrà venire assimilato a un generico desiderio e/o piacere senza amore (e l’amore non rischierà di essere considerato al di là del piacere); né tanto meno si potrà sostenere generalizzando che all’eros sia riservato il desiderio e all’amore il piacere. � SINTESI DELLA VOCE EROS CURATA DA GIOVANNI BOTTIROLI ENCICLOPEDIA EINAUDI - VOLUME 5 (Pag.656-681)
L’eros comunemente viene connesso all’amore, per sottolinearne la differenza o la complementarità: l’eros è qualcosa di diverso dall’amore, l’eros si completa con l’amore e viceversa; ma anche: l’eros si oppone all’amore, l’eros è la parte di amore a cui va applicata una decisa censura. Tutte queste convinzioni, che costituiscono un complesso luogo comune, diversamente connotato a seconda dell’ideologia che ad esso si applica, sembrano trascurare anche in minima parte la lezione freudiana (più di rado ne costituiscono una qualche forma di superamento). � Se infatti il soddisfacimento, più o meno completo, delle pulsioni (cfr. pulsione, inconscio), anzi la risoluzione di qualsiasi conflitto, fondata sul superamento di ogni forma di castrazione e complesso (o almeno di quelle dominanti), si considera come punto di riferimento necessario, allora l’eros difficilmente potrà venire assimilato a un generico desiderio e/o piacere senza amore (e l’amore non rischierà di essere considerato al di là del piacere); né tanto meno si potrà sostenere generalizzando che all’eros sia riservato il desiderio e all’amore il piacere. � Se l’eros è (o rappresenta?) l’intera pulsione di vita, che ha bisogno di una certa «energia» per affermarsi (la libido, in particolare, per le pulsioni sessuali), allora l’eros assume effettivamente, com’è stato detto, una portata speculativa generale, costituendo quasi il luogo, culturalmente e non solo biologicamente definito (cfr. maschile/femminile, uomo/donna, donna), della sessualità, senza però che quest’ultima, trasferita in un discorso e/o in un’immagine, cessi di esistere come tale. Nel Convito, PAUSANIA distingue dall’eros volgare, che si rivolge ai corpi, l’eros celeste, che si rivolge alle anime. Il medico ERISSIMACO vede nell’amore una forza cosmica che determina le proporzioni e l’armonia di tutti i fenomeni così nell’uomo come nella natura. ARISTOFANE, col mito degli esseri primitivi composti d’uomo e di donna (androgini), divisi dagli dèi per punizione in due metà di cui l’una va in cerca dell’altra per unirlesi e ricostituire l’essere primitivo, esprime uno dei caratteri fondamentali che l’amore rivela nell’uomo: l’insufficienza. Da questo carattere, appunto, prende le mosse SOCRATE: l’amore desidera qualche cosa che non ha, ma di cui ha bisogno, ed è quindi mancanza. Il mito infatti lo dice figlio di Povertà (Penìa) e di Acquisto (Poros); come tale esso non è un dio, ma un dèmone; perciò non ha la bellezza ma la desidera, non ha la sapienza ma aspira a possederla ed è quindi filosofo, mentre gli dèi sono sapienti. L’amore è dunque desiderio di bellezza; e la bellezza si desidera perché è il bene che rende felici. L’uomo che è mortale tende a generare nella bellezza e quindi a perpetuarsi attraverso la generazione, lasciando dopo di sé un essere che gli somiglia. La bellezza è il fine, l’oggetto dell’amore. Ma la bellezza ha gradi diversi ai quali l’uomo può sollevarsi solo successivamente attraverso un lento cammino. In primo luogo, è la bellezza di un corpo quella che attrae ed avvince l’uomo. Poi egli si accorge che la bellezza è uguale in tutti i corpi e così passa a desiderare e ad amare tutta la bellezza corporea. Ma al di sopra di essa c’è la bellezza dell’anima; al di sopra ancora, la bellezza delle istituzioni e delle leggi e poi la bellezza delle scienze e infine, al di sopra di tutto, la bellezza in sé, che è eterna, superiore al divenire e alla morte, perfetta, sempre uguale a se stessa, fonte di ogni altra bellezza e oggetto della filosofia». (da N.ABBAGNANO-G.FORNERO, Filosofi e filosofie nella storia, PARAVIA 1986, pag.130) Espiazione ESPIAZIONE - Il libro, il film da NonSoloProust di gabrilu
Il romanzo Espiazione (Atonement), dello scrittore inglese Ian McEwan, è del 2001, ha avuto un grande successo, e da esso è stato tratto anche un film oggi candidato a ben 7 Oscar.
Inghilterra. Una torrida estate del 1935. La guerra che impazza nel continente si avvicina sempre di più.
Nella villa dei Tallis, nel Surrey, Cecilia e Briony si preparano all'arrivo del fratello Leon e di un suo amico. Briony ha 13 anni. Vede dalla finestra una scena tra sua sorella e Robbie, il figlio della cameriera che è cresciuto con loro, legge una lettera di Robbie che non è destinata a lei, coglie di sorpresa Robbie e la sorella in un amplesso in biblioteca e, quando più tardi, di notte, vede nel buio del giardino una figura maschile che si allontana dalla cugina Lola, non esita un attimo ad indicare Robbie come lo stupratore. La testimonianza di Briony distruggerà la vita del ragazzo e di Cecilia.
In rete non mancano ottime recensioni che affrontano a tutto campo sia il libro che il film.
Io però qui voglio parlare solo di un aspetto particolare del libro, quello che per me costituisce l'elemento più interessante del romanzo: il perchè del comportamento di Briony.
Che cosa la spinge a commettere quello che lei stessa, in seguito, chiamerà "crimine", e cioè accusare ingiustamente di stupro un innocente?
"Da dove partire per comprendere la mente di questa bambina?" si chiede Robbie Turner a metà del romanzo ed è appunto quello che mi sono chiesta anch' io.
La Briony di McEwan è una ragazzina molto affezionata al fratello Leon ed alla sorella Cecilia, che ammira molto. Ha una fervida immaginazione, alla sua età mostra già passione e talento per la scrittura. Grande ammiratrice di Virginia Woolf, appena adolescente ha già letto tre volte il suo splendido ma anche impervio Le onde. Ha un' "indole metodica", il suo amore per l'ordine è addirittura maniacale. E' una perfezionista. A mio parere la chiave di tutto sta in questa frase di McEwan che descrive Briony come "una di quelle bambine possedute dal desiderio che al mondo fosse tutto assolutamente perfetto" (p.8)
Saoirse Ronan
Quando Briony assiste dalla finestra alla scena tra Cecilia e Robbie, quella scena le appare senza senso. Ma lei non può tollerare che le cose non abbiano un senso, tutto deve avere una logica. Briony dunque interpreta a modo suo, con gli strumenti cognitivi della sua età. Il fraintendimento prosegue con l'episodio della lettera e della scena cui assiste in biblioteca e tutto questo avrà ripercussioni drammatiche per l'esistenza di Cecilia e di Robbie.
C'è un brano che voglio riportare perchè mi sembra fondamentale per la comprensione del romanzo. Anche qui, Briony guarda dalla finestra ma questa volta lei è fuori la villa e guarda dentro.
"...alla luce di un'unica lampada, parzialmente nascosta da un lembo del tendone di velluto, riuscì a scorgere un'estremità del divano dove stava appoggiato di sghembo un oggetto cilindrico che dava l'impressione di essere sospeso. Solo dopo avere coperto un'altra cinquantina di metri capì che stava guardando una gamba isolata dal resto del corpo. Avvicinatasi ulteriormente, afferrò il gioco di prospettive: la gamba era di sua madre [...]. La sua figura era quasi del tutto nascosta dall'ombra delle tende, e la gamba visibile era sostenuta dal ginocchio dell'altra, ragione per cui appariva obliqua e sollevata dal divano" (p.168)
La fonte luminosa è una sola, la prospettiva può ingannare. Una gamba "isolata dal resto del corpo" può sembrare ciò che non è, per esempio "un oggetto cilindrico". Modificando le distanze, cambia il punto di vista e muta l'identità dell'oggetto osservato...
Il senso più profondo di Espiazione, secondo me, sta nel suo essere un romanzo sulla modalità di percezione della realtà, sugli strumenti che ciascuno di noi più o meno consapevolmente utilizza per dare un senso, un ordine, una logica al mondo che ci circonda.
Briony è assolutamente innocente ed in buona fede, quando dice "l'ho visto", ed "è stato lui". Ma la sua è un'innocenza che si rivela catastrofica. C'è anche chi ha visto in Espiazione un romanzo sui rischi della fantasia. Questo elemento è senza dubbio presente, ma credo che il "peccato" di Briony consista soprattutto nella sua assoluta, incontrollata esigenza di voler "dare ordine al dis-ordine", bisogno questo che la spinge ad una sorta di delirio di onnipotenza nel voler esercitare un controllo sulla vita altrui. Di tutto questo si renderà conto, almeno in parte, molto più tardi, e cercherà di "espiare". Ma, pur senza rivelare il finale della storia a chi non avesse letto il libro nè visto il film, voglio dire che la stessa modalità con cui Briony cercherà di espiare il suo "crimine" mantiene in qualche modo la caratteristica di voler re-inventare, ri-scrivere la realtà manifestando, ancora una volta, un desiderio di controllo sugli altri.
Espiazione mi ha richiamato alla mente un altro romanzo considerato ormai un classico, scritto anche questo da un inglese: parlo di Passaggio in India di Edward Morgan Forster. Ho colto tra i due romanzi parecchie analogie (ma anche molte differenze). Sarebbe interessante poterle sviluppare e ragionarci sopra, io credo.
Il film del 2007, diretto da Joe Wright, molto ben realizzato e piacevolissimo da vedere, è però uno di quei film che, pur restando molto fedele al libro per quanto riguarda il plot, banalizza però --- e non di poco, a mio parere -- il significato del comportamento di Briony. Nel film, infatti, viene fatto intendere abbastanza chiaramente come Briony abbia consapevolmente testimoniato il falso e che il suo movente sia stato da una parte il suo amore non corrisposto per Robbie e la sua invidia e gelosia nei confronti della sorella Cecilia. Per carità, la storia regge bene anche così, ed il film risulta comunque un ottimo film. Ma chi abbia letto attentamente il romanzo non può non cogliere questo impoverimento di senso. ETICA Le posizioni in tema di etica possono essere prese in due modi. In nome della verità e del dogma, con regole generali e astratte; oppure in nome della carità e della compassione, con atteggiamenti e comportamenti concreti
Giovanni Botero nella sua Della Ragione di Stato del 1589 scriveva, a proposito dei Modi di propagandar la religione: "Tra tutte le leggi, non ve n'è alcuna più favorevole a' Prencipi, che la Christiana: perché questa sottomette loro, non solamente i corpi e le facoltà de'sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora e i pensieri". Botero era uomo della controriforma. Purtroppo, c'è chi pensa ancora così, tra i nostri moderni "prencipi". Essi potrebbero far loro il motto di un discepolo di Botero che scriveva: "questa è la ragion di stato, fratel mio, obbedire alla Chiesa cattolica". Ora, se l'obbedienza alla Chiesa cattolica è la ragion di stato, è chiaro che i laici non troveranno mai un approdo comune con costoro
Gustavo Zagrebelsky etica “Morale” è ciò che pertiene ai mores, all’insieme dei comportamenti e delle abitudini cui un popolo obbedisce, anche senza che alcuna legge li abbia stabiliti. E’ così che mos può accompagnarsi, ma può anche opporsi a lex. Per sua natura (per la sua essenza convenzionale e pattizia) la legge non potrà mai esprimere quella “volontà generale” che invece si manifesta nella quasi intemporale consuetudine del costume. Questa diversa origine può sempre portare a conflitti: il costume resiste all’invadenza della legge “scritta”, e la laicità della legge vede nella sacralità del costume qualcosa che per essenza limita il proprio potere. L’ambito del mos, comunque, non può in nessun caso essere ridotto a quello della legge e dell’obbedienza alla legge. Esso coinvolge l’intera memoria veterum: custodisce l’insieme delle cerimonie, dei culti, degli istituti che i padri hanno tramandato. E per i quali si ha pietas - una cura tutta particolare: quella che si deve alla propria stessa radice, che sostiene la crescita presente. Si potrebbe dire che “morale” è l’indefettibile pietas per il proprio portante passato: avvertire il proprio stesso passato come eterno. Ancora più ricco di significati e implicazioni è il termine greco ethos che i latini traducono, appunto, con mos. L’opera lunga e complessa di intere generazioni che produce l’ethos non può concepirsi se non collocata. Ogni ethos ha il suo “pascolo” proprio, la sua certa dimora. Per essere, deve abitare. Socrate non oltrepassa mai i confini di Atene. Grazie a questo suo radicamento (al suo apparire, quasi, prodotto dal genius loci), tale ethos verrà da molti condiviso, creerà legami di reciproca appartenenza. Da ethos viene così hetairos, il compagno, l’”alleato” più sicuro, poiché allevato con me nel medesimo oikos (casa - ma la radice del termine greco è la stessa del vicus latino. L’hetairos non è il fratello di sangue, il parente, ma colui con il quale si condivide l’insieme delle consuetudini più antiche, e la pietas per esse). E un’affinità profonda collega questa famiglia di termini a quella che designa l’insieme dei liberi: la gente figlia legittima di una terra comune, nutrita da un “pascolo” comune. Ne risulta perciò questo quadro d’insieme: veramente libero (cioè, padrone di sé: e nel suus latino sembra risuonare la radice di ethos) è solo il comportamento etico-morale, nel senso che soltanto chi “interiorizza” perfettamente le abitudini, i costumi, le memorie della sua patria, e sulla loro base stringe durature alleanze, può dirsi veramente figlio della terra che lo nutre. In che senso potremmo, oggi, parlare di ethos? Dove vi è traccia ancora di una vivente memoria veterum? Come potremmo chiamare oikos la nostra “residenza” occasionale, fortuita? O hetairos, compagno, quel “passante” che incontriamo? Non consiste il senso stesso della nostra civiltà nell’”estenderci” oltre il passato, nel rimuoverlo, nell’”infuturarci” tutti? Non vi è più tempo perché organicamente si formi un’abitudine, un costume; i valori cui siamo educati son quelli della mobilità, della peregrinazione. E vengon da molto lontano: già l’ethos ellenistico, nel suo astratto universalismo, non è più ethos, secondo il più autentico etimo. Una “morale universale” (che il saggio illustra in ogni luogo e ad ogni uomo) non ha nulla a che fare né con i mores, né con gli ethe. E spietata, irreversibile si abbatte poi sugli dèi della polis e della stessa civitas la critica cristiana. Nessuna casa, nessuna città appaiono più idonee ad offrire rifugio alle miserie dell’uomo - anzi, esse saranno da riguardare piuttosto come luoghi sempre in potenza agitati da passioni e sopraffazioni, da sedizioni e liti. L’idea di fratellanza si astrae poderosamente da ogni sodalizio propriamente etico (ethos e sodalis hanno la stessa radice), per significare l’universale appartenenza alla Parola, all’Annuncio. La diversità dei luoghi e delle loro storie appare come una resistenza da superare, così come i tempi delle diverse nazioni e città si riducono all’indifferente unità del nostro computo degli anni. Senza incanti, senza nostalgie regressive va affrontato il problema: non solo nell’attuale vita metropolitana non vi è neppure memoria della dimensione della polis (che si accompagna al senso intatto dell’ethos - di più: polis presuppone l’assoluto primato del suo “tutto”, del suo cosmo, sulla molteplicità degli individui), ma neppure più vi si dà traccia di civitas (che è termine secondario, derivante dai cives), poiché civitas non può esservi al di fuori di quella “volontà generale” che si esprime nei mores e nell’effettivo riconoscimento del loro valore. Nell’”esplosione” della forma dell’urbs, del luogo della città, consiste l’estremo prodotto di questa storia di dissoluzione dell’ethos. Non è che finisca la forma tradizionale della città e perciò vada in malora ogni dimensione propriamente etica - è invece la crisi dell’idea di ethos che condanna la città: l’urbs diviene un indifferente momento dello spazio, o, piuttosto, un ostacolo, un pesante retaggio, per una civiltà della “universale mobilitazione”, un insopportabile arresto nel flusso del suo tempo. E di questo tempo noi siamo, volenti-nolenti, i “figli”: di nessun luogo e di nessun tempo, cioè, eticamente considerati. Da tale condizione dobbiamo partire, per cogliere i segni della sua possibile “catastrofe”, di un altro possibile mutamento di stato - che mai potrà semplicemente restaurare tramontate “morali”.
La “libertà“, per noi, da carattere proprio dei figli (dei liberi, appunto) stabilmente residenti in un luogo e custodi dei suoi valori, si è trasformata in libertà da ogni stabile legame, in libertà di movimento lungo tutte le direzioni. Avvertiamo come “nemico” ciò che ostacola o frena l’universale circolazione di cose, uomini, idee. Il movimento “progressivo” che ha assalito la città tende, fin dalla sua origine, a soddisfare una tale domanda, o, meglio, è parte integrante della cultura che tale esigenza esprime. […]
(da MASSIMO CACCIARI, Ethos e metropoli, MicroMega 1/1990, pp.39-48) etica «… La condotta di un individuo può essere giudicata morale a seconda della conformità o meno alle regole o ai valori vigenti e proposti. Eppure non basta. L’individuo diviene davvero soggetto morale se si rende responsabile della sua condotta, sia essa conforme alle regole e alle abitudini o difforme da esse. Nessun individuo può divenire da solo soggetto morale, ma non vi è morale se non vi è assunzione di responsabilità. Allo stesso modo non vi è né vi potrebbe mai essere credenza se l’individuo non divenisse interprete - più o meno originale - dell’universo simbolico a cui appartiene ed entro cui opera.
Ha ragione Foucault: “Se è vero che ogni azione morale implica un rapporto con il reale in cui si compie e un rapporto con il codice cui si riferisce, è vero altresì che essa implica un rapporto con se stessi, e questo rapporto non è semplicemente ‘coscienza di sé’, bensì costituzione di sé come soggetto morale”.
Bisogna dunque costituirsi come “soggetti morali”. Questo è più che mai urgente nel mondo contemporaneo. La complessificazione della società ha disarticolato i vecchi riferimenti: in essa si vengono sempre di più differenziando le prestazioni e i codici di condotta. Viviamo in una crescente asimmetria sociale che non è da concepire solo in termini di dispersione, ma anche di arricchimento. La dinamica della complessità ha dilatato gli spazi di libertà, ha implementato le nostre possibilità di scegliere e soprattutto di sceglierci, di modellare noi stessi con più ampia discrezione di un tempo. Ma per trarre giovamento dai mutamenti del presente bisogna esserne all’altezza. Gli uomini vivono sempre sotto il segno dell’ambiguità e la condizione contemporanea, al pari delle altre nella storia, non ne è priva. Ma vi sono difficoltà che sono specificamente nostre. Siamo esposti a rischi fino a ora mai sperimentati. Ne segnalo due: innanzitutto, corriamo spesso il pericolo d’essere travolti da quella stessa mobilità da cui dovremmo trarre vantaggi; in secondo luogo, per evitare la perdita d’identità indotta dalla celerità stessa delle mutazioni, ripariamo difensivamente nella serie. Abbiamo paura e perciò, lungi dal valorizzare le occasioni di libertà, accettiamo il regime: diveniamo passivi ed eterodiretti. Obbedienti involontari, senza neppure i vantaggi di questa celebre, antica virtù.
Per trovare stabilità in questa deriva dobbiamo costituirci più che mai come soggetti morali. A tale scopo è necessario ripiegare su di sé: bisogna raccogliere e governare la propria potenza. Divenire “soggetto morale” vuoi dire costituirsi come punto di resistenza a fronte della mobilità e delle perturbazioni dell’ambiente; ergersi a momento stabile di selezione/decisione. Se occorre, farsi luogo di neutralizzazione e di indifferenza: di assenza. Per far questo ci vuole abilità. In effetti questo è il significato originario della parola arete: virtù. Virtuoso è in primo luogo colui che è dotato di agilità, che sa trarsi fuori dalle difficoltà. Divenire legge a se stessi significa volgere la propria potenza in forma, il proprio desiderio in carattere. Questa e non altra era la ragione per cui gli antichi dicevano che ciò che è buono è bello e ciò che è bello è buono.
Ma il governo di sé non è operazione solipsistica. L’idea di virtù è sin dall’inizio legata al rapporto con gli altri, al riconoscimento. Questo meglio lo si comprende se si considera il significato del verbo greco cresco. Il termine deriva dalla medesima radice ar - da cui, appunto, arete - e vuoi dire piaccio, compiaccio, riesco gradito; significa perfino faccio ammenda. Virtuoso dunque è colui che se la sa cavare, ma è anche colui che sa compiacere, che sa chiedere scusa. Chi è legge a se stesso non invade lo spazio degli altri. In effetti, gli individui riescono a essere tanto più se stessi, quanto più si pongono in relazione agli altri: altri uomini, ma anche culture altre, tradizioni etiche diverse. È nell’incontro/scontro con le differenze che si guadagna l’identità. Non vi può essere consapevolezza di sé al di fuori dell’esperienza della differenza. …»
(SALVATORE NATOLI, Dizionario dei vizi e delle virtù, FELTRINELLI 1996, pp.8-9) etica della responsabilità L’etica della responsabilità è TIPICAMENTE un’etica laica. In che senso? Nel senso che non discende dall’adesione ad un sistema di valori ma dall’analisi della situazione concreta cui la si applica. Chi vi aderisce si chiede quali conseguenze scaturiranno dai suoi atti. E se ne assume la responsabilità.
L’etica dei principi o etica assoluta ( o della testimonianza o dei sentimenti o delle intenzioni) è un’etica TIPICAMENTE “religiosa”, nel senso più lato del termine. Chi vi aderisce si chiede se le sue azioni siano coerenti e lo mantengano fedele alla sua “chiesa”, o sistema di riferimento. In questo modo tende a respingere la sua responsabilita nei confronti delle conseguenze delle sue azioni. Europa nazioni L’Europa non può che essere una comunità di nazioni. Per diventarlo deve però riscoprire il senso e la funzione della Nazione, comunità molto più antica e forte, nella psiche collettiva, dello Stato moderno: il secondo legato alla conquista e gestione del potere, la prima legata all’identità e rappresentazione dei popoli. FAMIGLIE POLGAR A., PICCOLE STORIE SENZA MORALE,
ADELPHI, 1994, p. 29-31
Ora che il bambino è venuto al mondo, tutti, tranne il neonato, sono colmi di gioia. Parenti e conoscenti si volgono sorridendo all'omuncolo grinzoso, rosso come un tizzone, che dovrebbe risvegliare piuttosto un sentimento di pietà perché nell'attimo stesso in cui è entrato nella vita è anche entrato nella morte, e ogni secondo che lo allontana dall'istante del suo principio lo avvicina all'istante della sua fine. Ancora immortale nove mesi prima come un'idea eterna, come un principio divino, egli è già ora in balìa della morte; del capitolo del tempo di cui dovrà dirsi pago, ha già consumato un giorno intero. « Me genésthai! » dice il saggio, la cosa migliore è non essere generati. Ma a chi tocca questa fortuna? A stento a uno, su milioni e milioni. Il bambino strilla. Angustia e malessere sono i primi a bussare alla porta ancora serrata della coscienza, e con i loro colpi lo disturbano nel sonno. Gridando, il bambino leva un lamento, un'accusa per il fatto di essere al mondo. Gli adulti, assuefatti, incalliti forzati della vita, accolgono il nuovo venuto con il tipico umorismo che cela l'imbarazzo. Ipocritamente domandano: « Insomma, che c'è? » come se non sapessero benissimo che cosa c'è. Intonando nenie carezzevoli, il padre esorta il bambino a sorridere. Con occhi avidi va spiando questo sorriso come un segno che il povero essere si è rassegnato al destino di stare al mondo. « Avanti, fammi una risatina! » sussurra, e questo vuoi dire: Mostra che mi perdoni di averti scaraventato nella comunità dei viventi! L'amore paterno è in parte senso di colpa verso il figlio che è nato. Ma nei padri, com'è naturale, questo sentimento è incapsulato fino a essere quasi impercettibile, represso com'è dall'orgoglio del creatore, sebbene la breve mansione del padre nel generare la creatura, se la si paragona alla prestazione materna, non sia poi così impressionante. Dimora già un'anima nel mucchietto di cellule ar-moniosamente disposte? Sono già venute le buone fate a recare doni e talenti, e le streghe malvage che portano i primi complessi? La piccola macchina lavora a pieno ritmo; il cuore batte, il sangue corre, le ghiandole secernono, i polmoni liberano ossido di carbonio, e le dita piccine, minuscole punte di una forchettina di bambola, si serrano al dito del padre commosso. Il bambino afferra ciò che può raggiungere. Ecco, è un uomo! Ogni volta che un neonato apre gli occhi per la prima volta, si compie per suo tramite la rinascita dell'universo. È lui che schiude al mondo le porte attraverso le quali il mondo deve entrare per poter esistere. L'assalto è impetuoso, i teneri cancelli devono essere continuamente richiusi. Ma non c'è fretta, ogni cosa a suo tempo. L'occhio del bambino: qui un mondo si sporge a guardare dentro. L'occhio dell'adulto: un mondo si sporge qui a guardare fuori. Per questo esso è torbido come il vetro di un bicchiere sul quale aderiscono ancora molte tracce di ciò che è stato bevuto. Il bambino strilla. Ma quando riceve da bere, da un tenero, tenerissimo sospiro di sollievo, i suoi lineamenti si distendono, e a ogni piccolo sorso di latte sugge sul volto un sorso di pace. Così, fin dall'inizio, gli esseri umani sono corrotti dal nutrimento, piegati a reprimere i loro pensieri più veri, a non disturbare, a stare buoni. Ah, com'è buono il bambino! Anche il male è buono purché sia in miniatura. E buoni sarebbero l'inferno in formato tascabile, e perfino il diavolo, se apparisse grande quanto un pollice e con una codina di topo. La madre riposa, pallida e spossata. Si sente strana, così gradevolmente vuota e così dolorosamente abbandonata, così colma di doni e così brutalmente adoperata. E la sua anima, che rende grazie a Dio, confida intimamente nella sua gratitudine. Può ben pretenderlo, questo: il Creatore vive nelle sue creature, e ogni pezzette di nuova vita che nasce si aggiunge alla vita di Lui. Lieve, la porta si apre. La madre non si meravi-glierebbe per nulla se entrassero in punta di piedi i tre re dell'Oriente.
Ma è solo lo zio Poldi. FAMIGLIE CRESCITA SICUREZZA All'inizio è sempre geografia. Parola che mi porta a casa, parola che mi porta via. Basta pensarla, ne nasce storia. È il primo inverno della vita che ricordo. La notte cala presto. In cucina, vicino al fuoco, io e la nonna. Scoppiettio della legna e lenta sonnolenza, dentro. Fuori è il finimondo da tormenta, acqua, grandine, tuoni e fulmini. Il vento si infila tra le piagne del tetto, nelle fessure delle finestre muove vetri e telai, fa tremare le porte, ulula, fischia e risucchia tra le scale e il solaio. La nonna sta apparecchiando. La sua presenza argina e dissolve ogni paura possibile. E la mia forza, la mia sicurezza. Sostiene la casa tutta e il mondo intorno. «Bimbo! vai di sopra a prendere due mele che la nonna è stanca e non sta tanto bene.» È una richiesta spaventosa! Si tratta di uscire in corridoio, salire le scale fino al primo piano, aprire la porta cigolante scura e pesante della sala, attraversarla che, nell'angolo, sulle assi del pavimento sono conservate le mele dell'orto per l'inverno. Dire no alla nonna non si può. Dire sì come si fa? Di là dalla porta della cucina c'è il buio, gli spifferi gelidi, i rumori, le scale che dal fondo non si vede in cima. La paura. «Non avrai mica paura? Questa è la nostra casa e tu sei già un ometto.» Devo farlo. Non c'è dubbio. «Lascia la porta aperta così ci vedi.» La scala è ripida, gli scalini altissimi, sarà dura. I primi scalini li faccio in ginocchio tirandomi su a fatica. «Come va?» la voce della nonna mi rincuora. «Nonna.» «Sì, bimbo.» «Va bene, nonna.» La voce combatte la paura. Mi alzo in piedi e attaccato al corrimano salgo. Ogni scalino, prima un piede poi tutti due, un richiamo. «Nonna.» «Sì, bimbo.» «Sono qui.» «Bravo.» «Va bene.» «Bravo.» Dieci scalini, è fatta, spingo la porta e la grande stanza è tutta ombre. Solo la voce mi può aiutare. Più forte: «Nonna». «Sì, bimbo.» «Sono qui. Nella sala.» «Bravo. Prendi due mele e portale giù. Attento a non cadere.» Occhi e orecchie sbarrati arrivo alle mele e mi volto. La luce fioca che sale col tepore del fuoco, adesso in fronte, fa più facile il ritorno, ma le gambe mi tremano e devo sedermi sul primo scalino per riprendermi. Due mele nelle mani: «Nonna, ecco». L'eccitazione addosso e l'orgoglio di aver compiuto l'impresa. «Bravo bimbo, diventi grande alla svelta e la nonna è contenta, si può fidare di te. A tavola, adesso, che la cena stasera te la sei guadagnata come un ometto.» Questo è il primo ricordo che lego alla scoperta del mondo. Una scoperta concentrica per allargamento. ...
In Giovanni Lindo Ferretti, Reduce, Mondadori, 2006, 41-43 FAMIGLIE EDUCAZIONE “Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore della verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere. Di solito invece facciamo il contrario: ci affrettiamo a insegnare il rispetto per le piccole virtù, fondando su di esse tutto il nostro sistema educativo. Scegliamo, in questo modo, la via più comoda… . Trascuriamo d’insegnare le grandi virtù, e tuttavia le amiamo, e vorremmo che i nostri figli le avessero: ma nutriamo fiducia che scaturiscano spontaneamente nel loro animo, un giorno avvenire, ritenendole di natura istintiva, mentre le altre, le piccole, ci sembrano il frutto d’una riflessione e di un calcolo e perciò noi pensiamo che debbano assolutamente essere insegnate. In realtà la differenza è solo apparente: Anche le piccole virtù provengono dal profondo del nostro istinto, da un istinto di difesa: ma in esse la ragione parla, sentenzia, disserta, brillante avvocato dell’incolumità personale. Le grandi virtù sgorgano da un istinto in cui la ragione non parla, un istinto a cui mi sarebbe difficile dare un nome. E il meglio di noi è in quel muto istinto: e non nel nostro istinto di difesa, che argomenta, sentenzia, disserta con la voce della ragione. L’educazione non è che un certo rapporto che stabiliamo fra noi e i nostri figli, un certo clima in cui fioriscono i sentimenti, gli istinti, i pensieri. Ora io credo che un clima tutto ispirato al rispetto per le piccole virtù, maturi insensibilmente al cinismo, o alla paura di vivere. Le piccole virtù, in se stesse, non hanno nulla da fare col cinismo, o con la paura di vivere: ma tutte insieme, e senza le grandi, generano un’atmosfera che porta a quelle conseguenze. Non che le piccole virtù, in se stesse, siano spregevoli: ma il loro valore è di ordine complementare e non sostanziale; esse non possono stare da sole senza le altre, e sono, da sole senza le altre, per la natura umana un povero cibo. Il modo di esercitare le piccole virtù, in misura temperata e quando sia del tutto indispensabile, l’uomo può trovarlo intorno a sé e berlo nell’aria: perché le piccole virtù sono di un ordine assai comune e diffuso tra gli uomini. Ma le grandi virtù, quelle non si respirano nell’aria: e debbono essere la prima sostanza del nostro rapporto coi nostri figli, il primo fondamento dell’educazione. Inoltre, il grande può anche contenere il piccolo: ma il piccolo, per legge di natura, non può in alcun modo contenere il grande.” Natalia Ginzburg, Le piccole virtù FAMIGLIE MADRI Certe madri hanno bisogno di figli infelici, altrimenti la loro bontà di madri non può manifestarsi."
Friedrich Wilhelm Nietzsche filosofia “Si ignora anche la grandezza filosofica di Eschilo.
E la cosa è anche più grave. Insieme a pochi altri,
egli apre il cammino dell’Occidente.”
(E. Severino, Il nulla e la poesia)
Esiste un arco che ha ai suoi estremi Eschilo e Leopardi. La parabola che corre dall’uno all’altro è ciò che chiamiamo Occidente. Con Eschilo nasce infatti l’illusione essenziale: che la conoscenza della verità - quella parte della verità certa e immutabile a portata della ragione degli uomini - è il solo rimedio che la nostra specie abbia per salvarsi dal dolore. Il dolore essenziale è quello della morte. La verità è il rimedio al dolore per la propria incompiutezza e mortalità perché la verità come epistéme “è il rimedio al dolore, perché mostra incontrovertibilmente che la sostanza di tutti gli essenti, è eterna, “sempre salva” dal niente (Aristotele, Metaph. 983 b 13” (E. Severino, Il nulla e la poesia).
Solo con Leopardi questo percorso trova il suo epilogo; perché “Leopardi, per primo, pensa che la verità è appunto l’annientamento della vita e delle cose e che quindi non può essere il rimedio del dolore. La verità è il dolore” (Ibid.).
Ancora:
“Nel pensiero di Leopardi la fede nell’“evidenza” del divenire acquista una intensità che non aveva mai avuto: con estrema potenza testimonia ciò che per essa è la visibilità pura, la luce piena dove appare che l’annientamento non distrugge (e la creazione non produce) semplicemente gli aspetti accidentali e individuali, ma la sostanza stessa e l’intera consistenza dell’essente. Testimonia il “nulla verissimo e certissimo delle cose” (Zib. 103)” (Ibid.).
“Che l’angoscia estrema sia prodotta dall’annientamento degli essenti e dal loro provenire dal nulla è uno dei tratti essenziali e decisivi delle origini del pensiero filosofico. Riceve la sue espressione più grandiosa da Eschilo; guida l’intera storia dell’Occidente; il pensiero di Leopardi ne è la testimonianza più pura, all’inizio del processo in cui la cultura contemporanea rifiuta il rimedio che la tradizione dell’Occidente aveva preparato contro l’angoscia del nulla: la ragione come rimedio. E’ “la ragione umana... incapace di farci non dico felici ma meno infelici”; anzi, è “fonte ... di assoluta e necessaria pazzia” - anche se, certo, “verissima pazzia” (Zib. 103-4).” (Ibid.). filosofia Gli altri formano l'uomo; io lo racconto e ne rappresento uno in particolare assai mal fatto, e il quale, se avessi da modellare nuovamente, farei invero diverso da quel che è. Oramai, è fatto. Ora, le linee del mio ritratto non si disperdono, benché cambino e si diversifichino. Il mondo non è che un movimento continuo. Ogni cosa vi si muove senza tregua: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d'Egitto, e del movimento pubblico e del proprio. La stessa costanza altro non è che un movimento più languido. Non posso assicurare il mio oggetto. Se ne va fosco e barcollante, di una ebbrezza naturale. Lo colgo in questo punto, come si presenta, nell'istante in cui me ne interesso. Non dipingo l'essere. Dipingo il passaggio [.]. E' un controllo di diversi e mutevoli avvenimenti cangianti e d'immaginazioni irrisolte e, quando capita, contrarie; che io sia un altro me stesso, o che io colga i soggetti da altre circostanze e considerazioni. Tant'è che mi contraddico talvolta, ma la verità, come diceva Demadio, non la contraddico affatto. Se la mia anima potesse essere ferma, non mi saggerei, mi risolverei; è sempre in formazione e in prova. Quella che propongo è una vita semplice e senza lustro, è un tutt'uno. Si può legare altrettanto bene tutta la filosofia morale a una vita popolare e privata che a una vita di stoffa più ricca; ciascun uomo porta in sé la forma intera dell'umana condizione. Michel de Montaigne Saggi (vol.III)
------------------------------------------------------------------------------------------------------- Analisi testuale
Titolo:
Il titolo sembra perdersi nell'insieme tanto vasto quanto anonimo del genere del saggio. In realtà, il contenuto di questo passo mostra fino a che punto esso sia significativo ed appropriato: il libro si intitola "saggio" precisamente e letteralmente perché lo scopo dell'autore è quello di saggiarsi attraverso la scrittura, e allo stesso tempo quello di farsi saggiare dal lettore. Infatti, l'oggetto del libro è il racconto di sé in quanto uomo ("io racconto [l'uomo] e ne rappresento uno in particolare"). Un riferimento chiaro al legame che c'è tra il titolo e il saggiarsi si trova alla fine del primo paragrafo: "Se la mia anima potesse essere ferma, non mi saggerei, mi risolverei"; qui Montaigne indica esplicitamente la ragione del suo libro, e quella della scelta del titolo.
Oggetto:
Se è vero che l'oggetto del racconto è un uomo "in particolare", ciò non significa che esso sia "degno" di essere "raccontato" per motivi a lui intrinseci: quest'uomo non è né particolarmente importante né in alcun modo esemplare ("ne rappresento uno assai mal fatto" - par. 1; "Quella che propongo è una vita semplice e senza lustro" - par. 2). In altre parole, qui non si tratta, come nel caso delle Confessioni di Rousseau (1765-70), di parlare di sé perché si vuole rivendicare la dignità del soggetto individuale. L'IO narrante parla di sé unicamente perché appartiene al genere umano, come uno dei tanti possibili rappresentanti dell'Uomo, perché "si può legare altrettanto bene tutta la filosofia morale a una vita popolare e privata che a una vita di stoffa più ricca" (par. 2).
Forma:
Come abbiamo già detto, l'oggetto del libro è il racconto di sé. Ma questa osservazione necessita di alcune precisazioni. Gli Essais (Saggi) di Montaigne non sono né un diario né un'autobiografia: infatti, a differenza del diario, non abbiamo nessuna successione cronologica né divisione in sezioni con datazioni diverse; e a differenza dell'autobiografia, non ci viene presentata la vita di un uomo che è importante nella sua individualità (storica, sociale, ecc.), raccontandola secondo uno schema ordinato e volto a dimostrare qualcosa. Gli Essais sono il risultato di una scrittura aperta, il cui unico scopo è quello di "raccontare" un uomo.
Ritmo:
Dato che non segue nessun ordine, né cronologico né causale, la narrazione, ci avverte Montaigne, si sviluppa seguendo i pensieri del narratore, attraverso un movimento fluido e altalenante, retto unicamente dalla legge della libera associazione di idee. Essa perciò sembra essere lasciata andare a briglia sciolta, in maniera disordinata e incoerente; in realtà, è il frutto di un attento criterio stilistico, di un vero e proprio metodo sperimentale: come ha fatto notare un famoso critico, Auerbach*, il ritmo narrativo in Montaigne è spiegato e giustificato (dallo stesso autore- narratore) attraverso un preciso sillogismo: 1. Io racconto un uomo particolare (me stesso) 2. Ogni cosa nel mondo è in continuo movimento e cambiamento 3. Perciò: io, che faccio parte del mondo, sono in continuo movimento, e la mia narrazione, che si vuole adattare al suo oggetto, è altrettanto mutevole.
Temi principali:
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Il divenire: la maggior parte del primo paragrafo è interamente dedicata a questo tema. Attraverso la constatazione che tutto, nel mondo, è in movimento, per motivi esterni o propri ("del movimento pubblico e del proprio"), Montaigne arriva a spiegare come il suo oggetto (cioè se stesso) gli sfugga ("se ne va fosco e barcollante"). L'unico modo per lui di "assicurarlo" (di catturarlo, di coglierlo) è quello di prenderlo "così come si presenta", cioè in movimento. Perciò può affermare di non dipingere l'essere (ciò che è stabile), ma il passaggio. Per lo stesso motivo lui, al contrario degli altri, non può formare l'uomo, ma soltanto raccontarlo, poiché per formarlo bisognerebbe averne prima fissato l'essenza. Di nuovo, questa è pure la ragione per cui egli, in quanto essere mutevole, non può risolversi, ma unicamente saggiarsi. * La semplicità: Montaigne insiste nel ribadire che egli non "racconta" se stesso perché ha particolari qualità che lo rendono interessante in quanto individuo. Si presenta come "una vita semplice e senza lustro", non tanto perché ciò sia vero in pratica (Montaigne era, in effetti, un nobile ed una delle persone più in vista in Francia all'epoca in cui ha vissuto), quanto perché così è nelle intenzioni: se avesse voluto raccontare di sé come uomo illustre, avrebbe potuto farlo benissimo, ma ciò che gli preme è il raccontarsi come uomo. Egli richiede a se stesso una sola qualità: l'umanità, perché tanto basta alla sua filosofia morale. * La verità: l'unica condizione richiesta dal suo lavoro è la sincerità nel parlare di sé. Questa condizione è seguita in maniera molto rigorosa da Montaigne, tanto da poter affermare che persino nella sua incoerenza egli è in realtà perfettamente coerente con la propria natura ("mi contraddico talvolta, ma la verità, come diceva Demadio, non la contraddico affatto").
Osservazioni conclusive:
* La differenza tra un libro come Le confessioni di Rousseau e i Saggi di Montaigne riflette la differenza che esiste tra due secoli tanto distanti come il '700 e il '500. Quando Rousseau, da vero pre-romantico, decide di scrivere un libro su se stesso, l'intento principale è quello di rivendicare la dignità della propria persona in quanto possibile oggetto di un libro (ricordiamo che Rousseau era un borghese, e che si rivolgeva ad un pubblico principalmente aristocratico). In Montaigne non c'è alcuna rivendicazione personale ed individuale: se scrive di sé, è il proprio essere uomo che lo interessa, ed in questo rispecchia perfettamente il '500, secolo dell'Umanesimo. * Come abbiamo visto, gli elementi principali di questo passo sono: 1) la volontà di presentare se stessi in maniera semplice e al contempo rigorosa; 2) la necessità di parlare del proprio oggetto attenendosi alla verità; 3) il desiderio di cogliere questo oggetto nella sua complessità e totalità; 4) la necessità di adeguare lo stile narrativo all'oggetto della narrazione. Tutti questi elementi riflettono perfettamente il pensiero rinascimentale, che si contraddistingue, tra l'altro, per il tentativo di costruire un sistema stabile al cui centro stia una visione armoniosa e completa dell'Uomo.
* Erich Auerbach, Mimesis (Il realismo nella letteratura occidentale), Vol. II, cap. 2. filosofia coscienza laica "coscienza laica: quella parte di coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la verità per se stessa e non peR appartenere a una istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa lo fa perchè ne è profondamante convinta e non perchè l'abbia detto uno dei numerosi papi o uno degli altrettanto numerosi papi della cultura laicista" Vito Mancuso, L'anima e il suo destino, Raffeallo Cortina, 2007 p. 1 filosofia coscienza laica “coscienza laica”:
“intendendo con ciò quella parte della coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la verità per se stessa e non per appartenere a un'istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa, lo fa perché ne è profondamente convinta, e non perché l'abbia detto uno dei numerosi papi, o uno degli altrettanto numerosi antipapi della cultura laicista. La vera laicità significa ritenere conclusivo non il principio di autorità ma la luce della coscienza.” Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina 2007, pag 1 FILOSOFIA ETICA La legge morale - dice Kant nella Critica alla ragion pratica, I, 1, 3 - deve essere concepita e accettata come un dovere "utile e valido" in sé (questo è quanto ribadisce anche Hegel nel paragrafo 503 dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche). Il punto è comunque sempre relativo alla questione dell'autorità. E' necessaria un'autorità che parli agli altri o "per conto degli altri" sui temi della morale? E se sì, da dove questa autorità trae e legittima (vorrei quasi dire "sussume", visto che l'ambito morale è sempre personale) le proprie argomentazioni fino a reputarle "legittime"? E ancora, possono queste argomentazioni avere valore universale? Se consideriamo la morale al pari delle altre forme di conoscenza, dovremmo dire che non esiste in sé una logica che giustifichi un'autorità nel campo della morale. Kantianamente parlando, ognuno costruisce la propria impalcatura morale inserendola nel più ampio "spettro" delle morali altrui al fine di coabitarvi. Se invece vogliamo considerare, con Hume e i naturalisti, la morale svincolata dalle altre forme di conoscenza umana e collocarla in un ambito più "utilitaristico", legata cioè alle contingenze temporali e pratiche, allora il discorso cambierebbe ancora. Ma risulta chiaro che essa perderebbe gran parte di quei "valori" universali a cui potrebbe far riferimento, di volta in volta, una qualsiasi autorità che volesse proporla o - peggio ancora - "imporla". A differenza di altri, sui temi della morale non ho certezze, anche se - ovviamente - è uno dei temi che più indago e che più mi sta a cuore. Non credo che una vita incentrata su una morale - per così dire - "autonoma", abbia minori garanzie di "validità" rispetto a quella che segue principi "dettati" dall'alto. Non credo cioè sia una questione di valori "orizzontali" o "verticali" ad informare un principio etico, quanto piuttosto la capacità di considerare che le pretese dell'altro, se non vogliono conculcare il mio "principio particolare", sono lecite. Diverso è quando, su molto vaghi e fumosi "principi universali", si vuole concentrare una vasta idea di morale; qui il rischio di sfociare in un certo "assolutismo" del pensiero è assai probabile. Come probabile diventa anche il pericolo di una radicalizzazione delle varie "morali", fino al mancato riconoscimento dell'altro o - peggio ancora - alla pretesa "immoralità" di chi non accoglie il principio etico di una autorità autoproclamatasi "morale", anche in palese contraddizione con la propria storia e la propria pratica quotidiana. FILOSOFIA LOGOS Logos in greco è un termine assai plastico, che significa abitualmente «parola», intesa nelle sue forme più diverse («discorso», «racconto», «detto», «resa dei conti»…). Ma vuol dire anche «ragione», «senso», e la sua radice leg- richiama una raccolta, un nesso, un legame. Appartiene al linguaggio comune, ma da Eraclito nel VI sec. a.C., è stato introdotto in quello filosofico per indicare il principio universale e coesivo del mondo FILOSOFIA MICHEL DE MONTAIGNE «Non conosco libro più calmo, e che disponga maggiormente alla serenità» scrisse Flaubert dei Saggi, e certo, tra i grandi libri in cui si è espressa la cultura occidentale, non molti sono quelli che presentano altrettanto immediata l’impronta di uno spirito sereno, coordinatore sovrano e misurato di un’infinita e fluttuante varietà di contenuti. Sorretta da una curiosità che non si arresta davanti a nulla, l’indagine serrata (se pure niente affatto sistematica) che Montaigne conduce nel suo libro vede i suoi risultati ridotti a un’unica costante che è lo studio di sé, delle proprie humeurs et conditions, e attraverso di esso arriva alla rappresentazione dell’uomo «dipinto per intero, e tutto nudo». Persuaso che tutto sia stato detto e preoccupato di dimostrare che lo spirito umano rimane sempre simile a se stesso, egli giunge, paradossalmente, alla conclusione che nulla può dirsi che sia certo, se non che tutto è incerto. Questo gli apre le porte per un viaggio senza fine all’interno di se stesso, solo oggetto possibile della sua ricerca perché il solo verificabile mediante l’esperienza diretta e, in fondo, il solo interessante per lui: «Io oso non soltanto parlare di me, ma parlare soltanto di me…». Le parti sono così rovesciate; l’uomo non deve accettare una linea di condotta precostituita, anche se resa venerabile da una tradizione solida e ormai acquisita, né districare nella selva di dottrine contraddittorie quella che gli serva come filo conduttore per la propria vita; egli deve piuttosto esprimere un modo di vita che si propone appunto di essere peculiare e unico. Questa accanita, quasi puntigliosa reductio di tutta la cultura precedente è stata indubbiamente la grande scoperta di Montaigne, e quella che ha fatto dei Saggi un punto fermo nella storia della cultura occidentale. Il libro è sì la grande summa in cui vengono esposte, criticate, parzialmente accettate o respinte con stupefacente libertà di giudizio le teorie tradizionali più generalmente accolte, il grande serbatoio attraverso cui fluisce lo spirito classico e in cui si raccolgono, filtrate, tutte le principali correnti del pensiero antico, ma soprattutto è la prima grande rappresentazione moderna dell’uomo nella sua condizione tutta umana, sradicata, parrebbe, dal suo rapporto esistenziale con la totalità – ma non da quello con la Natura –, dell’uomo come unico punto di riferimento per ogni azione e ogni giudizio. L’uomo di Montaigne, questo soggetto «vano, vario e ondeggiante», non è più l’eroe che cerca di superare la propria condizione in uno sforzo tragico o mistico, ma l’uomo nuovo, l’honnête homme, che accetta se stesso, le sue potenzialità e i suoi limiti. I Saggi sono perciò il primo grande sforzo, pienamente consapevole, di fare dell’indagine psicologica e morale la sostanza stessa dell’attività letteraria, giacché il chiarire a se stessi per mezzo della parola le proprie «fantasie informi» diventa in realtà un modo di vivere più compiutamente: «Non son tanto io che ho fatto il mio libro, quanto il mio libro che ha fatto me, libro consustanziale al suo autore, di un’utilità personale, membro della mia vita...». Da risvolto della edizione Adelphi FILOSOFIA MICHEL DE MONTAIGNE QUALCHE RIFLESSIONE SU MICHEL DE MONTAIGNE Giovanni Greco Università di Bologna
Il Viaggio in Italia di Montaigne - per molte ragioni già chiarite da voci attendibili e per altre che tenterò qui di esporre - può considerarsi un classico tout court. Così, preliminarmente, mi chiedo con Roberto Roversi: «Sono ancora i classici il ponte di liane degli incas, tremolanti su tremendi strapiombi, che con filo di dura corda e pezzetti di legno uniscono ripe lontane e contrapposte altrimenti inaccessibili? Resistono ancora ad essere lo specifico miracoloso di lunga durata?». E la risposta, per me come per numerosi altri lettori, è sì: non dobbiamo, per esempio, resistere alla tentazione di attraversare la passerella tesa fra la società organizzata e la giustizia ingiusta dell’emarginazione, o fra le più diverse sensibilità contemporanee e le antiche tradizioni culturali. Per di più, i classici antichi e moderni ci consentono di alimentare - è proprio Montaigne a sostenerlo persuasivamente - «un retrobottega tutto nostro, assolutamente autonomo, ove conservare la nostra libertà, avere il nostro più importante rifugio, godere della nostra solitudine».
Montaigne non coltiva pregiudizi di stile, ma ha il culto costante dell’antico classico, a cui consacra riflessioni di notevole respiro, alla Sainte-Beuve per intenderci. Nel panorama del pensiero moderno poi, come si sa, occupa un ruolo davvero centrale il nostro Michel Eyquem, signore di Montaigne, latifondista benestante e produttore di vini, autore sostanzialmente di un’unica, incomparabile opera, i Saggi. Invero, il Viaggio in Italia di cui ora ci occuperemo - anche leggendolo come uno specchio dell’epoca mirabile e miserabile in cui è stato steso - può considerarsi de plano un arricchimento ed un potenziamento degli Essais, nonché una chiave con cui penetrare nell’essenza spirituale del Rinascimento europeo.
Montaigne - questo inesauribile maître à penser cinquecentesco che ci accade così sovente di sentir prossimo alla nostra inquieta “condizione postmoderna” - soffre sì del mal della pietra, ma trova nelle ragioni terapeutiche pure un pretesto onde intraprendere un viaggio intensamente desiderato: si reca, pertanto, nelle più rinomate stazioni termali dell’epoca, dai bagni di Plombières ai Bagni della Villa (l’odierna Bagni di Lucca), presso cui si sottopone alle varie cure con una diligenza venata di scetticismo, che non sa farsi troppe illusioni su risultati e giovamenti.
Montaigne amava talmente viaggiare, visitare luoghi sconosciuti che, alla stessa stregua del lettore trasportato ed avvinto dal libro che sfoglia, soffriva nel timore che l’opera stesse per giungere alla conclusione: «aveva tanto piacere di viaggiare che odiava la vicinanza del luogo in cui si sarebbe dovuto fermare».
Il Viaggio in Italia non era destinato alla pubblicazione, e fu scritto in buona parte (poco meno della metà) da un famiglio di Montaigne di cui non ci è nota l’identità, ma che - come acutamente chiarito da Fausta Garavini, esegeta ed interprete straordinaria dell’intera opera montaignana - era tutt’altro che sprovveduto dal punto di vista culturale. A partire dal soggiorno lucchese, Montaigne prova quindi a cimentarsi con la lingua italiana, che dimostra peraltro di saper usare con una certa studiata familiarità.
Se il Viaggio in Italia di Stendhal «è uno stupendo romanzo», se quello di Montesquieu - anch’egli, come Montaigne, grande cittadino di Bordeaux - risulta ictu oculi pieno di vita, colore e gusto, il Viaggio in Italia del nostro homme de lettres - lo ha sostenuto con dovizia di argomenti Guido Piovene - è certamente assai meno pretenzioso, ma, fra tutti i libri riconducibili a questo genere oltremodo apprezzato e fortunato, è il più bello e il più moderno in assoluto. Non casualmente Sergio Solmi riteneva che i lavori di Montaigne rappresentassero un’autobiografia di pensieri più che di fatti: peraltro, già il grande Sainte-Beuve era convinto che Montaigne, autore superbo per profondità e universalità, fosse l’ “Orazio dei francesi”: «Il suo libro è un tesoro di osservazioni morali e di esperienza. A qualsiasi pagina lo si apra e in qualsiasi condizione di spirito, si può star sicuri di trovarci qualche pensiero saggio espresso in modo vivido e duraturo, che spicca immediatamente e s’imprime, un bel significato in una parola piena e sorprendente, in una sola lega forte, familiare o grande».
Montaigne ha quella che è forse la dote più rilevante dell’autentico viaggiatore, ossia la consapevolezza di non essere superiore a nessuno; non accetta che il viaggiatore girovaghi per il mondo lamentandosi di non trovare ciò a cui è abituato: gli piace per contro adeguarsi alle varie peculiarità territoriali, e mai compirebbe un viaggio per comprovare un preconcetto. Ciononostante, il confronto fra i paesi tedeschi e gli italiani è a nostro netto svantaggio per l’ordine, la cucina, il benessere, l’onestà, gli edifici, le finiture, le finestre senza vetri, gli alloggi, le seduzioni inferiori alle attese, le donne etc.
Il “bastione Montaigne”, per utilizzare certe tipologie di Albert Thibaudet, è il bastione dell’uomo interiore, con gocce di sangue ebraico (la madre era ebreo-spagnola), tradizionalista, moderno, cosmopolita, cattolico, antisistematico, tant’è che «stoicismo, epicureismo, scetticismo coesistono in lui». Montaigne è, per dirla con Giovanni Macchia, il maestro del dubbio, del dubbio inteso come antidoto onde tentare di giungere alla verità per quanto concerne sia il passato sia il presente, il dubbio, ancora, che pervade le ombre e i contorni del futuro. Montaigne sostiene poi che «la peste dell’uomo è il credere di sapere», e desidera discorsi che «colpiscano il dubbio là dov’è più forte», coltivando perciò il dubbio e le cose nella loro essenza. Non per caso Sainte-Beuve definì ore rotundo Montaigne «le français le plus sage qui aie jamais existé». Fra le altre cose, il nostro filosofo dirà dei commentatori dei suoi tempi che «c’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose».
Montaigne, che ha conosciuto il latino come lingua madre e nutre un’autentica adorazione per la poesia, è nemico giurato della noia e di ogni forma passiva e sterile di ozio, nonché scrittore che afferma persuasivamente di sforzarsi di comporre la sua opera con la maggior sincerità possibile: egli sottolinea con energia quest’ultima, rara qualità già nel decisivo ed incisivo incipit dei Saggi («Questo, lettore, è un libro sincero»), indicando così con efficacia il percorso che intende seguire, un progetto che al centro ha la sua stessa persona («sono io la materia del mio libro»). Del resto, in uno dei suoi più riusciti autoritratti egli prova a spiegare come vede se stesso e perché parli di sé in quel suo modo sconcertante e inconfondibile: «Se dico cose diverse di me, è perché mi guardo da angolature diverse. Tutti gli opposti si ritrovano in me in qualche piega o maniera. Discuto, insolente; casto, lussurioso; chiacchierone, taciturno; laborioso, svogliato; ingegnoso, ottuso; triste, allegro; imbroglione, sincero; dotto, ignorante e liberale, e avaro, e prodigo, tutto ciò io lo vedo in me in qualche modo, a seconda di come mi giri; e chiunque si studi attentamente trova in se stesso, e anzi nel suo stesso giudizio, questa volubilità e discordanza. Non posso dir nulla di me una volta per tutte, semplicemente e per sempre, senza confusione e mescolanza, né in una parola».
Montaigne è l’uomo di provincia esemplare, è davvero uno scrittore nato, è una coscienza fine ed irrequieta legata anche sentimentalmente alle discipline giuridiche, è un letterato che, per così dire, si consegna alla carta, è un filosofo che ritiene l’aspirazione alla saggezza una sorta di gioia permanente. Ha una visione grosso modo laica di quel cattolicesimo che stima una pratica virtuosa significativa, il miglior modo (forse) di cogliere elementi di autentica religiosità.
E’ perfettamente consapevole, comunque, della straordinaria difficoltà, per gli uomini, di riconoscere ed afferrare la verità, convinto com’è che la verità umana, per dirla con Spagnol, si trova più spesso arrotolata fra i panni sporchi che non nelle pieghe delle solenni cartapecore. Gli è inoltre ben noto che, non di rado, la conoscenza del vero è conoscenza del nero (Rigoni). Montaigne sembra persino credere che, se è opportuno tendere sempre e comunque alla verità, essa tuttavia va probabilmente rivelata solo di quando in quando. In piena sintonia con lui è un altro grande moraliste, quell’Oscar Wilde persuaso del fatto che «la verità di rado è pura, e non è mai semplice». Ancora, basta una semplice lettura dell’opera montaignana per comprendere non solo quanto gli stessero a cuore quei temi e problemi di natura morale e pedagogica che andava costantemente indagando nei suoi diletti libri, così come nel proprio non meno amato percorso esistenziale, ma anche quanto fosse forte in lui - che reputava fra l’altro, evangelicamente, l’uomo un umilissimo vaso d’argilla - il gusto per le sentenze bibliche e classiche.
La sua Weltanschauung sfocia nel concetto di salute fisica e morale, come acutamente sostenne in pagine famose Sergio Solmi, che definì la “salute” di Montaigne una qualità innata, un elementare e supremo equilibrio di vita. Quindi: tener saldo il fisico e non consentire alcun condizionamento alla moralità, per definire un modello di vita preciso e costruttivo. E non mi sembra davvero un caso che uomini tutt’altro che ingenui e sprovveduti abbiano deciso di formarsi in maniera a un tempo virtuosa e serena, severa e tollerante, virile e delicata, leggendo e rileggendo Montaigne: in verità, gli Essais sanno suscitare come ben pochi libri, nell’animo del lettore non distratto, il desiderio autentico, la volontà di autoeducarsi in maniera equilibrata.
Nei Saggi - ove l’antropologo (in senso etimologico) prevale sul cronista, che la fa invece da padrone nel Viaggio in Italia - la preoccupazione maggiore di Montaigne è, come accennato, che le sue pagine siano immediatamente percepite come un libro sincero. Aspira perciò a presentarsi senza infingimenti ed assicura che, se si fosse trovato fra popoli primitivi, si sarebbe denudato completamente: «Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere semplice, naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale». FILOSOFIA PSICANALISI SENSO L'ultimo tratto di percorso del Pensiero Uno è scaturito, al termine del mio percorso, come ultima risposta all'interrogativo che mi si era imposto fin dall'infanzia: - Cosa vuole dire che è ciò che è? Incalzata da questo interrogativo, durante l'adolescenza ne cercai risposta nel pensiero filosofico. Ma neppure l'ontologia hegeliana, pur nella sua visione di sintesi, mi si presentava come esaustiva, in quanto la vita, nella sua concreta oggettualità, ne era irrecuperabilmente esclusa. La vita stessa allora mi costrinse a cercare la risposta nella scienza biologica, la quale immediatamente mi svelò l'ordine evolutivo delle forme viventi come l'ordine di una dinamica evolutiva del pensiero. Mi sembrò allora giunto il momento di tornare alla filosofia, per trovare la sintesi tra spirito e materia nella ritrovata coincidenza tra pensiero e vita. Ma ancora una volta la vita mi indicò che era un'altra la strada da percorrere, quella della riflessione della vita su se stessa: la strada della psicoanalisi. Fu così che scoprii anzitutto che il metodo psicoanalitico è l'attuazione concreta della dialettica hegeliana, in quanto in esso è il soggetto umano, e non più un soggetto astratto, a prendere da sé la distanza riflessiva per conoscere se stesso; e scoprii ancora che ciò di cui il soggetto umano fa conoscenza è lo stesso metodo del conoscersi del Pensiero che, a partire dal primo manifestarsi dell'Essere, quale proiezione del Soggetto Pensante Uno fuori di sé, ha dato luogo a tutto ciò che è. A questo punto un nuovo tentativo di evidenziare la sintesi tra spirito e materia in una rilettura dialettica del pensiero filosofico fu ancora una volta reindirizzato verso una trattazione scientifica dello strutturarsi del cosmo, a partire dal primo farsi della materia quale oggettiva-zione del Pensiero nel pensato di sé che è ancora lui stesso. È qui che in me si fece l'esperienza vivente della originaria dualità dell'Uno e si compì un ulteriore salto riflessivo, grazie al quale la logica della separazione tra soggetto e oggetto si risolse nella logica unitaria dell'in- tersoggettività. Da qui in poi, grazie alla progressiva consapevolizzazione di questo più elevato livello di riflessione come realtà concreta nella quotidiana esperienza dell'intersoggettività, il Pensiero affrontò e infine risolse il problema della coincidenza tra il noumenico e il fenomenico; coincidenza nella quale esso riconobbe la sua realtà di Unico Vivente. È a questo punto che la vita mi ha risospinto infine verso la filosofia, per ripercorrere la via da essa tracciata a partire dalla crisi del Pensiero Uno, già colta da me adolescente, scaturita all'inizio del XX secolo dalla messa in questione del pensiero hegeliano e risolta all'inizio del nuovo millennio nella visione unitaria dell'Essere quale punto di arrivo del pensiero psicoanalitico. E da questa visione unitaria dell'Essere è emersa l'ultima risposta all'interrogativo essenziale della mia esistenza: - Cosa vuole dire che è ciò che è? - Vuole dire che ciò che è è l'esserci della presenza al cospetto d'altra presenza quale è infinito della vita.
In : Silvia Montefoschi, L'ultimo tratto di percorso del Pensiero Uno. Escursione nella filosofia del XX secolo, Zephyro Edizioni, Milano 2006 filosofia religione Qual è la differenza tra religione e filosofia?
Per la filosofia la trascendenza è l'uomo stesso che, pur essendo un ente finito, è capace di pensare l'infinito. La religione stabilisce una scissione tra immanenza e trascendenza, proponendo se stessa come tramite tra queste due entità altrimenti tra di loro incommensurabili
Massimo Cacciari giardino Più miti sono ora le mattine, le noci si colorano di scuro; più rotonda è la guancia delle bacche, la rosa ha lasciato la città.
L’acero sfoggia sciarpe più festose, ed il prato si veste di scarlatto - Per paura di essere fuori moda, voglio mettermi un ciondolo. Emily Dickinson GIARDINO Un commento di Federico al post precedente mi fa domandare a quale albero o pianta potrei mai rinunciare. Non mi priverei certamente del viburnum tinus (soprattutto di quello "francese": più compatto e rosato), e poi, potrei rinunciare ad avere almeno un lillà? Di rose ne ho sempre volute tante, a partire dalla mia preferita la rosa bracteata (quella cinese, per intenderci). Ma, fra tutti gli alberi e le piante che possiedo, non farei mai e poi mai a meno dei miei alberi di magnolia (da quelli sempreverdi a quelli che, un po' prematuramente, sono in fiore adesso). Le magnolie oltre ad essere piante molto belle hanno in sé qualcosa di misterioso che me le ha fatte sentire vicine da sempre (e un giorno, se avrò voglia, inserirò qui le ricerche che, in vari campi, ho fatto su questo albero). In questo momento qui in giardino non saprei a quale essere più affezionata; ne ho tirate su molte con pazienza e passione. Rustiche e resistenti al freddo amano avere i piedi nelle profonde terre delle valli. Solo il vento, e in particolare quello secco, è decisamente loro nemico. Ho capito che le magnolie amano i posti tranquilli e riparati: non sono certo piante "da battaglia". E anche in questo mi somigliano. gioco Questa pagina finale è scritta non per chi gioca, ma piuttosto per chi, tradizionalmente, non gioca: le madri, i padri, i nonni, le zie e gli zii, i fratelli e le sorelle maggiori, le maestre, i professori...
Cari amici e colleghi, se avete un atteggiamento di 'sufficienza' rispetto al gioco, se contrapponete 'per gioco' e 'sul serio', riflettete un poco, vi prego, su questo mio «elogio del gioco».
Una delle minacce più gravi che incombe sulla nostra «civiltà occidentale», anzi uno dei fenomeni che già la corrode e la guasta, è il consumismo, è la passività, è la non partecipazione. Viviamo in una società troppo ricca, ma malamente ricca, che fa tutto lei, che ti fa trovare tutto bello e pronto e impacchettato: i giochi colle loro regole prestabilite, gli spettacoli sempre e soltanto da vedere, le trasmissioni della TV preparate da altri, i viaggi organizzati, le partite di scacchi tra Karpov e Korchnoj da rifare sulla base delle tabelle che trovi sui settimanali, la musica da asportare, i film da guardare...
Viviamo in una società che non ci chiede di inventare, che non ci stimola a creare. Viviamo in una società nella quale c'è ben poco spazio per «giocare».
Recuperiamo la gioia, il gusto, di suonare (male), di dipingere (peggio), di recitare (da cani), di fare film (pessimi)... ma di suonare, dipingere, recitare, fare film noi. Ebbene, il gioco intelligente collettivo è una delle forme più semplici, e secondo me più efficaci, per recuperare la creatività nella passiva e passivizzante società dei consumi.
Ma ci sono molte altre ragioni di elogio del gioco.
La cultura di base, quella senza la quale si è un pover'uomo, è fatta anche di una serie di regole, nozioni, nomi che è molto noioso imparare sui libri o sui banchi di scuola. Parlo delle regole della ortografia, di certe abilità di calcolo mentale, dei nomi degli Stati e delle loro capitali, di fiumi e laghi e località varie. Ebbene: sciarade figurate, gioco dello 'spelling', gioco degli uomini celebri, cruciverba una lettera per uno, sono, tra l'altro, eccezionali esercizi di ortografia (di nomi italiani, e anche stranieri); «fiori, frutta e città» è un ottimo controllo di nozioni acquisite; la camiciaia, ancora gli uomini celebri, il gioco dei matti sono un modo semplice divertente per ampliare le conoscenze, e con ciò se pure indirettamente, la propria cultura; il gioco dei 'sì' e dei 'no' impone la sistematicità logica; alcune varianti del «gioco di Carlotta» sono un ottimo esercizio per fare divisioni a mente.
Domanda (molto seria, vi prego di credere, cari colleghi insegnanti): ma perché qualche volta, per controllare quello che i vostri allievi hanno imparato, non fate in classe un'ora di palestra di giochi intelligenti, invece di interrogare?
Imparare a giocare, stabilendo e rispettando regole oneste, crea l'abitudine a una convivenza civile molto di più che non lunghe prediche di 'educazione civica'.
II gioco a squadre 'socializza', insegna ad aiutare e a rispettare i più piccoli e i più deboli, a bilanciare equamente le forze. I giochi che proponiamo sono anche un mezzo, non facilmente sostituibile, per il «recupero» dello stare insieme gioioso tra grandi e piccoli, tra genitori e figli, tra maestri e allievi.
Giocare bene significa avere gusto per la precisione, amore per la lingua, capacità di esprimersi con linguaggi non verbali; significa acquisire insieme intuizione e razionalità, abitudine alla lealtà e alla collaborazione. E l'elogio del gioco potrebbe continuare. Ma mi fermo qui. Ho cominciato a scrivere questo libro per spasso, ma, via via che andavo avanti, pur continuando a divertirmi, mi rendevo conto sempre più chiaramente che stavo scrivendo un libro serio. Forse il più serio di tutti quelli che ho scritto
Lucio Lombardo Radice, Elogio del gioco, in Il giocattolo più grande, Giunti Marzocco, 1979, p. 104 GIUDICARE Ai felici è difficile il giudicare rettamente le miserie degli altri. Marco Fabio Quintiliano GIUDICARE Si vitam inspicias hominum, si denique mores, cum culpat alios, nemo sine criminis vivit.
Guardali, gli uomini, come vivono, mentre biasimano gli altri: nessuno
è senza colpa
Catone, Distici Medusa editore
Traduzione di Giancarlo Pontiggia GIUSTIZIA Vi è una sola cosa peggiore dell'ingiustizia: la giustizia senza la spada in mano. Quando il diritto non è la forza è male.
Oscar Wilde guerra e pace A LETTO CON TOLSTOJ da NonSoloProust di gabrilu
Michail Illarionovich Kutuzov (1745-1813) e Piotr Ivanonovic Bagratiòn (1765-1812)
In questi giorni vedo molti film e qualcuno probabilmente se ne è pure accorto , ma non è che abbia smesso di leggere, anzi.
Gli è che ho deciso di rileggermi da cima a fondo Guerra e Pace. La prima lettura risale ormai a tanti anni fa. Allora l'ho divorato, adesso invece sto procedendo con molta calma, centellinandomelo. Tanto, non mi insegue nessuno.
La prima volta mi ero appassionata, come del resto credo succeda più o meno a tutti, alle storie private di Natasha Rostov, Pierre Bezuchov e Andrej Bolkonskj; adesso invece mi sto gustando molto anche tutte quelle lunghe sezioni dedicate alla guerra ed alle descrizioni di battaglie, pagine che allora avevo letto un po' superficialmente, magari resistendo anche alla tentazione di saltarle perchè mi sembravano un tantino noiose. Non riuscivo a coglierne la grande bellezza.
E così, per ora vado a letto presto la sera e mi immergo nella lettura in compagnia di Kutuzov, Napoleone e Bagratiòn, l'altro terzetto protagonista del romanzo.
L'altro ieri sera, per esempio, ero sul campo di battaglia di Ulm, e assieme ad Andrea Bolkonskj ammiravo l'autorevolezza di Bagratiòn.
Ieri sera, invece, sono stata ad Austerlitz, ad assistere alla battaglia "dei tre imperatori": "Dal mezzodi del 19 nelle supreme sfere dell'esercito ebbe principio un gran movimento, tra affannoso ed eccitato, che durò fino al mattino del giorno dopo, 20 novembre, in cui fu data la così memorabile battaglia di Austerlitz."
La guerra è un meccanismo che Tolstoj descrive così.
E poi, "quando il sole [ne] fu emerso interamente e con un fulgore abbagliante spruzzò i suoi raggi sui campi e sulla nebbia, Napoleone (come se aspettasse soltanto questo per dar principio alla battaglia) si tolse un guanto scoprendo una mano bella e bianca; fece col guanto un segno ai marescialli, e diede l'ordine di dar principio all'azione"
Ad Austerlitz Napoleone gliele ha suonate di santa ragione, ai Russi. Ma diamo tempo al tempo, e vedremo che Kutuzov gliela farà pagare...
Per ora sono (nel libro) all'inizio dell'inverno, e Napoleone sta meditando la campagna di Russia, porello. Non sa quello che lo aspetta, da quelle parti.
Ho scoperto solo in questi giorni che in TV hanno recentemente trasmesso una fiction tratta da Guerra e Pace. Ne ho sbirciato qualche sequenza su YouTube e da quel poco che ho visto sono ben lieta di essermela risparmiata.
Ieri invece ho ordinato su Internet i tre DVD dell'integrale del film di Serghej Bondarchuk del 1967 (in russo con sottotitoli in italiano). L'avevo visto al cinema -- ma non integrale -- secoli fa, e l'avevo trovato molto, molto più bello di quello di King Vidor del 1956.
La cosa curiosa è però che il film americano di Vidor si trova facilmente anche nei negozi. Quello russo di Bondarchuk è fuori catalogo, lo si trova solo in rete e solo in alcuni negozi on line. Eppure, con tutto il mio rispetto e la mia ammirazione per Vidor, Audrey Hepburn, Mel Ferrer ed Henry Fonda, pur essendo il loro Guerra e Pace molto buono (e infatti ho comperato anche quello), davvero non ci sono paragoni, tra le due produzioni.
Tornando al libro: Guerra e Pace è sterminato, e con il ritmo di lettura che ho deciso di adottare non so quando riemergerò e potrò leggere altro.
Ma la cosa non mi dispiace nè poco nè punto IDEOLOGIE L'immagine di frammentazione, che in molti casi fa soffrire, invece, si vede molto spesso intorno a temi ideologici. E non potrebbe essere altrimenti, visto che le ideologie sono forme di aggregazione che tende a includere chi è d'accordo con i presupposti e a escludere chi non è d'accordo: le discussioni ideologiche non sono mai relative ai fatti, ma tendono a concentrarsi sempre intorno all'esatta applicazione delle ideologie stesse ai fatti stessi. http://blog.debiase.com/2008/02/03.html#a1631 ILLUMINISMO È Kant che, in un testo famoso, uno dei più belli mai prodotti dai pensatori del suo tempo, pubblicato nel dicembre 1784, avrebbe dato in poche pagine, sulle quali non ci stancheremo mai di tornare, la definizione più esatta di Illuminismo, e quella più vicina allo spirito dei philosophes: «L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro [...] Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'lluminismo»
in Zeen Sternhell, Contro l'illuminismo dal XVIII secolo alla guerra fredda, Baldini Castoldi, p. 70-71 INDIVIDUO INTERSOGGETTIVITA' Paolo Conte, Bella di giorno, in Psiche, 2008
Io so chi tu sei so neanche chi sei ma so che tu sei si so che tu sei tanto amata amata e desiderata
l'istinto ti sa trattare ti sa guidare ti sa con poche parole precise poche parole decise e uno sguardo d'intesa un'elegantissima scusa come una bella di giorno tu sei il mondo che hai intorno
sei bella senza ritegno nell'acqua fresca di un bagno io so che tu sei so neanche chi sei ma so che tu sei si so che tu sei tanto amata amata e desiderata e sola INDIVIDUO INTERSOGGETTIVITA' ieri sera mi sono lasciata andare al riposo conservando nella mente e nel cuore questa vostra SPLENDIDA, EMOZIONANTE associazione. l'intuito mi ha fatto soffermare anche su quel "tu sei il mondo che hai intorno".. parole che mi hanno fatto andare al libro "Il Sistema Uomo" di Silvia Montefoschi.. allora ".. tu sei il soggetto che mostra se stesso, quale presenza nel mondo, nel farci riflettere il mondo"... ".. Il soggetto si rivela pertanto nel momento riflessivo in cui il mondo riflette se stesso; il momento in cui il mondo si crea discorrendo di sé. Esso è dunque "l'ineffabile", così come lo è il parlante che non può parlare di sé se non come oggetto del suo stesso discorso. Il soggetto pertanto non è, ma diviene, sfuggendo sempre alla sua oggettivazione. Ma se del soggetto non si può parlare come di un oggetto del mondo, perché è esso stesso che parla di sé parlando del mondo, ciò vuol dire che esso, "l'ineffabile", è del mondo, quale scaturigine del discorso che non è mai finito. Sicché, se "[su] ciò di cui non si può parlare si deve tacere " (Wittgenstein) è perché si deve necessariamente stare in silenzio fintanto che in noi l'ineffabile non parli, parlando del mondo, o è forse meglio dire fintanto che il mondo non torni a parlare in noi, parlando di sé."...
Così.. "ripetere gli scritti gli uni degli altri, servono da strumenti a questo Spirito per dare al mondo opere sempre nuove. E se le anime sapessero sottoporsi a quest'azione, la loro vita non sarebbe che una continuazione delle divine scritture, le quali si esprimono fino alla fine del mondo non più con l'inchiostro e sulla carta, ma nei cuori."
J.P. de Caussade L'abbandono alla divina provvidenza
prisma INDIVIDUO INTERSOGGETTIVITA' “Se cerco di cogliere sul piano esperienziale il fenomeno intersoggettivo che io assumo come parametro, strumento e finalità del mio interagire col paziente, devo dire che esso si rivela a me come la felice condizione dell'esistere con l'altro senza bisogni.
Se però analizzo questa condizione mi accorgo che essa si fonda sul soddisfacimento di due bisogni che le sono essenziali; quello che l'altro ci sia, in quanto è grazie all'esserci dell'altro che io mi manifesto come esistente e mi riconosco, e quello che io ci sia in libertà, poiché mi riconosco solo se sono libera di dirmi e di darmi così come, di volta in volta, l'esistere dell'altro mi rivela a me stessa.
In questa felice condizione, quindi, non percepisco altri bisogni se non quelli della presenza dell'altro e della mia libertà. Non sono forse questi i requisiti dell'esistere dell'uomo come soggetto?
…
Devo procedere nell'analisi di queste caratteristiche: la relazione e la libertà.
Il primo bisogno del soggetto per essere tale è l'esistenza di un altro da sé. Molte sono le forme sotto le quali questo altro si fa presenza agli occhi dell'uomo: può essere, di volta in volta, il mondo esterno, ovvero il mondo delle cose e dei valori sociali, o il mondo interno, ovvero il mondo dei pensieri e degli affetti; può essere il Tu umano, l'altro dell'incontro, o il Tu interiore, l'altro cui l'uomo si riferisce quando è con se stesso; può essere la corporeità dell'uomo o i suoi comportamenti o i suoi modi di rapportarsi al mondo, nel momento in cui egli se ne distacca per riconoscerli e riferirli a sé; può essere infine l'uomo nella sua globalità, quando l'uomo stesso prende da se medesimo la distanza necessaria per definirsi in una identità."
in Silvia Montefoschi, L’Uno e l’Altro: interdipendenza e intersoggettività, Feltrinelli, 1977, ora in Silvia Montefoschi, L’evoluzione della coscienza, Opere, Volume Secondo – Tomo 1, Zephyro Edizioni, Milano 2008, p. 74-75. INDIVIDUO INTERSOGGETTIVITA' un frammento di intersoggetività preso dal film L'amore ha due facce di Barbra Streisand (amabile donna!): "Ti amo anche se sei bella!" INDIVIDUO PSICHE Un buon metodo per star bene, conosciuto da sempre, potrebbe essere quello di cercare di essere se stessi, senza continuamente conformarsi, o dipendere dall’approvazione degli altri individuo psiche Fu una pioggia di stelle sul mio viso. Sentii gravarmi da un infinito cielo soffice, di calda luce. Sentii la terra nelle mani e nei capelli, e fu il sapore di quella terra in bocca e di quel bacio, e fu il risucchio del mio corpo dalle profondità abissali di quel cielo, e fu un sussulto, un grido di sovraumana gioia, a sentire quel cielo entro il mio ventre, quel cielo e quella terra, la mia stessa terra fatta della mia carne e del mio sangue. Fu come un dileguarmi in quella pioggia d'infinite stelle, e ritrovarmi nella dolcezza di un abbraccio amico, umido ancora di un sapor di latte, di lacrime infantili e di lontani baci.
in Silvia Montefoschi(a 26 anni), Fu una pioggia di stelle sul mio viso (Napoli 1952), Laboratorio Ricerche Evolutive di Giampietro Gnesotto Editore, 1989 INDIVIDUO PSICHE INTERSOGGETTIVITA' lascio qui, per tutti, “Il canto d’amore del Vivente ovvero l’epifania dell’infinito” in “La glorificazione del vivente nell’intersoggettività tra l’uno e l’altro”.
Tu sei in quanto io ti penso quale pensante me e io sono in quanto tu mi pensi quale pensante te sicchè tu non cessi di pensarmi e quindi di esserci finchè io ti penso e io non cesso di pensarti e quindi di esserci finchè tu mi pensi
E se è il mio pensarti a far sì che tu ci sia quale pensante me ed è il tuo pensarmi a far sì che io ci sia quale pensante te tu non puoi cessare di pensare me perché io non posso cessare di pensare te e noi non possiamo che pensarci all’infinito
Ma se è il nostro reciproco pensarci a porci in essere nell’infinito dirci “Tu sei” che quale atto supremo dell’amore ci fa l’un l’altro garanti della vita noi stessi siamo l’infinito
L’infinito infatti si dà solamente nell’intersoggettività dove il soggetto che pensa non ha più bisogno per esserci quale pensante di conoscersi nella finitudine del suo pensato perché si riconosce nel pensare infinito dell’altro soggetto che pensa
E se noi stessi siamo l’infinito l’infinito finalmente è perché l’infinito non è se non in chi è infinitamente INDIVIDUO PSICHE INTERSOGGETTIVITA' “Solo quando la percezione dell’unione delle presenze pensanti uscirà dal chiuso di una esperienza personale, anche se fatta nella dualità della coppia dialogante, e si darà non più frammentata nei tanti incontri duali tra loro separati dallo spazio e dal tempo, si realizzerà un punto di vista ancora superiore dal quale si vede che l’essere tutto non è se non relazione. […] E solo nel perseverare nel faticoso esercizio del mantenere costantemente vigile la presenza riflessiva, noi […] operiamo ai fini che avvenga lo svelamento […] della logica dell’uno tutt’uno con l’uno che non può dire di sè se non è cio che è…. “. SILVIA MONTEFOSCHI INDIVIDUO PSICHE INTERSOGGETTIVITA' se cerco di cogliere sul piano esperienziale il fenomeno intersoggettivo … devo dire che esso si rivela a me come la felice condizione dell'esistere con l'altro senza bisogni. Se poi analizzo questa condizione mi accorgo che essa si fonda sul soddisfacimento di due bisogni che le sono essenziali; quello che l'altro ci sia, in quanto è grazie all'esserci dell'altro che io mi manifesto come esistente e mi riconosco, e quello che io ci sia in libertà, poichè mi riconosco solo se sono libera di dirmi e di darmi così come, di volta in volta, l'esistere dell'altro mi rivela a me stessa Silvia Montefoschi, L'uno e l'altro, Feltrinelli, 1977, p. 32 INDIVIDUO PSICHE INTERSOGGETTIVITA' Il canto d’amore del Vivente ovvero l’epifania dell’infinito
Tu sei in quanto io ti penso quale pensante me e io sono in quanto tu mi pensi quale pensante te sicchè tu non cessi di pensarmi e quindi di esserci finchè io ti penso e io non cesso di pensarti e quindi di esserci finchè tu mi pensi
E se è il mio pensarti a far sì che tu ci sia quale pensante me ed è il tuo pensarmi a far sì che io ci sia quale pensante te tu non puoi cessare di pensare me perché io non posso cessare di pensare te
e noi non possiamo che pensarci all’infinito
Ma se è il nostro reciproco pensarci a porci in essere nell’infinito dirci “Tu sei” che quale atto supremo dell’amore ci fa l’un l’altro garanti della vita noi stessi siamo l’infinito
L’infinito infatti si dà solamente nell’intersoggettività dove il soggetto che pensa non ha più bisogno per esserci quale pensante di conoscersi nella finitudine del suo pensato perché si riconosce nel pensare infinito dell’altro soggetto che pensa
E se noi stessi siamo l’infinito l’infinito finalmente è perché l’infinito non è se non in chi è infinitamente
in Silvia Montefoschi, La glorificazione del vivente nell’intersoggettività tra l’uno e l’altro, Golden Press, Genova infanzia giovinezza Heimat La "Heimat" è il paese della infanzia e della giovinezza. Chi l'ha smarrita resta spaesato, per quanto all'estero possa avere appreso a non barcollare come un ubriaco e ad appoggiare il piede in terra senza troppi timori
Hans Mayer, Jean Amery INNOVAZIONE TRADIZIONE Ogni innovazione è una tradizione ben riuscita
PETRINI CARLO, "Carlin Petrin", animatore della Slow Food e di Terra Madre INTERSOGGETTIVITA' L'avvocato Utterson era un uomo dall'aspetto rude, non s'illuminava mai di un sorriso; freddo, misurato e imbarazzato nel parlare, riservato nell'esprimere i propri sentimenti; era un uomo magro, lungo, polveroso e triste, eppure in un certo senso amabile. Nelle riunioni di amici, quando il vino era di suo gusto, gli traspariva negli occhi qualcosa di veramente umano; qualcosa che non trovava mai modo di risultare nelle sue parole, e che si manifestava, oltre che in quella silenziosa espressione della faccia dopo una cena, più spesso ancora e più vivamente nelle azioni della sua vita. L'avvocato era severo nei riguardi di se stesso; quando si trovava solo, beveva gin, per mortificare l'inclinazione verso i buoni vini; e, sebbene il teatro lo attirasse, non aveva mai varcato la soglia di un teatro in vent'anni. Nei riguardi del prossimo era tuttavia di una grande indulgenza; talvolta si meravigliava, quasi con invidia, della forza con la quale certi animi potevano venire spinti alla malvagità; e, in ogni occasione, era disposto più ad aiutare che a disapprovare.
«Io tendo all'eresia di Caino,» soleva dire argutamente, «lascio che mio fratello se ne vada al diavolo come meglio gli piace.»
Avendo un simile carattere, gli accadeva spesso di essere l'ultimo conoscente stimato, e di esercitare l'ultima buona influenza nella vita di uomini perduti.
Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jeckill e del signor Hyde invecchiare Eccoci qui, ancora soli. C'è un'inerzia, in tutto questo, una pesantezza, una tristezza ... Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta. Gente n'è venuta tanta, in camera mia. Tutti han detto qualcosa. Mica m'han detto gran che. Se ne sono andati. Si sono fatti vecchi, miserabili e torpidi, ciascuno in un suo cantuccio di mondo. invecchiare La vecchiaia è una condizione pietosa, con i ricordi che incombono, la decadenza fisica, la pigrizia, le angosce che aumentano, e la gente che ti guarda storto, perché con i tuoi passi lenti ingombri la strada, fai allungare le file, ti muovi in modo impacciato come i bambini. Però la vecchiaia ti conferisce anche una maggiore autorità, anche se un po' ipocrita: ti riconoscono il ruolo del saggio, ma a patto che te ne stai in disparte. In realtà i vecchi li si vorrebbe eliminare: perché la nostra cultura ha paura di tutto, dell'insuccesso, della malattia, della morte. La funzione del comico è, appunto, quella di esorcizzare questo timore di vivere". invecchiare Invecchiare mi fa orrore, ma è l'unico modo che ho trovato per non morire giovane invecchiare Io sono quasi al termine del mio viaggio. La salute del corpo e della mente è buona, la capacità di lavoro non è diminuita e la fantasia è sempre quella che mi ha tenuto compagnia per tanti anni, conducendomi a progettare il futuro e a fìngermi nuovi sentieri da esplorare e percorrere. Eppure sento che il viaggio volge alla fine. Lo sento da molti segnali, il primo dei quali è propriamente quello di sentirlo. E poi dalla pienezza di me che ho finalmente raggiunto; perché ora sono certo che tutto ciò che la mia natura era capace di esprimere nel pensare e nel fare, io l'ho fatto e pensato. Posso ripetermi e forse pensare e fare meglio; meglio, ma non diverso. O forse in modo più stanco e meccanico, più trasandato e impreciso. Comunque, che queste aggiunte vi siano o no, non cambierà gran cosa. Non lascio nulla che non sia stato compiuto, nei limiti in cui ho potuto e saputo. I disegni rimasti a mezzo, i destini non realizzati fino in fondo, è perché fin lì la mia natura è riuscita a viverli; più oltre avrebbe fatto violenza a sé stessa e non è andata, ma certo ha teso la sua corda con tutte le forze che aveva a disposizione. invecchiare E viene, nella vita, il momento che l'ombra della morte ci è al fianco, e non se ne stacca. Non più insofferenze, ribellioni, paure...; la consapevolezza solo di una necessità ineluttabile. Un evento naturale la morte; come il succedersi ordinato delle quattro stagioni, come l'avvicendarsi regolare della luce e del buio. invecchiare Io sono quasi al termine del mio viaggio. La salute del corpo e della mente è buona, la capacità di lavoro non è diminuita e la fantasia è sempre quella che mi ha tenuto compagnia per tanti anni, conducendomi a progettare il futuro e a fingermi nuovi sentieri da esplorare e percorrere. Eppure sento che il viaggio volge alla fine. Lo sento da molti segnali, il primo dei quali è propriamente quello di sentirlo. E poi dalla pienezza di me che ho finalmente raggiunto; perché ora sono certo che tutto ciò che la mia natura era capace di esprimere nel pensare e nel fare, io l'ho fatto e pensato. Posso ripetermi e forse pensare e fare meglio; meglio, ma non diverso. ISTITUZIONI GIOCHI DILEMMA DEL PRIGIONIERO Finchè morte non ci separi
Harry e Sophie volevano prendere sul serio le parole che il sacerdote avrebbe pronunciato allo scambio degli anelli: «Queste due vite sono ora unite in un cerchio ininterrotto». Ciò voleva dire anteporre l'interesse della coppia a quel¬lo individuale. Se fossero riusciti a farlo, il matrimonio avrebbe funzionato me¬glio per entrambi. Ma Harry aveva visto i suoi divorziare, e troppi amici feriti e rapporti gua¬stati dal tradimento e dall'inganno, per accettarlo senza condizioni. La parte calcolatrice del suo cervello pensò che, se faceva un passo indietro rispetto a Sophie, lei avrebbe tratto vantaggio dal matrimonio, e lui no. In altri termini, rischiava di passare per fesso, se evitava romanticamente di fare il proprio in¬teresse. Sophie pensava cose simili. Ne avevano anche parlato, decidendo che non sarebbero stati egoisti nel matrimonio. Ma nessuno dei due era certo che l'al¬tro avrebbe mantenuto la sua promessa, quindi la cosa più sicura per entram¬bi era badare segretamente al proprio interesse. Ciò significava inevitabilmen¬te che il matrimonio non avrebbe funzionato al meglio. Ma di certo, era l'uni¬ca decisione razionale possibile...
Qualcosa non torna. Due persone stanno cercando di decidere razionalmente che cosa sia nel loro interesse. Se entrambi agisco¬no in un certo modo, il risultato migliore è assicurato. Ma se uno agisce in modo diverso, si assicura tutti i vantaggi a spese dell'altro. E così, per cautelarsi contro questa eventualità, tutti e due finiscono per ottenere un risultato peggiore di quello che potreb¬bero ottenere se entrambi facessero ciò che sarebbe meglio. Si tratta di una variante del celebre «dilemma del prigionie¬ro»: due prigionieri, chiusi in celle separate e incapaci di comu¬nicare, devono perorare la loro causa. Dilemmi siffatti si verifìcano quando è necessaria la collaborazione per ottenere un miglio¬re risultato, ma nessuna delle due parti può garantire che l'altro stia al gioco. Lo stesso dilemma può sorgere tra persone che divi¬dono lo stesso letto. Il fatto è che si tradisce segretamente la fi¬ducia dei partner, spesso senza farsi scoprire per anni. Il dilemma rivela i limiti della ricerca razionale del proprio in¬teresse. Se tutti decidessimo individualmente di fare ciò che con¬viene a ciascuno di noi, finiremmo peggio di quanto accadrebbe se scegliessimo di cooperare. Ma per cooperare efficacemente, pur badando al nostro interesse, dobbiamo fidarci gli uni degli altri. E la fiducia non si basa su argomentazioni razionali. Ecco perché il dilemma di Harry e Sophie è così toccante. La loro capacità di fidarsi è stata erosa dall'esperienza del tradimento e del divorzio. Senza questa fiducia, il rapporto ha maggiori proba¬bilità di essere poco soddisfacente o addirittura di fallire. Ma chi può biasimarli per il loro scetticismo? Non è perfettamente razio¬nale? Dopotutto, si fonda esclusivamente su una corretta valutazione di come ci si comporta nel matrimonio moderno. Questa storia contiene forse una morale più profonda: per ot¬tenere il massimo dalla vita è necessaria la fiducia, anche se ciò comporta l'assunzione non razionale di qualche rischio. È vero che, se ci fidiamo gli uni degli altri, ci esponiamo allo sfrutta¬mento, ma diversamente ci precludiamo la possibilità di avere il meglio dalla vita. La strategia razionale, sicura, di Harry e Sophie li protegge dal peggio del matrimonio, ma allo stesso modo li al¬lontana dal meglio. ISTITUZIONI GIOCHI DILEMMA DEL PRIGIONIERO "A volte sembra che la razionalità impedisca agli individui di ottenere risultati ottimali, soprattutto nei casi in cui la cooperazione sarebbe inequivocabilmente la scelta migliore per tutte le parti interessate. Su questa considerazione si fonda il noto argomento a favore delle istituzioni quali mezzi per controllare e indirizzare il comportamento egoistico. In effetti, coloro che per primi proposero il contratto sociale quale fondamento legittimo dell'obbligo politico, descrissero gli individui come perennemente coinvolti in un dilemma del prigioniero, e incapaci di arrivare a un accordo cooperativo a meno di non esservi costretti. Nel modello di Hobbes, gli individui si accordano per consegnare il proprio potere di resistenza al sovrano, che imporrà loro di cooperare. Riconsiderando gli esempi precedenti, possiamo osservare che l'istituzione in grado di garantire il risultato ottimale non deve essere necessariamente lo stato: potrebbe essere un sistema legale, un trattato internazionale, un codice d'onore, o anche un insieme di principi morali condivisi. Ciò che importa è che una o entrambe le parti possono impegnarsi in modo credibile a perseguire un determinato corso d'azione, laddove la credibilità è garantita dalla presenza di un’istituzione …"
in Cristina Bicchieri, Azione collettiva e razionalità sociale, Feltrinelli, p. 194 ITALIANI … il più celebre fra questi testi, e il più ricco e articolato, rimane sempre I Libri della Famiglia, opera di Leon Battista Alberti, vissuto fra il 1404 e il 1472 a Firenze. L'Alberti vi appare come il teorico della «masserizia», l'arte di gestire la famiglia mercantile, nella quale concorrono, accanto e insieme alla rete dei rapporti primari e affettivi, gli interessi dell'azienda, strettamente intrecciati e confusi con quelli, e ciò nel quadro di vita della comunità cittadina. In tale contesto la famiglia appare, come osservano Ruggiero Romano e Alberto Tenenti, «come una cellula chiusa, un microrganismo, un fattore aristocratico, la cui azione è fine a se stessa. Non si scorge mai, assolutamente mai, nell'opera di Leon Battista, un "grappolo" di famiglie, che giungano a formare una civitas, una società. Per l'appunto, la famiglia albertiana è un ambito racchiuso in sé; è essa stessa una società, ma chiusa, isolata, impermeabile» (R. Romano e A. Tenenti, in Leon Battista Alberti, 1972, pag. XXV). «Da natura l'amore, la pietà a me fa più cara la famiglia che cosa alcuna», dice l'Alberti per bocca di Giannozzo, il personaggio del suo dialogo famigliare che compare come il più anziano ed esperto. «E per reggere la famiglia si cerca la roba; e per conservare la famiglia e la roba si vogliono amici, co' quali ti consigli, i quali t'aiutino sostenere e fuggire avverse fortune; e per avere con gli amici frutto della roba, della famiglia e della amicizia, si convene ottenere qualche onestanza e onorata autorità» {Ibidem, pag. 226). La gerarchia di valori è qui ben precisa: al vertice la famiglia, come valore assoluto di riferimento, seguita dall'azienda, e poi dagli amici e clienti. La città e la politica vengono in considerazione solo in quanto possano giovare a questo insieme gerarchicamente ordinato di valori sociali. Questo appare chiaramente dal dialogo fra Giannozzo e Lionardo: «Leonardo. Chiamate voi forse, come questi nostri cittadini, onore trovarsi negli uffici e nello stato? Giannozzo. Niuna cosa manco, Lionardo mio, niuna cosa manco figliuoli miei. Niuna cosa a me pare meno degna di reputarsela ad onore che ritrovarsi in questi stati (impegnati nello stato)... Ogni altra vita a me sempre piacque più troppo di quella delli, così diremo, statuali». La vita politica (statuale) è definita molestissima e piena di sospetti, di fatiche e di servitù. «Che vedi tu da questi i quali si travagliano agli stati (che si occupano della cosa pubblica) essere differenza a pubblici servi?» afferm Giannozzo e aggiunge: «Eccoti sedere in ufficio. Che n'hai tu d'utile se non uno solo: potere rubare e sforzare (fare violenza) con qualche licenza?» {Ibi dem, pagg. 218-219). Il solo motivo quindi per partecipare alla gestione dell; comunità è quello di poter arrivare, con la frode o la violenza, a ricavarne van taggi per la gestione dell'azienda- famiglia, sostituto esclusivo della società. Da cui una vera e propria invettiva contro coloro che sentono il dovere civico di partecipare al governo della cosa pubblica: «Pazzi che vi sponete ad ogni pericolo, porgetevi alla morte... E chiamate onore essere nel numero de rapinatori, chiamate onore convenire e pascere e servire agli uomini servili! ... E che piacere d'animo mai può avere costui, se già e' non sia di natura feroce e bestiale, il quale al continuo abbia a prestare orecchie a doglianze, lamenti, pianti di pupilli, di vedove e di uomini calamitosi e miseri?» {Ibidem, pag. 220). E conclude: «E si vuole (conviene) vivere a sé, non al comune (per la società), essere soliicito per gli amici, vero, ove tu non interlasci (trascuri) e' fatti tuoi, e ove a te non risulti danno troppo grande» {Ibidem, pag. 221). Alla radice di questa filosofìa sta una concezione rigidamente utilitaristica: «Tanto siamo quasi da natura tutti proclivi e inclinati all'utile, che per trarre ad altrui (estorcere agli altri) e conservare a noi, dotti (istruiti) credo dalla natura, sappiamo e simulare benevolenza, e fuggire amicizia quanto ci attaglia (conviene)» {Ibidem, pag. 345). L'istituto nel quale si accentra ogni valore, che sia conseguente ad una tale visione del mondo, è la famiglia allargata, con l'appendice puramente strumentale, e non affettivamente connotata, delle amicizie utili. La società come tale, e i doveri civili, sono in questa prospettiva radicalmente squalificati. Tutto questo costituisce un insieme di modelli culturali di comportamento incompatibile con una società, che non sia una società di fazioni, e comporta l'esclusione di ogni senso di corresponsabilizzazione sociale. Là dove l'etica calvinista, metodista, puritana, stabilisce attraverso la dottrina della grazia e della predestinazione, uno stretto legame fra la salvezza eterna, il successo personale negli affari e le esigenze di salvaguardia dell'ordine sociale, quella alber-tiana, tipica come abbiamo visto di un'intera classe sociale, che è quella egemone, è radicalmente particolaristica e sostanzialmente anarchica. Mentre nella prima verranno a maturazione quelle condizioni che caratterizzeranno la società definita col termine di democratico-borghese, culla delle libertà politiche civili e dei doveri di solidarietà collettiva, e aperta ai processi di mobilità sociale, nella società italiana post-comunale si porranno le premesse per una società chiusa nei particolarismi, dominata da una struttura gerarchica e rigida di potere di classe, sede di una forma di dominio esercitato da poteri dinastici, italiani e stranieri, senza traccia di dialettica democratica, all'ombra della contrioriforma e della morale gesuitica" in Carlo Tullio - Altan, La nostra Italia, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall?unità al 2000, Egea - Università Bocconi Editore, 2000, p. 19-21 JAZZ MINIMALISM The Necks: A Review
by Rob Nugent
8 pm, 19 February 2008. Venue: The Street Theatre, ANU.
The three members of The Necks walk silently onto stage and focus on their instruments. There is a theatrical hush while they prepare themselves. Three notes on the double bass play repetitively for a minute before a single note on the grand piano builds slowly into a fluttering trill. You don’t notice the brush on the snare and the pulse of the kick drum at first. The journey begins. We are heading into badlands and strange spaces. This could be the beginning of a murder plot or a crime of passion. There are no slamming doors. They creak open, as things creep up on you. Thoughts slowly resolve themselves, or are overwhelmed and consumed.
I found the music of The Necks created spaces for all sorts of imaginings. You can superimpose the events of your life onto it, or simply be carried off into cinematic landscapes. Sometimes you are there with it, other times it leaves you behind and you have to catch up. Wonderful stuff.
I tre membri dei colli camminano silenziosamente sulla fase e mettono a fuoco sui loro strumenti. Ci è un silenzio teatrale mentre si preparano. Tre note sul gioco della doppia spigola ripetutamente per un minuto prima di singola nota sulle configurazioni del grande piano lentamente in un trill d'ondeggiamento. Non notate inizialmente la spazzola sulla trappola e l'impulso del tamburo di scossa. Il viaggio comincia. Capo nei calanchi e negli spazi sconosciuti. Ciò ha potuto essere l'inizio di un diagramma di omicidio o di un crimine di passione. Non ci sono portelli sbattenti. Creak aperto, poichè le cose salgono su voi. I pensieri si risolvono lentamente, o sono sopraffatti e consumati.
Ho trovato la musica degli spazi generati colli per tutte le specie dei imaginings. Potete sovrapporre gli eventi della vostra vita su esso, o semplicemente be siete trasportati fuori nei paesaggi cinematografici. A volte siete là con esso, altre volte che lo lascia dietro e dovete prendere. Roba meraviglioso. JAZZ MINIMALISM “For those unfamiliar with The Necks… their approach is to take a musical idea, sometimes a seemingly inconsequential musical idea, with a short life expectancy, and develop it, slowly transform it, roll it around for approaching the hour mark, riveting your attention throughout”
The Wire - David Stubbs
Chris Abraham (piano), Tony Buck (drums), and Lloyd Swanton(bass) conjure a chemistry together that defies description in orthodox terms.
These three musicians are among the most respected and in-demand in Australia, working in every field from pop to avant-garde. Over 200 albums feature their presence individually or together, but the music of The Necks stands apart from everything else they have done.
Featuring lengthy pieces which slowly unravel in the most intoxicating fashion, frequently underpinned by an insistent deep groove, The Necks stand up to listening time and time again.
The deceptive simplicity of their music throws forth new charms on each hearing. Not entirely avant-garde, nor minimalist, nor ambient, nor jazz, the music of The Necks is possibly unique in the world today.
“Australia's the Necks defy conventions about making and listening to music. Each performance … is an hour of unbroken improvisation, each one different to the last. So if you are a Necks fan, you cannot be sure you will hear your favourite Necks moment again. After 20 years, there are no greatest hits, only what is next.” The Guardian – John L Walters JAZZ MINIMALISM “The Necks communicate a fierce energy and warmth at the same time. Their music is a thrilling, emotional journey into the unknown.” The Guardian
”Absolutely riveting…how three musicians can sound like eighteen is a mystery.” Financial Times
“The Necks turned the auditorium into a majestic, vibrating cathedral of sound” The Age
Fresh from a hugely successful European tour, including two sell-out shows in London, cult minimalist jazz trio The Necks (Chris Abrahams piano, Lloyd Swanton bass, Tony Buck drums) return to home soil for an eagerly awaited Australian tour. Fans worldwide of this extraordinary band who have been lucky enough to catch them live will know that no two Necks concerts are the same. For over two decades now, The Necks have been stepping on stage with absolutely nothing pre-arranged, yet have managed to conjure intoxicating sonic journeys, frequently underpinned by an insistent deep groove, that often last for up to an hour and leave audiences hypnotized and transformed. “One of the joys for me, after twenty years of making music with this group, is that we’re still completely unable to predict where our pieces will go. I think that’s one of the things that our audience loves about The Necks,” says bassist Lloyd Swanton. The Necks have produced 14 critically acclaimed, highly successful albums that have sold in the thousands. They have won two ARIA awards for Best Jazz Album – ‘Chemist’ in 2007 and ‘Drive By’ in 2004 which has also recently been included in The Guardian’s ‘1000 Albums To Hear Before You Die’. Their latest gem, ‘Townsville’ released in Sept 2007 has also been attracting excellent reviews worldwide including The Wire’s (UK) Top Ten Jazz/Improv Releases of 2007.
“Teetering perpetually on the edge of creation, Townsville is a sort of rhapsodic minimalism, as magical in its own way as a ping-pong ball pirouetting on a jet of air” 4 stars - The Independent (UK)
"La Colli comunicare una feroce energia e di calore allo stesso tempo. Their music is a thrilling, emotional journey into the unknown.” The Guardian La loro musica è un entusiasmante, emozionante viaggio verso l'ignoto. "The Guardian
”Absolutely riveting…how three musicians can sound like eighteen is a mystery.” Financial Times "Assolutamente rivettatura tre musicisti… come può sembrare diciotto è un mistero." Financial Times
“The Necks turned the auditorium into a majestic, vibrating cathedral of sound” The Age "Il collo l'auditorium trasformato in un maestoso, cattedrale di suono vibrante" The Age
Fresh from a hugely successful European tour, including two sell-out shows in London, cult minimalist jazz trio The Necks (Chris Abrahams piano, Lloyd Swanton bass, Tony Buck drums) return to home soil for an eagerly awaited Australian tour. Fresco da un tour europeo di grande successo, tra cui due sell-out mostra a Londra, culto minimalista Il trio jazz Colli (Chris Abrahams pianoforte, Lloyd Swanton basso, Tony Buck batteria) ritorno a casa del suolo per un attesissimo tour australiano. Fans worldwide of this extraordinary band who have been lucky enough to catch them live will know that no two Necks concerts are the same. Fan di tutto il mondo di questa straordinaria band che hanno avuto la fortuna di vivere cattura loro sapranno che non esistono due concerti al collo sono gli stessi. For over two decades now, The Necks have been stepping on stage with absolutely nothing pre-arranged, yet have managed to conjure intoxicating sonic journeys, frequently underpinned by an insistent deep groove, that often last for up to an hour and leave audiences hypnotized and transformed. Per oltre due decenni ormai, il collo è stato il rafforzamento sul palco con assolutamente nulla prefissata, ma sono riusciti a evocare inebriante sonic viaggi, spesso sostenuta da un insistente groove profondo, che spesso durano fino a un'ora e lasciare ipnotizzato il pubblico e Trasformato. “One of the joys for me, after twenty years of making music with this group, is that we’re still completely unable to predict where our pieces will go. "Una delle gioie per me, dopo vent'anni di fare musica con questo gruppo, è che non siamo ancora completamente in grado di prevedere dove i nostri pezzi andrà. I think that’s one of the things that our audience loves about The Necks,” says bassist Lloyd Swanton. Penso che una delle cose che il nostro pubblico ama su The Colli ", dice il bassista Lloyd Swanton. The Necks have produced 14 critically acclaimed, highly successful albums that have sold in the thousands. La Colli hanno prodotto 14 premiati dalla critica, album di grande successo che hanno venduto in migliaia. They have won two ARIA awards for Best Jazz Album – ‘Chemist’ in 2007 and ‘Drive By’ in 2004 which has also recently been included in The Guardian’s ‘1000 Albums To Hear Before You Die’. Hanno vinto due premi per il Miglior ARIA Jazz Album - 'Chimico' nel 2007 e 'Drive In' nel 2004 che è anche stato recentemente incluso nel The Guardian's'1000 Album To Hear Before You Die '. Their latest gem, ‘Townsville’ released in Sept 2007 has also been attracting excellent reviews worldwide including The Wire’s (UK) Top Ten Jazz/Improv Releases of 2007. La loro ultima gemma, 'Townsville' uscito nel settembre 2007 è stata inoltre attirare eccellenti recensioni in tutto il mondo tra cui The Wire (UK) Top Ten Jazz / Improv Comunicati del 2007.
“Teetering perpetually on the edge of creation, Townsville is a sort of rhapsodic minimalism, as magical in its own way as a ping-pong ball pirouetting on a jet of air” 4 stars - The Independent (UK) "Teetering perennemente sul bordo della creazione, Townsville è una sorta di minimalismo rhapsodic, come magica e per la propria strada, come una pallina da ping-pong pirouetting su un getto d'aria" 4 stelle - The Independent (UK) JAZZ MINIMALISM I heard this album driving home one day around about midday. The drive was probably about 10 minutes long. Instead the drive took an hour which roughly the length of this monstrous, free jazz masterpiece. I was completely encapsulated and unable to move from my car. Any song, let alone album that stops me from leaving my shit bomb (but much loved) of a car is worth my praise. By far this is my favourite album from 2007.
Briefly for those that don't know The Necks they are a free-form experimental jazz group from Australia. The group consists of Chris Abrahams on piano, Tony Buck on drums and Lloyd Swanton on bass. The three are concerned with exploring improvisation and the removal of ones self from the music making process. Chris Abrahams said on ABC radio this year that ‘the point is to avoid those conscious, ego driven decisions’ and any performance that has a feeling of premeditation is regarded as substandard to ones that don’t. This is music without cognisant suggestion though the only way to explain it is to do just that. I’ve heard many descriptions such as it’s like seeing a world in a grain of sand, the shrilling of birds or a cluster of mountain goats from the Himalayas. The fact that the three avoid applying these worldly connotations to their music actually allows the listener to find these analogies more easily. Without egotistical input the movement of the music follows a natural progression that is mediated by human imprecision.
The album consists of one hour long piece recorded just outside of the Australian town of Townsville. The band records all their live performances but they believed that this one had an exceptional form and progression. Chris also mentioned that fact that when they arrived the concert standard Yamaha that they asked for was not delivered. Instead he used a much older piano and thankfully this meant a unique performance. In some sections he precedes to give the piano a great workout, pushing the keys to their limits to create a distortion that isn’t typical of a piano’s range.
Ho sentito questo album guida casa uno giorni intorno a mezzogiorno. The drive was probably about 10 minutes long. L'unità è stata probabilmente di circa 10 minuti. Instead the drive took an hour which roughly the length of this monstrous, free jazz masterpiece. Invece l'unità che ha preso un'ora circa la lunghezza di questo mostruoso, free jazz capolavoro. I was completely encapsulated and unable to move from my car. Ero completamente incapsulato e in grado di passare da mia auto. Any song, let alone album that stops me from leaving my shit bomb (but much loved) of a car is worth my praise. Ogni canzone, per non parlare di album che si ferma da me di lasciare il mio merda bomba (ma molto amato) di un auto che vale la mia lode. By far this is my favourite album from 2007. Di gran lunga questo è il mio album preferito dal 2007.
Briefly for those that don't know The Necks they are a free-form experimental jazz group from Australia. Brevemente per quelli che non conoscono il collo sono una forma sperimentale free-jazz gruppo da Australia. The group consists of Chris Abrahams on piano, Tony Buck on drums and Lloyd Swanton on bass. Il gruppo è composto da Chris Abrahams sul pianoforte, Tony Buck alla batteria e al basso, Lloyd Swanton. The three are concerned with exploring improvisation and the removal of ones self from the music making process. I tre sono interessati ad esplorare con l'improvvisazione e la rimozione di quelli autonomi dalla musica processo decisionale. Chris Abrahams said on ABC radio this year that ‘the point is to avoid those conscious, ego driven decisions’ and any performance that has a feeling of premeditation is regarded as substandard to ones that don’t. Chris ha detto Abrahams ABC radio su questo anno che 'il punto è di evitare quelle consapevole, ho guidato le decisioni' e tutte le prestazioni che ha un senso di premeditazione è considerato di sotto di quelli che non lo fanno. This is music without cognisant suggestion though the only way to explain it is to do just that. Questa è la musica senza cognisant suggerimento anche se l'unico modo di spiegare che è proprio a questo scopo. I’ve heard many descriptions such as it’s like seeing a world in a grain of sand, the shrilling of birds or a cluster of mountain goats from the Himalayas. Ho sentito molte descrizioni di come è come vedere un mondo in un granello di sabbia, il shrilling di uccelli o di un cluster di capre di montagna da Himalaya. The fact that the three avoid applying these worldly connotations to their music actually allows the listener to find these analogies more easily. Il fatto che i tre evitare l'applicazione di tali connotazioni mondana alla loro musica permette all'ascoltatore di trovare più facilmente queste analogie. Without egotistical input the movement of the music follows a natural progression that is mediated by human imprecision. Egoistici, senza immettere il movimento della musica segue una naturale progressione, che è mediata da imprecisione umana.
The album consists of one hour long piece recorded just outside of the Australian town of Townsville. L'album consiste di un'ora lungo pezzo registrato appena fuori della città di Townsville in Australia. The band records all their live performances but they believed that this one had an exceptional form and progression. La band registra tutti i loro spettacoli dal vivo, ma in cui si credeva che questa ha avuto un eccezionale forma e la progressione. Chris also mentioned that fact that when they arrived the concert standard Yamaha that they asked for was not delivered. Chris anche menzionato il fatto che, quando sono arrivati il concerto standard Yamaha, che hanno chiesto di non è stato recapitato. Instead he used a much older piano and thankfully this meant a unique performance. Invece ha usato un piano molto più antica e fortunatamente ciò significava una singolare performance. In some sections he precedes to give the piano a great workout, pushing the keys to their limits to create a distortion that isn’t typical of a piano’s range. In alcune sezioni egli precede il pianoforte di dare un grande allenamento, premendo i tasti per i loro limiti a creare una distorsione che non è tipico di un pianoforte la gamma. JAZZ MINIMALISM The Necks - Review
Riverside Theatre, 9 February 2008
The Necks‘ live performances have been described as minimalist, revolutionary, experimental, post-jazz, ambient, even mystical experiences. The nature of improvised music is that you never quite know what you’re going to hear - and the same goes for the performers.
The Necks
Sometimes they discuss what they might do, but after 21 years together, they don’t rehearse anymore. Tony Buck (drums), Lloyd Swanton (bass) and Chris Abrahams (piano) have an ESP-like communication on stage which gives every performance the sort of tension and excitement you sometimes miss from more traditional bands.
Between them, they have over 200 recording credits, and have played with groups from around the world. But as The Necks they have developed a cult following.
Tony Buck says they just started out playing the sort of music they wanted to hear - rhythmic, experimental, evolving soundscapes, pieces that continue for forty or fifty minutes at a stretch. “We didn’t know what people would think of it, but they seemed to like it.” 13 albums later, the group spends equal time in Europe and Australia, and they are currently embarked on a national tour.
A typical gig begins with the three performers motionless at their instruments, eyes closed. One starts to play, perhaps some pattern from the piano, a low hum from the bass, the stroke of a drum skin. Unplanned, but entirely under control, the piece grows as they introduce changes, a new beat, bass chords, textures. The crowd sits, often with eyes closed, exploring the worlds the band throws out to them.
Every performance is unique. It is a temporary aural installation. You sit down, experience it, and it is gone. Unlike a band playing pre-rehearsed numbers, there is always the tension of creativity: the question of whether new ideas will work.
It is cerebral, thinking music, where you find yourself at the end of a set, in silence and often awe, wondering where the time has gone. Sometimes it’s good. Sometimes it’s bliss. Always it’s vital, inspiring, a privilege to experience. (Lachlan Jobbins).
La Colli 'live performance sono state descritte come minimalista, rivoluzionario, sperimentale, post-jazz, ambient, anche esperienze mistiche. The nature of improvised music is that you never quite know what you’re going to hear - and the same goes for the performers. La natura della musica improvvisata è che lei non è mai sapere che cosa si sta andando ad ascoltare - e lo stesso vale per gli artisti.
La Colli
Sometimes they discuss what they might do, but after 21 years together, they don’t rehearse anymore. Talvolta, discutono di quello che potrebbe fare, ma dopo 21 anni insieme, che non provano più. Tony Buck (drums), Lloyd Swanton (bass) and Chris Abrahams (piano) have an ESP-like communication on stage which gives every performance the sort of tension and excitement you sometimes miss from more traditional bands. Tony Buck (batteria), Lloyd Swanton (basso) e Chris Abrahams (pianoforte) hanno un ESP-come sul palcoscenico di comunicazione che dà la performance ogni sorta di tensione e di emozioni che vengono talvolta da perdere più tradizionali bande.
Between them, they have over 200 recording credits, and have played with groups from around the world. Tra di loro, sono più di 200 crediti registrazione, e hanno suonato con gruppi provenienti da tutto il mondo. But as The Necks they have developed a cult following. Il collo, ma come essi hanno sviluppato un seguito di culto.
Tony Buck says they just started out playing the sort of music they wanted to hear - rhythmic, experimental, evolving soundscapes, pieces that continue for forty or fifty minutes at a stretch. Tony Buck dice che hanno appena iniziato a giocare il tipo di musica che volevano sentire - ritmica, experimental, soundscapes evoluzione, che continuano pezzi per quaranta o cinquanta minuti a un tratto. “We didn’t know what people would think of it, but they seemed to like it.” 13 albums later, the group spends equal time in Europe and Australia, and they are currently embarked on a national tour. «Noi non sapevamo quello che la gente potrebbe pensare di esso, ma sembrava like it." 13 album più tardi, il gruppo spende tempo pari in Europa e Australia, e sono attualmente impegnati in un tour nazionale.
A typical gig begins with the three performers motionless at their instruments, eyes closed. Un tipico concerto comincia con i tre esecutori di strumenti a loro immobile, gli occhi chiusi. One starts to play, perhaps some pattern from the piano, a low hum from the bass, the stroke of a drum skin. Uno inizia a giocare, forse qualche modello da pianoforte, un basso ronzio dal basso, la corsa di un tamburo di pelle. Unplanned, but entirely under control, the piece grows as they introduce changes, a new beat, bass chords, textures. Impreviste, ma del tutto sotto controllo, il pezzo cresce come introdurre cambiamenti, di una nuova battuta, basse corde, texture. The crowd sits, often with eyes closed, exploring the worlds the band throws out to them. La folla si siede, spesso con gli occhi chiusi, esplorare il mondo della band butta fuori di essi.
Every performance is unique. Ogni performance è unica. It is a temporary aural installation. Si tratta di una installazione temporanea fonetica. You sit down, experience it, and it is gone. Lei siede, l'esperienza, e è andato. Unlike a band playing pre-rehearsed numbers, there is always the tension of creativity: the question of whether new ideas will work. A differenza di un gruppo di pre-provato a giocare i numeri, c'è sempre la tensione della creatività: la questione di sapere se le nuove idee di lavoro.
It is cerebral, thinking music, where you find yourself at the end of a set, in silence and often awe, wondering where the time has gone. È cerebrale, il pensiero musicale, dove vi trovate alla fine di un set, spesso nel silenzio e stupore, chiedendomi dove il tempo è passato. Sometimes it’s good. A volte è buona. Sometimes it’s bliss. A volte è Bliss. Always it’s vital, inspiring, a privilege to experience. Sempre è vitale, ispirato, un privilegio di vivere. (Lachlan Jobbins). (Jobbins Lachlan). la letteratura “serve” Le due vite
C’è un momento in cui possiamo affermare con assoluta certezza che la letteratura “serve”? Credo di sì, e questo non soltanto nel preciso istante in cui qualcuno ne fruisce leggendola. La letteratura ci viene in aiuto anche quando un brano o dei versi sono più utili di un ragionamento complesso o di un’astrazione teorica per comprendere - e quindi per meglio affrontare - la vita reale. A me è capitato spesso che l’altra vita contamini di sé questa vita, e la sensazione che ha lasciato è sempre stata positiva, come i risultati.
da akatalēpsía, 16 ottobre 2006 laicità Il senso del laico Questo termine non è un sinonimo di ateo o miscredente ma implica rispetto per gli altri e libertà da ogni idolatria
di Claudio Magris
Quando, all'università, con alcuni amici studiavamo tedesco, lingua allora non molto diffusa, e alcuni compagni che l'ignoravano ci chiedevano di insegnar loro qualche dolce parolina romantica con cui attaccar bottone alle ragazze tedesche che venivano in Italia, noi suggerivamo loro un paio di termini tutt'altro che galanti e piuttosto irriferibili, con le immaginabili conseguenze sui loro approcci. Questa goliardata, stupidotta come tutte le goliardate, conteneva in sé il dramma della Torre di Babele: quando gli uomini parlano senza capirsi e credono di dire una cosa usando una parola che ne indica una opposta, nascono equivoci, talora drammatici sino alla violenza. Nel penoso autogol in cui si è risolta la gazzarra contro l'invito del Papa all'università di Roma, l'elemento più pacchiano è stato, per l'ennesima volta, l'uso scorretto, distorto e capovolto del termine «laico», che può giustificare un ennesimo, nel mio caso ripetitivo, tentativo di chiarirne il significato.
Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l'opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall'adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.
La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l'attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura— anche cattolica — se è tale è sempre laica, così come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo.
Una visione religiosa può muovere l'animo a creare una società più giusta, ma il laico sa che essa non può certo tradursi immediatamente in articoli di legge, come vogliono gli aberranti fondamentalisti di ogni specie. Laico è chi conosce il rapporto ma soprattutto la differenza tra il quinto comandamento, che ingiunge di non ammazzare, e l'articolo del codice penale che punisce l'omicidio. Laico — lo diceva Norberto Bobbio, forse il più grande dei laici italiani — è chi si appassiona ai propri «valori caldi» (amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico) ma difende i «valori freddi» (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi. Un altro grande laico è stato Arturo Carlo Jemolo, maestro di diritto e libertà, cattolico fervente e religiosissimo, difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa e duro avversario dell'inaccettabile finanziamento pubblico alla scuola privata — cattolica, ebraica, islamica o domani magari razzista, se alcuni genitori pretenderanno di educare i loro figli in tale credo delirante.
Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l'autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall'idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.
I bacchettoni che si scandalizzano dei nudisti sono altrettanto poco laici quanto quei nudisti che, anziché spogliarsi legittimamente per il piacere di prendere il sole, lo fanno con l'enfatica presunzione di battersi contro la repressione, di sentirsi piccoli Galilei davanti all'Inquisizione, mai contenti finché qualche tonto prete non cominci a blaterare contro di loro.
Un laico avrebbe diritto di diffidare formalmente la cagnara svoltasi alla Sapienza dal fregiarsi dell'appellativo «laico». È lecito a ciascuno criticare il senato accademico, dire che poteva fare anche scelte migliori: invitare ad esempio il Dalai Lama o Jamaica Kincaid, la grande scrittrice nera di Antigua, ma è al senato, eletto secondo le regole accademiche, che spettava decidere; si possono criticare le sue scelte, come io criticavo le scelte inqualificabili del governo Berlusconi, ma senza pretendere di impedirgliele, visto che purtroppo era stato eletto secondo le regole della democrazia.
Si è detto, in un dibattito televisivo, che il Papa non doveva parlare in quanto la Chiesa si affida a un'altra procedura di percorso e di ricerca rispetto a quella della ricerca scientifica, di cui l'università è tempio. Ma non si trattava di istituire una cattedra di Paleontologia cattolica, ovviamente una scemenza perché la paleontologia non è né atea né cattolica o luterana, bensì di ascoltare un discorso, il quale — a seconda del suo livello intellettuale e culturale, che non si poteva giudicare prima di averlo letto o sentito — poteva arricchire di poco, di molto, di moltissimo o di nulla (come tanti discorsi tenuti all'inaugurazione di anni accademici) l'uditorio. Del resto, se si fosse invitato invece il Dalai Lama — contro il quale giustamente nessuno ha né avrebbe sollevato obiezioni, che è giustamente visto con simpatia e stima per le sue opere, alcune delle quali ho letto con grande profitto — anch'egli avrebbe tenuto un discorso ispirato a una logica diversa da quella della ricerca scientifica occidentale.
Ma anche a questo proposito il laico sente sorgere qualche dubbio. Così come il Vangelo non è il solo testo religioso dell'umanità, ma ci sono pure il Corano, il Dhammapada buddhista e la Bhagavadgita induista, anche la scienza ha metodologie diverse. C'è la fisica e c'è la letteratura, che è pure oggetto di scienza — Literaturwissenschaft, scienza della letteratura, dicono i tedeschi — e la cui indagine si affida ad altri metodi, non necessariamente meno rigorosi ma diversi; la razionalità che presiede all'interpretazione di una poesia di Leopardi è diversa da quella che regola la dimostrazione di un teorema matematico o l'analisi di un periodo o di un fenomeno storico. E all'università si studiano appunto fisica, letteratura, storia e così via. Anche alcuni grandi filosofi hanno insegnato all'università, proponendo la loro concezione filosofica pure a studenti di altre convinzioni; non per questo è stata loro tolta la parola.
Non è il cosa, è il come che fa la musica e anche la libertà e razionalità dell'insegnamento. Ognuno di noi, volente o nolente, anche e soprattutto quando insegna, propone una sua verità, una sua visione delle cose. Come ha scritto un genio laico quale Max Weber, tutto dipende da come presenta la sua verità: è un laico se sa farlo mettendosi in gioco, distinguendo ciò che deriva da dimostrazione o da esperienza verificabile da ciò che è invece solo illazione ancorché convincente, mettendo le carte in tavola, ossia dichiarando a priori le sue convinzioni, scientifiche e filosofiche, affinché gli altri sappiano che forse esse possono influenzare pure inconsciamente la sua ricerca, anche se egli onestamente fa di tutto per evitarlo. Mettere sul tavolo, con questo spirito, un'esperienza e una riflessione teologica può essere un grande arricchimento. Se, invece, si affermano arrogantemente verità date una volta per tutte, si è intolleranti totalitari, clericali. Non conta se il discorso di Benedetto XVI letto alla Sapienza sia creativo e stimolante oppure rigidamente ingessato oppure — come accade in circostanze ufficiali e retoriche quali le inaugurazioni accademiche — dotto, beneducato e scialbo. So solo che — una volta deciso da chi ne aveva legittimamente la facoltà di invitarlo — un laico poteva anche preferire di andare quel giorno a spasso piuttosto che all'inaugurazione dell'anno accademico (come io ho fatto quasi sempre, ma non per contestare gli oratori), ma non di respingere il discorso prima di ascoltarlo.
Nei confronti di Benedetto XVI è scattato infatti un pregiudizio, assai poco scientifico. Si è detto che è inaccettabile l'opposizione della dottrina cattolica alle teorie di Darwin. Sto dalla parte di Darwin (le cui scoperte si pongono su un altro piano rispetto alla fede) e non di chi lo vorrebbe mettere al bando, come tentò un ministro del precedente governo, anche se la contrapposizione fra creazionismo e teoria della selezione non è più posta in termini rozzi e molte voci della Chiesa, in nome di una concezione del creazionismo più credibile e meno mitica, non sono più su quelle posizioni antidarwiniane. Ma Benedetto Croce criticò Darwin in modo molto più grossolano, rifiutando quella che gli pareva una riduzione dello studio dell'umanità alla zoologia e non essendo peraltro in grado, diversamente dalla Chiesa, di offrire una risposta alternativa alle domande sull'origine dell'uomo, pur sapendo che il Pitecantropo era diverso da suo zio filosofo Bertrando Spaventa. Anche alla matematica negava dignità di scienza, definendola «pseudoconcetto». Se l'invitato fosse stato Benedetto Croce, grande filosofo anche se più antiscientista di Benedetto XVI, si sarebbe fatto altrettanto baccano? Perché si fischia il Papa quando nega il matrimonio degli omosessuali e non si fischiano le ambasciate di quei Paesi arabi, filo- o anti-occidentali, in cui si decapitano gli omosessuali e si lapidano le donne incinte fuori dal matrimonio? In quella trasmissione televisiva Pannella, oltre ad aver infelicemente accostato i professori protestatari della Sapienza ai professori che rifiutarono il giuramento fascista perdendo la cattedra, il posto e lo stipendio, ha fatto una giusta osservazione, denunciando ingerenze della Chiesa e la frequente supina sudditanza da parte dello Stato e degli organi di informazione nei loro riguardi. Se questo è vero, ed in parte è certo vero, è da laici adoperarsi per combattere quest'ingerenza, per dare alle altre confessioni religiose il pieno diritto all'espressione, per respingere ogni invadenza clericale, insomma per dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, principio laico che, come è noto, è proclamato nel Vangelo. Ma questa doverosa battaglia per la laicità dello Stato non autorizza l'intolleranza in altra sede, come è accaduto alla Sapienza; se il mio vicino fa schiamazzi notturni, posso denunciarlo, ma non ammaccargli per rivalsa l'automobile.
Una cosa, in tutta questa vicenda balorda, è preoccupante per chi teme la regressione politica del Paese, i rigurgiti clericali e il possibile ritorno del devastante governo precedente. È preoccupante vedere come persone e forze che si dicono e certo si sentono sinceramente democratiche e dovrebbero dunque razionalmente operare tenendo presente la gravità della situazione politica e il pericolo di una regressione, sembrano colte da una febbre autodistruttiva, da un'allegra irresponsabilità, da una spensierata vocazione a una disastrosa sconfitta.
20 gennaio 2008 lavorare Ama il modesto mestiere che hai imparato e accontentati di esso LEGGERE
Degli esercizi spirituali suggeriti da PIERRE HADOT come pratiche filosofiche tese a formare l’anima quelli provenienti dalla cultura pagana sono sostanzialmente quattro: imparare a vivere, imparare a morire, imparare a dialogare, imparare a leggere.
Se i primi tre attirano subito la nostra attenzione e ci spingono a scavare nel testo di Hadot, in cerca delle parole greche, delle definizioni, delle formule, delle massime, delle prescrizioni da seguire, una curiosità più grande suscita il quarto esercizio.
Di esso ROLAND BARTHES scriveva nel 1979 (Voce Lettura dell’Enciclopedia Einaudi 8, pp.176-199) che «leggere è una tecnica», «leggere è una pratica sociale», «leggere è una forma di gestualità», «leggere è una forma di saggezza», «leggere è un metodo», «leggere è un’attività voluttuaria». Oggetto, Operazione, Fenomeno, in esso è implicato il desiderio; senso e intertesto ne costituiscono l’anima come pratica della testualità, commercio con i testi.
Ebbene, secondo Hadot, quasi tutti i filosofi antichi hanno scritto in funzione della scuola, pensando ai loro allievi, a partire da problemi specifici. Anche le opere più ardue e apparentemente sistematiche in realtà non lo sono quasi mai: gli antichi pensavano in termini di ricerca, di formulazione dei problemi da punti di vista sempre diversi.
Leggere per loro significava questo: riservare il commento, la silloge, il trattato a interlocutori diversi. Diverso era il grado della conoscenza posseduto, diversi i testi a cui far accostare gli allievi, gli interlocutori, il pubblico. La lettura dei testi filosofici per gli antichi è pratica degli esercizi spirituali.
«La filosofia appare allora - nel suo aspetto originario - non più come una costruzione teorica, ma come un metodo inteso a formare una nuova maniera di vivere e di vedere il mondo, come uno sforzo di trasformare l’uomo. In genere gli storici contemporanei della filosofia hanno scarsamente la tendenza a prestare attenzione a questo aspetto, nondimeno essenziale» (PIERRE HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, EINAUDI 2002, pag.66).
Per comprendere chi è Hadot, basti pensare
all’opera Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura (Einaudi, 2006), risultato di 40 anni di studi, costruita a partire dal frammento di Eraclito: «La natura ama nascondersi»,
a Plotino o la semplicità dello sguardo (Einaudi, 1999),
a Che cos’è la filosofia antica? (Einaudi 1998).
Imparare a leggere - Παιδεια da Limen di gabriele de ritis leggere Di esso ROLAND BARTHES scriveva nel 1979 (Voce Lettura dell’Enciclopedia Einaudi 8, pp.176-199) che «leggere è una tecnica», «leggere è una pratica sociale», «leggere è una forma di gestualità», «leggere è una forma di saggezza», «leggere è un metodo», «leggere è un’attività voluttuaria». Oggetto, Operazione, Fenomeno, in esso è implicato il desiderio; senso e intertesto ne costituiscono l’anima come pratica della testualità, commercio con i testi.
Ebbene, secondo Hadot, quasi tutti i filosofi antichi hanno scritto in funzione della scuola, pensando ai loro allievi, a partire da problemi specifici. Anche le opere più ardue e apparentemente sistematiche in realtà non lo sono quasi mai: gli antichi pensavano in termini di ricerca, di formulazione dei problemi da punti di vista sempre diversi.
Leggere per loro significava questo: riservare il commento, la silloge, il trattato a interlocutori diversi. Diverso era il grado della conoscenza posseduto, diversi i testi a cui far accostare gli allievi, gli interlocutori, il pubblico. La lettura dei testi filosofici per gli antichi è pratica degli esercizi spirituali.
«La filosofia appare allora - nel suo aspetto originario - non più come una costruzione teorica, ma come un metodo inteso a formare una nuova maniera di vivere e di vedere il mondo, come uno sforzo di trasformare l’uomo. In genere gli storici contemporanei della filosofia hanno scarsamente la tendenza a prestare attenzione a questo aspetto, nondimeno essenziale» (PIERRE HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, EINAUDI 2002, pag.66).
Da http://www.gabrielederitis.it/?p=447 leggere « Quale benessere ci offrono i nuovi libri! Io vorrei che ogni giorno mi cadessero dal cielo a grandi fasci i libri che raccontano la giovinezza delle immagini. Questo voto è naturale. Questo prodigio è facile. Lassù, in cielo, non è forse il paradiso un'immensa biblioteca? ». Ma non basta ricevere, bisogna raccogliere. Bisogna, dicono a una sola voce il pedagogo e la dietologa « assimilare ». Per questo, ci consigliano di non leggere troppo velocemente, e di guardarsi dall'inghiottire pezzi troppo grossi. Dividete, ci dicono, ogni difficoltà in tutte le particelle possibili per risolverla meglio. Masticate bene, bevete a piccole sorsate, assaporate verso per verso i poemi. Tutti questi precetti sono belli e buoni. Ma un principio li comanda. È necessario dapprima un buon desiderio di mangiare, di bere e di leggere. Bisogna desiderare di leggere molto, leggere ancora, leggere sempre. « Fin dal mattino, davanti ai libri accumulati sulla mia tavola, faccio la mia preghiera al dio della lettura: « Dacci oggi la nostra fame quotidiana... ». leggere CLASSICI Un classico è qualcosa che tutti vorrebbero aver letto e nessuno vuol leggere leggere scrivere Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una sorta di strumento ottico offerto al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe visto in se stesso LIBERTA' Vi è una sola cosa che - non so perché - gli uomini non hanno la forza di desiderare: la libertà, un bene tanto grande e dolce! Non appena la si perde, sopraggiungono tutti i mali possibili e senza di essa, tutti gli altri beni, corrotti dalla servitù, perdono gusto e sapore. Sembra che gli uomini tengano in poco conto la libertà, infatti, se la desiderassero, l'otterrebbero; si direbbe quasi che rifiutino di fare questa preziosa conquista perché è troppo facile.
"Il en est une seule que les hommes, je ne sais pour-quoi, n'ont pas la force de désirer: c'est la liberté, bien si grand et si doux! Dès qu'elle est perdue, tous les maux s'ensuivent, et sans elle tous les autres biens, corrompus par la servitude, perdent entièrement leur goùt et leur saveur. La liberté, les hommes la dédaignent uniquement, sem-ble-t- il, parce que s'ils la désiraient, ils l'auraient; comme s'ils refusaient de faire cette précieuse acquisition parce qu'elle est trop aisée"
La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, La Vita Felice, Milano 2007 traduzione di Giuseppe Pintorno LIBRI Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l'inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo. La sua mano si alzava e si abbassava a ogni prezioso respiro. Si tolse di dosso il telo di plastica, si tirò su avvolto nei vestiti e nelle coperte puzzolenti e guardò verso est in cerca di luce ma non ce n'era. Nel sogno da cui si era svegliato vagava in una caverna con il bambino che lo guidava tenendolo per mano. Il fascio di luce della torcia danzava sulle pareti umide piene di concrezioni calcaree. Come viandanti di una favola inghiottiti e persi nelle viscere di una bestia di granito. Profonde gole di pietra dove l'acqua sgocciolava e mormorava. I minuti della terra scanditi nel silenzio, le sue ore, i giorni, gli anni senza sosta. Poi si ritrovavano in una grande sala di pietra dove si apriva un lago nero e antico. E sulla sponda opposta una creatura che alzava le fauci grondanti da quel pozzo carsico e fissava la luce della torcia con occhi bianchissimi e ciechi come le uova dei ragni. Dondolava la testa appena sopra il pelo dell'acqua come per annusare ciò che non riusciva a vedere. Rannicchiata li, pallida, nuda e traslucida, con le ossa opalescenti che proiettavano la loro ombra sulle rocce dietro di lei. Le sue viscere, il suo cuore vivo. Il cervello che pulsava in una campana di vetro opaco. Dondolava la testa da una parte all'altra, emetteva un mugolio profondo, si voltava e si allontanava fluida e silenziosa nell'oscurità. Con la prima luce grigiastra l'uomo si alzò, lasciò il bambino addormentato e uscf sulla strada, sì accovacciò e studiò il territorio a sud. Arido, muto, senza dio. Gli pareva che fosse ottobre ma non ne era sicuro. Erano anni che non possedeva un calendario. Si stavano spostando verso sud. Li non sarebbero sopravvissuti a un altro inverno.
….. Si accovacciarono sulla strada e mangiarono riso e fagioli freddi che avevano cucinato giorni prima. Cominciavano già a fermentare. Non c'era un posto dove accendere il fuoco senza essere visti. Dormirono l'uno contro l'altro fra le trapunte puzzolenti nel buio e nel freddo. Lui teneva il bambino stretto a sé. Cosi magro. Angelo mio, disse. Angelo mio. Ma ammesso che fosse un buon padre sapeva che le cose potevano stare proprio come aveva detto lei. Che il bambino era l'unica cosa che lo separava dalla morte.pag. 23 LIBRI «Ci sono libri che si posseggono da vent'anni senza leggerli, che si tengono sempre vicini, che uno porta con sé di città in città, di paese in paese, imballati con cura, anche se abbiamo pochissimo posto, e forse li sfogliamo al momento di toglierli dal baule; tuttavia ci guardiamo bene dal leggerne per intero anche una sola frase. Poi, dopo vent'anni, viene un momento in cui d'improvviso quasi per una fortissima coercizione, non si può fare a meno di leggere uno di questi libri d'un fiato, da capo a fondo: è come una rivelazione. Ora sappiamo perché lo abbiamo trattato con tante cerimonie. Doveva stare a lungo vicino a noi; doveva viaggiare; doveva occupare posto; doveva essere un peso; e adesso si svela, adesso illumina i vent'anni trascorsi in cui è vissuto, muto, con noi. Non potrebbe dire tanto se per tutto quel tempo non fosse rimasto muto, e solo un idiota si azzarderebbe a credere che dentro ci siate state sempre le medesime cose» ELIAS CANETTI, LA PROVINCIA DELL'UOMO, ADELPHI libri "Come accade per gli uomini, ho avuto l'impressione che anche i libri possiedano dei loro peculiari destini. vanno verso le persone che li attendono e le raggiungono nel momento giusto. sono composti di materia vivente e continuano a gettare luce attraverso l'oscurità per molto tempo dopo la morte dei loro autori" Miguel Serrano, Il cerchio ermetico (1966), casa editrice astrolabio, 1976, pag. 10 LIBRI Lo aspettò sulla strada e quando l'uomo riemerse dal bosco aveva in mano la valigia e le coperte su una spalla. Ne scelse una e la diede al bambino. Ecco, disse. Mettitela addosso, che hai freddo. Il bambino fece per dargli la pistola ma l'uomo non la volle. Quella tienila tu, disse. Ok. Lo sai come si usa? Si. Ok. E il mio papa ? Non c'è nient'altro che possiamo fare per lui. Mi sa che voglio andare a salutarlo. Ce la fai da solo ? Si. Allora vai. Ti aspetto. Tornò nel bosco e si inginocchiò accanto al padre. Era avvolto in una coperta, come l'uomo aveva promesso, e il bambino non lo scopri ma gli si sedette vicino e si mise a piangere senza riuscire a fermarsi. Pianse per un bel pezzo. Ti parlerò tutti i giorni, sussurrò. E non mi dimenticherò. Per niente al mondo. Poi si alzò, si voltò e tornò verso la strada. Quando la donna lo vide lo abbracciò e lo tenne stretto. Oh, gli disse, come sono contenta di vederti. Ogni tanto la donna gli parlava di Dio. Lui ci provava a parlare con Dio, ma la cosa migliore era parlare con il padre, e infatti ci parlava e non lo dimenticava mai. La donna diceva che andava bene cosi. Diceva che il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all'altro in eterno. Una volta nei torrenti di montagna c'erano i salmeri-ni. Li potevi vedere fermi nell'acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell'uomo, e vibrava di mistero. LIBRI DI AMICI Le parole dell’infanzia:
1) Alcott, Piccole donne- Piccole donne crescono 2) Raimond Queneau, Zazie nel metro 3) Italo Calvino, Fiabe italiane
Le parole dell’adolescenza:
4) Goethe, Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister, o i Rinuncianti 5) Goethe, Le affinità elettive 6) Herman Hesse: tutto. 7) Robert Musil, Il giovane Torless 8) Charles Schultz, tutti i fumetti.
Le parole meno confuse dell’ “era universitaria”
9) Artur Schitzlner, tutto 10) Thomas mann, Il doctor Faustus 11) Thomas Mann, La montagna incantata 12) Tommaso Landolfi, tutto 13) Thomas Bernard, Il soccombente 14) Borges, L’aleph 15) Borges, Finzioni 16) Borges, Altre inquisizioni 17) Rudolph Arnheim, Film come arte 18) Sartre, La nausée 19) Sartre, Le parole 20) Carlos Castaneda, tutto 21) Maurice Blanchot, Lo spazio letterario 22) Angelo Maria Ripellino, Praga magica 23) Giovanni Macchia, La stanza delle passioni 24) Emilio Garroni, Senso e paradosso
Le parole dell’età adulta 25) Chitra Divakaruni, tutto; Murakami;, J. Cohen; Banana Yoshimoto; Manuel Vasquez Montalban, Antonio Tabucchi ecc, ecc. Nota: ogni volta che mi metto a fare cataloghi, dopo mi accorgo che è rimasto fuori l’essenziale. Per es., Deleuze e Roland Barthes dove li metto? E Franco Basaglia?
Renata Turco logos In principio era il pensiero
en archè en o logos
Giovanni evangelista, capitolo 1, versetto 1 LUOGHI TEMPO Un luogo privilegiato
Essere amata e amare un albero, un monte, una radura. Amare la meraviglia e il terrore della natura (ieri sera un vento impetuoso mi ha colta lontano da casa, costringendomi a trovare riparo in un casolare abbandonato). Poi contemplare anche, “degustarsi”, assaporare la propria sostanza. Basta questo a riempire la vita. Basta che una cosa non rimanga come prima di averla contemplata. Svegliare un mondo sonnolento e renderlo vivo allo spirito, fare di ogni immagine un luogo privilegiato. Infine non curarsi troppo del futuro, perché - tanto - è come camminare verso il nulla.
http://cleliamazzini.tumblr.com/post/29459977 MALINCONIA Questo deve fare la poesia, oggi: catturare le parti più celate della vita e restituirle con una voce nuova, semplice, che lasci sempre e comunque il segno di un percorso che viene da lontano, ma che non condurrà mai vicino.
Grondai così dalla parola:
un frammento di notte a braccia spalancate una bilancia solo per soppesare fughe in questo tempo stellare calata nella polvere impressa d'orme.
E' tardi ormai. Ciò che è lieve mi lascia e ciò che è greve già vanno via le spalle come nubi braccia e mani libere nel gesto.
Molto scuro è sempre il colore del ricordo Mi riprende così la notte in suo possesso.
Nelly Sachs da Poeti della malinconia MANGIARE «Astenetevi, o mortali, dal contaminarvi il corpo con pietanze empie! Ci sono i cereali, ci sono i frutti che piegano con il loro peso i rami, grappoli d'uva turgidi sulle viti. Ci sono verdure deliziose, ce n'è di quelle che si possono rendere più buone con la cottura.
E nessuno vi proibisce il latte, e il miele che profuma di timo. La terra generosa vi fornisce ogni ben di dio e vi offre banchetti senza bisogno di uccisioni e di sangue.
Ah, che delitto enorme è cacciare visceri nei visceri, ingrassare il corpo ingordo stipandovi dentro un altro corpo, vivere della morte di un altro essere vivente!
In mezzo a tutta l'abbondanza di prodotti della Terra, la migliore di tutte le madri, davvero non ti piace altro che masticare con dente crudele povere carni piagate, facendo il verso col muso ai Ciclopi? E solo distruggendo un altro potrai placare lo sfinimento di un ventre vorace e vizioso?»
Ovidio, Le metamorfosi, XV, 75-95 massa "La calca s’era ispessita all’imbrunire, ogni istante di più, fino a che, all’accendersi dei becchi, cominciò a fluire in due opposte direzioni dense e continue. Le mie osservazioni furono, da principio, astratte e generiche. Cominciai col considerare i passanti sotto il loro aspetto di massa e avendo la mente solo ai loro rapporti collettivi. Ma venni dipoi ai particolari e m’applicai in un minuto esame allo scopo di vagliare la diversità dei tipi dai loro vestiti, dall’aspetto, dall’andatura, dai volti. [...] Allorché la fisionomia di un vecchio attirò la mia attenzione, per l’ossuta singolarità della sua espressione. E, compreso d’un desiderio ardente di non perdere di vista quell’uomo e di conoscere sul suo conto qualcosa di più, mi lanciai nella strada, aprendomi a fatica una via nella calca nella stesa direzione in cui quegli sembrava essere scomparso. Gli tenni dietro, a distanza breve, studioso di non risvegliare alcun suo sospetto [...] Mosse qualche passo e poi ripiegò nella direzione del fiume fintanto che giunse in vista d’uno dei maggiori teatri della città, nel mentre che la folla, a spettacolo finito, si riversava, da tutte le porte spalancate, nella strada. Il vecchio, allora, aperse la bocca come per emettere un gran respiro che avesse covato, e lo vidi buttarsi a capofitto frammezzo alla folla. L’espressione di profonda angoscia, di cui portava i segni sul viso, parve distendersi. Ma poiché il gruppo dietro al quale egli sembrava essersi messo, si diradava man mano, m’accorgevo che il poveretto era riacciuffato dalla sua inquietudine di prima. Si trascinò ancora qualche tempo dietro un ultimo relitto di folla, una dozzina appena di schiamazzatori, ma come costoro, separandosi un po’ alla volta, rimasero, allo svolto d’un vicolo oscuro, soltanto in tre, lo sconosciuto si fermò e rimase un attimo sopra pensiero. [...] Ma nel mentre che noi procedevamo, il rumore della vita ci veniva incontro, man mano, sempre più distinto e, a un tratto, vedemmo nell’oscurità scomposte torme di gente che s’agitava. Il vecchio parve allora rianimarsi di nuovo e palpitare d’un guizzo di vita simile a quello che manda una lampada che sia presso a estinguersi, e ancora una volta riprese a camminare con una certa risoluzione e speditezza"
(tratto dal racconto "L'uomo della folla" di Edgar Allan Poe). MATRIMONIO CONVERSAZIONE "Il matrimonio come lunga conversazione - Al momento di sposarsi bisogna porsi una domanda: credi di poter conversare piacevolmente con questa donna, fino alla vecchiaia? Tutto il resto del matrimonio è transitorio, ma per la maggior parte del tempo il rapporto è conversazione" in Troppo umano, I, 1878, 406 maturità gioventù
La delusione della maturità segue l'illusione della gioventù. Benjamin Disraeli MEMORIA CONDIVISA FASCISMO ANTIFASCISMO da Sergio Luzzatto, La crisi dell'antifascismo, Einaudi 2002
"Capita oggi di assistere a un paradosso: gli uomini e le donne i quali scegliendo a vent’anni l’antifascismo anziché il fascismo, contribuirono in maniera straordinaria a redimere l’Italia dalla colpa storica della dittatura, si trovano adesso da ottuagenari a doversi confessare per peccati che non hanno materialmente commesso. Oppure si preparano a morire tacendo"
“confusione che oggi si fa tra memoria condivisa e storia condivisa; più in generale tra bisogno di memoria e bisogno di storia.... Occorrerebbe spiegare che la memoria collettiva sulla quale si affaticava la mente geniale di uno studioso come Marc Bloch non equivale necessariamente alla memoria condivisa" (pag. 15) di cui tessono l’elogio i revisionisti da strapazzo. "L’una (la storia) rimanda a un unico passato, cui nessuno di noi può sottrarsi, mentre l"altra (la memoria condivisa) sembra presumere un’operazione più o meno forzosa di azzeramento delle identità e di occultamento delle differenze. Il rischio di una memoria condivisa è una smemoratezza patteggiata, la comunione nella dimenticanza" (pag. 25).
"Credo sia venuto il momento di dire ai cattivi maestri - votino a destra o a sinistra - una cosa semplicissima, ma di dirla forte e chiara: la guerra civile combattuta tra il 1943 e 45 (o 46) non ha bisogno di interpretazioni bipartisan che ridistribuiscano equamente ragioni e torti, elogi e necrologi. Perché certe guerre civili meritano di essere combattute. E perché la moralità della Resistenza consistette anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l"Italia anche a costo di spargere sangue" (pag. 29). "Ripeto: si può condividere una storia - e si può condividere una nazione o addirittura una patria - senza per questo dover dividere delle memorie. Dico di più: una nazione e perfino una patria hanno bisogno come del pane di memorie antagonistiche, fondate su lacerazioni originarie, su valori identitari, su appartenenze non abdicabili né contrattabili".
Oggi, con il mio collega storico - nonchè mio ex professore alla Normale - Roberto Vivarelli io certamente condivido, da cittadino italiano, tutta una storia. È quella stessa storia (a poste¬riori cosi straziante, e infatti cosi poco studia¬ta) che fece in maggioranza degli ebrei italiani, e forse di mio nonno, altrettanti volenterosi am¬miratori di Mussolini. Ma se parliamo di me¬moria, io desidero e pretendo che la mia e quel¬la di Vivarelli restino memorie divise. Si tenga pure, lui, la memoria di suo padre squadrista, marciatore su Roma, volontario in tutte le guer¬re del duce; si tenga la memoria di se stesso, im¬berbe volontario delle brigate nere. Io mi ten¬go la memoria del nonno che non ho mai cono¬sciuto: del medico che perse, dopo la cattedra universitaria, ogni diritto di curare pazienti «ariani», prima di nascondersi a Lucca come un topo braccato per sfuggire ai risultati estremi della persecuzione razziale. E mi tengo la memoria di mio padre bambino, che dovette cela¬re tra i monti della Garfagnana la sua origina¬ria condizione di «mezzo» ebreo, cosi da sottrarsi al treno per Auschwitz. Inoltre, sostengo che è assurdo pretendere di versare il sangue di mio nonno, di mio padre, o di qualunque altro ebreo fortunosamente scam¬pato alla Soluzione finale, nell'improbabile cal¬derone di un sangue dei vincitori in tutto e per tutto distinto dal sangue dei vinti. No, davvero non riesco a pensare a mio nonno come a un vin¬citore: lui che nel 1915, da fervido irredentista triestino, si era arruolato volontario nella Gran¬de Guerra per combattere sotto le insegne di Ca¬sa Savoia; lui che, vent'anni più tardi, ha letto la firma del suo maestro Pende in calce al «Ma¬nifesto della razza»; lui che il io giugno del 1940 - ormai da ebreo perseguitato - è nondimeno sceso con suo figlio (mio padre) in piazza De Fer¬rari, a Genova, per raccogliere dall'altoparlante la voce di Mussolini che annunciava stentorea l'entrata dell'Italia fascista nella seconda guerre mondiale; lui che, nell'Italia della Repubblica, non avrebbe comunque più ritrovato lo scranne della sua cattedra universitaria.
Tra i due schieramenti vi era incompatibilità di valori: "La qualità etica dei valori in nome dei quali le brigate partigiane (anche le Garibaldi) fecero la Resistenza risiede precisamente nella loro incompatibilità con i valori in nome dei quali le brigate nere spalleggiarono la Wehrmacht e le SS nell’opera di repressione del banditismo antifascista"(pag. 31). Compresi gli antifascisti comunisti. Scrive infatti Luzzatto: "Dobbiamo rimpiangere che operai comunisti delle città italiane si siano fatti gappisti e abbiano reso la vita impossibile agli occupanti tedeschi, mentre l’esistenza di Hitler e dei capi nazisti non è stata minacciata, fino all’entrata dell’Armata rossa a Berlino, se non da una trama putschista di alti ufficiali aristocratici?"
"Mi riesce più gradito riconoscere nella guerra partigiana la carta di identità del paese in cui sono nato e mi riesce necessario pensare all’Italia della Resistenza come al terreno dove gli Italiani devono tracciare ‘ora e sempre’ i confini non negoziabili della loro identità, la soglia del non rinunciabile da sé" (pag. 33).
l revisionismo politico, che fa di ogni erba un fascio, non vuole chiarezza di idee su questo punto e tende ad espungere dall’antifascismo il contributo decisivo dei comunisti. Scrive ancora Luzzatto: "Le nuove generazioni rischiano di non imparare il contributo decisivo dei comunisti italiani alla nascita dell’Italia nuova... e i bambini come i miei non sentiranno più pronunciare, sui banchi di scuola, i nomi venerandi di chi spese il meglio della propria esistenza per liberare l’Italia dalla dittatura e fondare la Repubblica: comunisti senza macchia e senza paura che si chiamavano Giorgio Amendola o Umberto Terracini, Camilla Ravera o Giancarlo Paietta" (pag. 37). E ancora: "La vittoria del comunista delle Garibaldi ha significato un’Italia libera, la vittoria del fascista di Salò avrebbe significato un’Italia schiava" (pag. 40).
Verso la fine del suo bellissimo libro Luzzatto si chiede: "L’Italia del terzo millennio può rinunciare a quanto appreso in conseguenza di un lontano Ventennio? Per quel che vale , la mia risposta è no. Inoculato a carissimo prezzo, il vaccino antifascismo riesce tuttora indispensabile alla salute del nostro corpo politico" (pag. 88 MEZZI FINI Gli strumenti di cui l’uomo dispone hanno la tendenza a trasformare la propria natura. Da mezzi tendono a diventare scopi. Oggi questo fenomeno ha raggiunto la sua forma più radicale. L’insieme degli strumenti delle società avanzate diventa lo scopo fondamentale di tali società. Nel senso che esse mirano soprattutto ad accrescere la potenza dei propri strumenti… L’Apparato ha trasformato la propria natura, e da mezzo, strumento, è diventato scopo. Da mezzo, per la realizzazione degli scopi ideologici, l’incremento indefinito della potenza dell’Apparato è diventato lo scopo supremo delle ideologie, lo scopo cioè al quale viene subodinata la realizzazione degli scopi ideologici.
[Emanuele Severino - La tendenza fondamentale del nostro tempo] MITI Che cos'è il mito? Non una raccolta di storie, e neppure un'esperienza religiosa, bensì un puro e semplice "incontro" (basta ricordare i colloqui di Odisseo con Athena per capirlo). Scrive Calasso ne La letteratura e gli dèi:
...gli dèi sono ospiti fuggevoli della letteratura. La attraversano, con la scia dei loro nomi. Ma presto anche la disertano. Ogni volta che lo scrittore accenna una parola, deve riconquistarli. La mercurialità, che preannuncia gli dei, è anche il segno della loro evanescenza. Non sempre così era stato. Almeno, finché sussisteva una liturgia...
Ecco la linea di discrimine: la liturgia, l'interrotto contatto "diretto", la "mediazione". Odisseo parla con Athena "faccia a faccia", senza turbamento, profeticamente. Non ha bisogno di alcuna "ritualità", tranne quella, implicita, dell'accettazione del suo status di "ri-conoscente".
Ho sempre visto Athena come una dea cruciale nel complesso rapporto uomo-mito (Bachofen la fa assurgere addirittura a figura-chiave, nelle sue fasi più ancestrali, per l'acquisizione del lógos da parte dell'uomo; quasi una sorta di "Prometeo" al femminile. Mentre Gottfried Benn pensa bene di metterle in mano lo strumento dell' artistik, nel tentativo di trasformare Odisseo nell'artefice del suo piano che, seppur eterodiretto, ha - forse per la prima volta - uno sguardo che va oltre la pura e semplice idea dell'ordalìa finale. E' l'unione tutta "palladiana" tra technè e metis).
In molti hanno parlato, e tanto a lungo, del complesso rapporto di Odisseo con le donne (o con le dee) con le quali si è imbattuto nel corso del suo lunghissimo nóstos: Calipso, Nausicaa, Circe, Penelope (così mutata nel corso dei vent'anni di separazione); nessuno - forse - ha posto l'attenzione su quanto fosse saldo ed esclusivo il rapporto con Athena. Solo il vecchio Nestore pare accorgersene quando dice a Telemaco, da lui giunto implorante a cercare suo padre:
Se Athena dall'occhio azzurro tanto volesse amarti, così come proteggeva il glorioso Odisseo nella terra dei Teucri, dove tante pene soffrimmo noi Achei - e mai ho visto dèi amare così apertamente, così come Pallade Athena gli stava vicino - se tanto amarti volesse e prenderti a cuore, allora qualcuno arriverebbe persino a scordare le nozze... [Od. III, 218-224]
Eppure il rapporto con la dèa sembra non varcare mai i limiti del lecito; da nessuna delle due parti si intravede un gesto, una parola, una situazione che possa far intuire una "relazione" più diretta. Questo perché il rapporto Athena-Odisseo, non è mai stato un rapporto "paritario". Odisseo è sempre stato (e ha accettato sempre di essere) uno "strumento" nelle mani di Athena (basti pensare alle continue trasformazioni somatiche alle quali essa "magicamente" lo sottopone, e delle quali l'eroe mai si lamenta). Athena infatti, attraverso Odisseo, vuole ripristinare uno statu quo ante la guerra di Troia, un conflitto a cui Odisseo era ostile e contro cui ha fatto il possibile per non partecipare (e non perdonò mai a Palamede di averlo costretto a partire suo malgrado). Ecco dunque il "matrocinio" del viaggio à rebours verso Itaca; ecco l'accorato appello davanti al consesso divino; ecco il rivendicare davanti a Zeus il suo ruolo di "generata dal padre", fino a far vincere a quest'ultimo ogni ritrosia davanti al fatto di esautorare il fratello Poseidone del "diritto" alla vendetta su colui che aveva accecato Polifemo. Athena vuole, fortissimamente vuole, restituire Odisseo al suo mondo. Un mondo sovvertito dal movimento tellurico della guerra, un mondo che egli dovrà riacquisire così come lo ha lasciato, intatto. Per cui dovrà lottare fino in fondo, in una sorta di palingenesi che, pur chiedendo altro sangue, sfocerà - sempre sotto i buoni uffici della "dèa dagli occhi azzurri" - nella pace finalmente raggiunta con i maggiorenti di Itaca. Solo allora la parentesi di una guerra infame sarà finalmente chiusa, anche se tutto, fuori dell'assolato e finalmente pacifico mondo di Itaca, sarà ormai ineluttabilmente cambiato. Per sempre. Tanto che Odisseo sarà di nuovo "costretto" a partire, come gli aveva predetto Tiresia. Senza che Athena - questa volta - possa far niente per proteggerlo e farlo tornare.
369. Se, frantumati i loro simulacri, / noi li scacciammo via dai loro templi, / non sono morti per ciò gli dèi. / O terra della Ionia, ancora t'amano, l'anima loro ti ricorda ancora. / Come aggiorna su te l'alba d'agosto, / nell'aria varca della loro vita un èmpito, / e un'eteria parvenza d'efebo, / indefinita, con passo celere, / varca talora sulle tue colline. [Costantino Kavafis - Ionica in " Poesie"]
370. Forse così presi dal cercare il tempo perduto non abbiamo tenuto conto di un fattore importante che riguarda proprio il Tempo. Siamo sicuri che lui voglia farsi trovare?
inserito da Clelia Mazzini @ 03:05 - permalink MODERNITA' TRADIZIONE PARZIALITA' VITTIME COLPEVOLI ... Il passato è ridotto ad unica valenza negativa. Il nuovo è il solo bene. Esiste solo io, oggi, primo e ultimo giorno del mondo e un domani preteso garantito e definito, copia dell'oggi, migliore. Tutto è giustificabile, giustificato. I carnefici riscuotono interesse e simpatia, le vittime ripugnanza. Il male è sempre nuovo, eccitante. Il bene superato noioso comunque. Molto moderno e indice di ottimi sentimenti altruistici è il ribaltamento dei ruoli. Il colpevole è vittima. La vittima a ben vedere colpevole. Vacante il senso di responsabilità e riconoscere le proprie colpe, caso mai succeda, serve a fare risaltare quelle ben più gravi degli altri. Perso il senso dell'onore. Tutto è dovuto e un desiderio formulato ed espresso equivale ad un diritto. All'idea del nuovo si è intrecciata l'idea di totalità come moderna categoria dell'umano. L'uomo totale, padrone assoluto di tutto, proteso senza limiti tende all'onnipotenza. Politica, economia, scienza anche in ordine inverso sono le tre idolatrie del moderno. Non parzialità indispensabili alla convivenza degli uomini. Non tensione ad un equilibrio tra l'irriducibile individualità e l'altrettanto irriducibile esigenza della collettività in cui ogni essere nasce, cresce, vive e muore, che niente è a sè nè l'uno nè i tanti. ... morire LUTTO "....Anzitutto per noi non c'è nulla che possa rimpiazzare l'assenza di una persona cara, ne è cosa questa che dobbiamo tentare; è un fatto che bisogna semplicemente sopportare e davanti al quale bisogna tener duro. A prima vista sembra molto difficile, mentre è anche una grande consolazione: perché, restando effettivamente aperto il vuoto, si resta anche reciprocamente legati da esso. Si sbaglia quando si dice che DIO riempie il vuoto; non lo riempie affatto anzi lo mantiene appunto aperto e ci aiuta in questo modo a conservare l'autentica comunione tra di noi, sia pure nel dolore. Inoltre quanto più belli e densi sono i ricordi, tanto più pesante è la separazione. Ma la gratitudine trasforma il momento del ricordo in una gioia silenziosa. Portiamo allora dentro di noi tutta la bellezza del passato non come una spina, ma come un dono prezioso. Bisogna guardarsi dal frugare nel passato, dal consegnarsi ad esso, così come un dono prezioso non lo si rimira continuamente, ma solo in momenti particolari,e per il resto lo si possiede come un tesoro nascosto della cui esistenza si è sicuri; allora dal passato si irradiano una gioia e una forza durature …” morire LUTTO "....Anzitutto per noi non c'è nulla che possa rimpiazzare l'assenza di una persona cara, ne è cosa questa che dobbiamo tentare; è un fatto che bisogna semplicemente sopportare e davanti al quale bisogna tener duro. A prima vista sembra molto difficile, mentre è anche una grande consolazione: perché, restando effettivamente aperto il vuoto, si resta anche reciprocamente legati da esso. Si sbaglia quando si dice che DIO riempie il vuoto; non lo riempie affatto anzi lo mantiene appunto aperto e ci aiuta in questo modo a conservare l'autentica comunione tra di noi, sia pure nel dolore. Inoltre quanto più belli e densi sono i ricordi, tanto più pesante è la separazione. Ma la gratitudine trasforma il momento del ricordo in una gioia silenziosa. Portiamo allora dentro di noi tutta la bellezza del passato non come una spina, ma come un dono prezioso. Bisogna guardarsi dal frugare nel passato, dal consegnarsi ad esso, così come un dono prezioso non lo si rimira continuamente, ma solo in momenti particolari,e per il resto lo si possiede come un tesoro nascosto della cui esistenza si è sicuri; allora dal passato si irradiano una gioia e una forza durature …” MORTE il pensiero della morte, a volte
Quando arriva, e in un piccolo giornale di provincia ne arrivano, la notizia della morte di qualcuno che magari ho conosciuto, tempo fa, mi soprendo, sempre, nel sentirmi sorpreso di fronte alla morte. (Penso anche alla donna che parla con i morti, no, non al libro, a quella che ho conosciuto: perché per lei la morte è una pausa, un riposo, tra una morte e una ri-nascita). Comunque, ho frugato negli archivi del mio blog. Trovando queste due cose.
aprile 2006
Per strada un gatto, bianco e rosso. Accanto a lui, sull’asfalto, una grande macchia, di sangue. Parrebbe adagiato, come usano fare i gatti quando dormono, ma la testa è eretta, pare staccata, non appartenere al corpo. Fissa il vuoto, maestoso. Sembra irreale, scolpito, di pietra. Aspetta. Piove, appena appena.
maggio 2006
Poco più di un anno fa in un paesino al confine di due province non importa Dove morì una giovane donna. Aveva 39 anni. Noi giornalisti usiamo scrivere “aveva solo 39 anni”. Fu uccisa da un male incurabile: nel giornalismo si usa scrivere così. Per una notizia così basta una breve, oppure niente. Dipende dal giornale, dal caporedattore, dalle altre notizie: che, se ci sono, a quella la fanno finire nel cestino. E invece si parlò molto di questa donna. Una donna particolare. Il giorno primo di morire inviò degli sms ai suoi amici. Poi contattò l’agenzia di pompe funebri. E dettò il testo del suo manifesto listato a lutto e comprensivo della sua foto. Dettò: Vi annuncio la mia morte.
Ora
La morte è un brutto pensiero. O forse no. Pensandoci, almeno qualche volta, ci si accorge che il tempo, grosso modo, può essere diviso in due categorie: quello perso, e quello no.
Remo Bassini in http://www.remobassini.it/blog/?p=1016 MORTE 'A livella
Ogn'anno,il due novembre,c'é l'usanza per i defunti andare al Cimitero. Ognuno ll'adda fà chesta crianza; ognuno adda tené chistu penziero.
Ogn'anno,puntualmente,in questo giorno, di questa triste e mesta ricorrenza, anch'io ci vado,e con dei fiori adorno il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.
St'anno m'é capitato 'navventura... dopo di aver compiuto il triste omaggio. Madonna! si ce penzo,e che paura!, ma po' facette un'anema e curaggio.
'O fatto è chisto,statemi a sentire: s'avvicinava ll'ora d'à chiusura: io,tomo tomo,stavo per uscire buttando un occhio a qualche sepoltura.
"Qui dorme in pace il nobile marchese signore di Rovigo e di Belluno ardimentoso eroe di mille imprese morto l'11 maggio del'31"
'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto... ...sotto 'na croce fatta 'e lampadine; tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto: cannele,cannelotte e sei lumine.
Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore nce stava 'n 'ata tomba piccerella, abbandunata,senza manco un fiore; pe' segno,sulamente 'na crucella.
E ncoppa 'a croce appena se liggeva: "Esposito Gennaro - netturbino": guardannola,che ppena me faceva stu muorto senza manco nu lumino!
Questa è la vita! 'ncapo a me penzavo... chi ha avuto tanto e chi nun ave niente! Stu povero maronna s'aspettava ca pur all'atu munno era pezzente?
Mentre fantasticavo stu penziero, s'era ggià fatta quase mezanotte, e i'rimanette 'nchiuso priggiuniero, muorto 'e paura...nnanze 'e cannelotte.
Tutto a 'nu tratto,che veco 'a luntano? Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia... Penzaje:stu fatto a me mme pare strano... Stongo scetato...dormo,o è fantasia?
Ate che fantasia;era 'o Marchese: c'o' tubbo,'a caramella e c'o' pastrano; chill'ato apriesso a isso un brutto arnese; tutto fetente e cu 'nascopa mmano.
E chillo certamente è don Gennaro... 'omuorto puveriello...'o scupatore. 'Int 'a stu fatto i' nun ce veco chiaro: so' muorte e se ritirano a chest'ora?
Putevano sta' 'a me quase 'nu palmo, quanno 'o Marchese se fermaje 'e botto, s'avota e tomo tomo..calmo calmo, dicette a don Gennaro:"Giovanotto!
Da Voi vorrei saper,vile carogna, con quale ardire e come avete osato di farvi seppellir,per mia vergogna, accanto a me che sono blasonato!
La casta è casta e va,si,rispettata, ma Voi perdeste il senso e la misura; la Vostra salma andava,si,inumata; ma seppellita nella spazzatura!
Ancora oltre sopportar non posso la Vostra vicinanza puzzolente, fa d'uopo,quindi,che cerchiate un fosso tra i vostri pari,tra la vostra gente"
"Signor Marchese,nun è colpa mia, i'nun v'avesse fatto chistu tuorto; mia moglie è stata a ffa' sta fesseria, i' che putevo fa' si ero muorto?
Si fosse vivo ve farrei cuntento, pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse e proprio mo,obbj'...'nd'a stu mumento mme ne trasesse dinto a n'ata fossa".
"E cosa aspetti,oh turpe malcreato, che l'ira mia raggiunga l'eccedenza? Se io non fossi stato un titolato avrei già dato piglio alla violenza!"
"Famme vedé..-piglia sta violenza... 'A verità,Marché,mme so' scucciato 'e te senti;e si perdo 'a pacienza, mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...
Ma chi te cride d'essere...nu ddio? Ccà dinto,'o vvuo capi,ca simmo eguale?... ...Muorto si'tu e muorto so' pur'io; ognuno comme a 'na'ato é tale e quale".
"Lurido porco!...Come ti permetti paragonarti a me ch'ebbi natali illustri,nobilissimi e perfetti, da fare invidia a Principi Reali?".
"Tu qua' Natale...Pasca e Ppifania!!! T''o vvuo' mettere 'ncapo...'int'a cervella che staje malato ancora e' fantasia?... 'A morte 'o ssaje ched''e?...è una livella.
'Nu rre,'nu maggistrato,'nu grand'ommo, trasenno stu canciello ha fatt'o punto c'ha perzo tutto,'a vita e pure 'o nomme: tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?
Perciò,stamme a ssenti...nun fa''o restivo, suppuorteme vicino-che te 'mporta? Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive: nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"
Tot', Antonio De Curtis musica Musica: tu ci hai insegnato a vedere con l'orecchio e a udire con il cuore. Kahlil Gibran MUSICA Ci sono solo due modi per riassumere la musica: o è buona, o è cattiva. Se è buona non te ne fai un problema, te la godi semplicemente MUSICA Ora, qualche minuto appena dopo che il piccolo pianista aveva cominciato a suonare ... tutt'a un tratto, dopo una nota alta lungamente tenuta per due battute ... egli riconobbe, segreta, frusciante e divisa, la frase aerea e olezzante che amava. Ed era così particolare, aveva un fascino così singolare e insostituibile, che per Swann fu come ritrovare in un salotto amico una persona che avesse ammirata per la strada e disperato di poter mai rivedere.
Marcel Proust, Dalla parte di Swann MUSICA La musica è un regalo e una difficoltà che ho avuto sin da quando riesco a ricordare di esistere
Nina Simone musica bach Ogni nota che suoni è legata alla successiva,ed ogni nota deve essere eseguita perfettamente o si perde l'effetto d'insieme. Una volta che capii la musica di BACH, non volli pensare ad altro, se non diventare una concertista; BACH mi ha portato a dedicare la mia vita alla musica, e fu Mrs Massinovitch che mi fece conoscere questo mondo. Avevo cominciato un viaggio che diventava più bello ed eccitante ogni giorno NINA SIMONE) MUSICA BLUES Non sempre, ma ogni tanto ci vuole un po’ di blues per vivere. Senza sarebbe ancora più difficile, perché questa musica possiede la magia di emanare una sorta di malinconica forza in grado di scuoterti dentro senza mentirti. Una forza di cui tutti sentiamo il bisogno senza preavviso. Perché il blues è così: schietto, forte, autentico, immediato… necessario.
In: http://ruckert.splinder.com/post/11460021 musica drone drone, ovvero la dilatazione parossistica della nota, del rumore e della vibrazione. MUSICA JAZZ Oggi, in sottofondo costante, le note di un superbo lavoro di Thelonius Monk (Monk Alone: The Complete Solo Studio Recordings of Thelonious Monk 1962-1968 ), pieno di quella semplicità disadorna e di quella linearità compositiva che sembrano rasentare spesso la banalità (e lo dico in senso buono, perché è ideale per accompagnare lo scorrere lento della mia vita quotidiana). Mi pare che le armonie di Monk siano pura economia della materia musicale, e che contribuiscano a quella identificazione estrema dell'autore con quell'oggetto musicale che risponde al nome di pianoforte. I surrender, dear, il mio pezzo preferito in assoluto. MUSICA KEITH JARRETT DARK INTERVALS Piccoli istanti ne' giorno ne' notte, come il disco di Keith Jarrett, quel magnifico inno panteistico che rappresenta il disco del 1988, un susseguirsi di piccoli intensi intervalli scuri, aperture improvvise di un lirismo struggente, la meraviglia di queste note che riverberano. Si sente la gioia del suono, la meraviglia di ascoltare quelle note apparire e vivere di tutta l’intensita’ che solo la creazione spontanea ed istantanea sa creare e portare a galla MUSICA Modern Jazz Quartet Fontessa Modern Jazz Quartet
{Fontessa a Milano, 1958)
(pianoforte e vibrafono)
Da Piace Vendòme a la Concorde discorrono fiori di stucchi e specchi dove in piatti d'ottone tremano coppe fragili. Fuori uno spruzzo di pioggia è di prammatica: un carillon. Qualcuno scende in fretta la scalinata - un soffio di piumino sulle guance paffute - mani brune intinti di rosolio e d'anice offrono pasticcini. (pianoforte) Sull'argine il pioppeto frulla al vento un tremolo ora verde ed ora argento - alla chiusa il canale nella bruma è (quello sfregare in cerchio delle spazzole) gorgoglio e risucchio: una gorgiera di schiuma. Filtra il brusio della gora nel silenzio che c'era. (batteria e contrabbasso) Folate di piovasco. La marea risale a tonfo a tonfo sulle sponde - batte nel rio un alone che dilata gonfi profili in concavi fiamminghi. Ombre nel chiaroscuro delle calli - balla la masquerade.
Gian Citton, Devozioni musicali per vecchi fan, Mobydick, 2008 musica rock blog Il rocker è un po' il poeta metropolitano del '900; colui che spesso ha descritto in maniera essenziale e lucida la vita nani sulle spalle dei giganti «Siamo come nani sulle spalle dei giganti, sì che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non per l’acutezza della nostra vista, ma perché sostenuti e portati in alto dalla statura dei giganti» Bernardo di Chartres, XII secolo NATURA Leopardi: la presenza del male nella natura nostalgia Nostalgia: sentimento di lontananza da un luogo o un’epoca in cui siamo stati felici. In origine è un termine medico (nostos, ritorno + algos, dolore = dolore del ritorno), coniato da Johannes Hofer nel XVII secolo per descrivere il male dei mercenari. La parola assume un significato poetico con il Romanticismo: prima in rapporto a un’epoca storica di perfezione estetica o morale (la Grecia classica, il Medioevo cristiano), poi come condizione esistenziale, rimpianto di un’età dell’oro indefinita e irraggiungibile. Nell’arte si può forse parlare di una “nostalgia dello sguardo”. È il senso di esilio caro a Henry James, per cui è possibile scrivere di un luogo soltanto da lontano, e di un’epoca dopo che è passata. È uno sguardo sensibile al tempo, allo scorrere del tempo che rende la scrittura necessaria: scriviamo storie per fermare il fiume, per superare la nostra natura mortale, per costruire luoghi in cui le persone che abbiamo amato, e noi stessi mentre le amavamo, possano vivere per sempre. Paolo cognetti NOVECENTO Il mondo di ieri di Stefan Zweig compendia gli orrori e le memorie del '900. Descrive il maestoso congedo di un'epoca, sotto i colpi di due guerre mondiali e due totalitarismi. Zweig, inconsciamente conservatore, tratteggia l'avvento di un'età pervasa di fanatismo e di giovanilismo che volta le spalle alla tradizione. Pur annunciando una catastrofe, il testo di Zweig (assieme a quelli magistrali di Roth, Lernet-Holenia e Kraus) conserva l'aura serena di un caffè viennese: è difficile pensare che dopo aver scritto quel libro e prima che fosse pubblicato, lo scrittore austriaco, assieme a sua moglie, si sia tolto la vita nel tragico inverno di 65 anni fa. Di quel tramonto Zweig fu testimone e vittima, consegnò la sua vita al mondo di ieri, rifiutando categoricamente il passaporto per quello di domani. Non aveva tutti i torti (visto ciò che accadde), non aveva tutte le ragioni (visto come andò a finire). Ma questo càpita, soprattutto quando non si hanno più speranze. E' allora che nel giardino dell'anima sbocciano solo le paure; "fiori" che portano sempre con sé - inevitabilmente - il profumo della disperazione. nuvole Se io capissi quel che vuole dire - non vederti più - credo che la mia vita qui - finirebbe.
Ma per me la terra è soltanto la zolla che calpesto e l'altra che calpesti tu: il resto è aria in cui - zattere sciolte - navighiamo a incontrarci.
Nel cielo limpido infatti sorgono a volte piccole nubi, fili di lana o piume - distanti - e chi guarda di lì a pochi istanti vede una nuvola sola che si allontana.
(Antonia Pozzi, Ricongiungimento) ONTOLOGIA INTERPRETAZIONI difficile opposizione: l'ontologia, ossia lo studio dell'essere in quanto tale e gli EFFETTI di senso determinati dalla INTERPRETAZIONE dei fatti OPINIONI Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.
Da: Divina Commedia, Inferno, Canto III, 51 OPINIONI Le persone stupide sono piene di opinioni e non ne comprendono una. Oscar Wilde organizzare Invece di maledire il buio è meglio accendere una candela organizzare Fu chiesto a Franco Basaglia: "Che cosa farebbe se il black-out capitasse improvvisamente a casa sua?" Rispose: "Accetterei il buio e organizzerei la situazione. Mi metterei cioè a fare insieme con altri un'attività giusta per il buio"
Contesto della citazione:
UN'ATTIVITÀ GIUSTA PER IL BUIO... Il caso ci offre a volte esempi inattesi e concreti a convalida delle nostre astrazioni e proprio mentre cercavo il modo di chiarire il mio pensiero fui colpita, parecchi anni fa, dall'affermazione di F. Basaglia al quale nel corso di un'intervista avevano posto la domanda: "Che cosa farebbe se il black-out (l'improvviso oscuramento totale che allora colpì New York) capitasse a casa sua?". La risposta fu: "Accetterei il buio e organizzerei la situazione. Mi metterei cioè a fare insieme con altri un'attività giusta per il buio". Questo risuona in me come una di quelle espressioni emblematiche capaci di aprire porte ad ogni livello. Una specie di Apriti Sesamo universale. Forse l'intervistato non si è reso conto di aver impartito un insegnamento eccezionalmente concreto e al tempo stesso di una portata che supera immensamente il caso specifico che l'ha provocato. Accetterei il buio... mi metterei in condizione di fare un'attività giusta per il buio.... Lascio a voi — e a me stessa! — la facoltà di sostituire "il buio" con situazioni ben diverse da quelle create da una semplice interruzione di corrente (infermità? Insuccesso?, Vecchiaia?) e di chiedersi "sarei io capace di assumere, di ricreare?".... Il che equivale a dire "sono io disposto a vivere oppure a 'essere vissuto' ?"
in: Giovannella Baggio, Adulti e gioco, Anziani Oggi n.2/3 1998, p. 77
Giovannella Baggio è Geriatra in Sassari organizzare La cosa bella degli standard è che ce ne sono tanti da scegliere organizzare LEGGE DI MURPHY Se qualcosa può andar male, lo farà. Corollari l. Niente è facile come sembra. 2. Tutto richiede più tempo di quanto si pensi. 3. Se c’è una possibilità che varie cose vadano male, quella che causa il danno maggiore sarà la prima a farlo. 4. Se si prevedono quattro possibili modi in cui qualcosa può andar male, e si prevengono, immediatamente se ne rivelerà un quinto. 5. Lasciate a se stesse, le cose tendono a andare di male in peggio. 6. Non ci si può mettere a far qualcosa senza che qualcos’altro non vada fatto prima. 7. Ogni soluzione genera nuovi problemi. 8. I cretini sono sempre più ingegnosi delle precauzioni che si prendono per impedirgli di nuocere. 9.Per quanto nascosta sia una pecca, la natura riuscirà sempre a scovarla. 10. Madre Natura è una puttana.
LA FILOSOFIA DI MURPHY Sorridi... Domani sarà peggio. POSTULATO DI BOLINGSe sei dí buon umore, non ti preoccupare. Ti passerà. SECONDA LEGGE DI CHISHOLM Quando tutto va bene, qualcosa andrà male. Corollari l. Quando non può andar peggio di così, lo farà. 2. Se le cose sembrano andar meglio, c’è qualcosa di cui non stiamo tenendo conto. TERZA LEGGE DI CHISHOLM Le proposte sono sempre capite dagli altri in maniera diversa da come le concepisce chi le fa. LEGGE DI SIMON Qualsiasi aggregato prima o poi cade a pezzi. TEOREMA DI GINSBERG 1. Non puoi víncere. 2. Non puoi pareggiare. 3. Non puoi nemmeno abbandonare. SECONDA LEGGE DI EVERITT SULLA TERMODINAMICA La confusione nella società è sempre in aumento. Solo 1’enorme sforzo di qualcuno o di qualcosa può limitare tale confusione in un’area circoscritta. Tuttavia, questo sforzo porterà a un aumento della confusione totale della società. QUATTORDICESIMO COROLLARIO DI ATWOOD Non si perde mai nessun libro prestandolo, a eccezione di quelli cui si tiene particolarmente. TERZA LEGGE DI JOHNSON Se si perde un numero di una qualsiasi rivi- sta, sar… il numero che conteneva 1'articolo che si era tanto ansiosi di leggere. Corollario Tutti gli amici 1'avranno perso, smarrito o gettato.
Se qualcosa può andar male, lo farà.
Corollari l. Niente è facile come sembra. 2. Tutto richiede più tempo di quanto si pensi. 3. Se c’è una possibilità che varie cose vadano male, quella che causa il danno maggiore sarà la prima a farlo. 4. Se si prevedono quattro possibili modi in cui qualcosa può andar male, e si prevengono, immediatamente se ne rivelerà un quinto. 5. Lasciate a se stesse, le cose tendono a andare di male in peggio. 6. Non ci si può mettere a far qualcosa senza che qualcos’altro non vada fatto prima. 7. Ogni soluzione genera nuovi problemi. 8. I cretini sono sempre più ingegnosi delle precauzioni che si prendono per impedirgli di nuocere. 9.Per quanto nascosta sia una pecca, la natura riuscirà sempre a scovarla. 10. Madre Natura è una puttana.
LA FILOSOFIA DI MURPHY
Sorridi... Domani sarà peggio.
POSTULATO DI BOLING
Se sei dí buon umore, non ti preoccupare. Ti passerà.
SECONDA LEGGE DI CHISHOLM Quando tutto va bene, qualcosa andrà male. Corollari l. Quando non può andar peggio di così, lo farà. 2. Se le cose sembrano andar meglio, c’è qualcosa di cui non stiamo tenendo conto.
TERZA LEGGE DI CHISHOLM
Le proposte sono sempre capite dagli altri in maniera diversa da come le concepisce chi le fa
LEGGE DI SIMON Qualsiasi aggregato prima o poi cade a pezzi.
TEOREMA DI GINSBERG
l. Non puoi víncere. 2. Non puoi pareggiare. 3. Non puoi nemmeno abbandonare.
SECONDA LEGGE DI EVERITT SULLA TERMODINAMICA La confusione nella società è sempre in aumento. Solo 1’enorme sforzo di qualcuno o di qualcosa può limitare tale confusione in un’area circoscritta. Tuttavia, questo sforzo porterà a un aumento della confusione totale della società. organizzare gioco scacchi Alle volte gli sembrava d'essere sul punto di scoprire un sistema coerente e armonioso che sottostava alle infinite difformità e disarmonie, ma nessun modello reggeva il confronto con quello del gioco degli scacchi. Forse, ..., bastava giocare una partita secondo le regole, e contemplare ogni successivo stato della scacchiera come una delle innumerivoli forme che il sistema delle forme mette insieme e distrugge. organizzare progetti FA PIU' RUMORE UN ALBERO CHE CADE DI UNA FORESTA CHE CRESCE organizzare progetti Il problema dell'osservatore - progettista ci appare capitale, critico, decisivo ... Deve disporre di un metodo che gli permetta di progettare la molteplicità dei punti di vista e poi di passare da un punto di vista all'altro. Deve disporre di contetti teorici che, invece di chiudere e isolare, le entità, gli permettano di circolare produttivamente ORTO Si hortum in bibliotheca habes, deerit nihil parabole talenti LA PARABOLA DEI TALENTI Come spendere bene i propri talenti e farli fruttare non solo nell’interesse personale, ma in quello della comunità in cui si opera”. È il cap. 25 del Vangelo secondo Matteo, che dice: «[14]Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. [15]A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. [16]Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. [17]Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. [18]Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. [19]Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. [20]Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. [21]Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. [22]Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. [23]Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. [24]Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; [25]per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo. [26]Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; [27]avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. [28]Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. [29]Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. [30]E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 25, 14-30). La “parabola dei talenti” fa parte delle parabole caratteristiche costruite con tre scene diverse. La prima scena è la consegna dei talenti (il “talento” non è una moneta, ma è una misura di peso, equivale più o meno a trentanove chili, quindi il valore del talento è trentanove chili di argento). Uno deve partire per un viaggio, e i beni che ha li mette nelle mani dei suoi servi: cinque, due e uno. La seconda scena è occupata solo dai servi. Il padrone non c’è, è andato lontano, e i servi devono gestire il patrimonio che hanno ricevuto; alcuni lo gestiscono con spirito imprenditoriale (diremmo noi oggi) e raddoppiano il patrimonio; uno lo gestisce con paura e lo nasconde, semplicemente lo conserva così com’è. Nella terza scena invece ritorniamo alla prima, c’è il padrone con i suoi servi; quindi il rendiconto.
Che cosa significa questa articolazione del racconto?
Significa una cosa molto semplice: la vita dell’uomo è la seconda scena, in cui ci sono come attori solo i servi; però la seconda scena non è tutto, per capirla bene bisogna tenere presente la prima scena dove c’è anche il padrone, e la terza scena dove ci sarà ancora il padrone. Dicevo, la nostra vita è la seconda scena, ma prima della nostra vita c’è qualche cosa, e dopo la nostra vita ci sarà qualche cosa d’altro.
Il senso delle parabole è: aiutare l’uomo a leggere la sua esistenza in un’ottica di fede, esaminando non solo la seconda scena, perché questo sarebbe vedere come vanno le cose nel mondo, ma riportandola alla prima scena che ne è il fondamento e alla terza che ne è la conclusione.
La spiegazione della “parabola dei talenti”
In concreto la nostra “parabola dei talenti” vuole dire: viviamo nella seconda scena con dei talenti, cioè con un patrimonio. Dentro i “talenti” metteteci dentro tutto quello che voi volete: la dotazione fisica, psichica, culturale, la dotazione di abilità lavorative… tutto quello che entra nel fare, nel saper fare o nel possedere… è il mio patrimonio, la mia dotazione. Domanda: che cosa ne faccio? Come devo usarla? Per quale fine, scopo obiettivo?
Secondo la parabola, quando ho questi talenti, ci sono due possibilità. 1. Usarli e produrli, quindi aumentare il patrimonio, in concreto raddoppiare. 2. Oppure non usare e rendere il patrimonio sterile; quel talento che è sotterrato è un patrimonio sterile, non produce niente per nessuno.
È strano, però non c’è la terza possibilità, che a me verrebbe in mente subito e credo anche a voi. Cioè la terza di colui che si impegna e gli va male: usa i cinque talenti, fa un affare sbagliato, e alla fine si ritrova senza nemmeno i cinque talenti. Ci sarebbe anche questa possibilità, invece nella parabola non è presa in considerazione. Io mi sono chiesto: perché? Se i talenti fossero semplicemente una questione di soldi, questa è una possibilità chiarissima. Ve ne intendete molto meglio di me, ma tutte le volte che uno mette in gioco un patrimonio – finanziario o con un’impresa economica, ecc. – gli può andare bene ma anche male, perlomeno un certo rischio (non so quale sia la percentuale di rischio) c’è. Bisognerebbe prenderlo in considerazione, invece non viene presa, perché?
Perché credo che il discorso dei talenti nell’ottica del Vangelo non sia prettamente economico. È vero che i talenti sono un patrimonio pecuniario (come dicevo una quarantina di chili di argento), ma l’ottica della parabola non è tanto quella, ma piuttosto fa riferimento all’esperienza dell’uomo nell’integrità della sua pienezza (cfr. Lc 17, 6).
L’importante per la parabola non è riuscire ad avere un successo verificabile, ma è trafficare i talenti bene, metterci tutto l’impegno, in modo che quello che tu hai ricevuto lo vivi per colui che te lo ha dato. Dopo, il risultato esterno conta poco, il Signore sa vedere nel cuore l’intenzione o l’atteggiamento. Questo non è un discorso da imprenditore, dove evidentemente il risultato è importantissimo, ma è un discorso di fede dove quello che conta innanzitutto è l’atteggiamento interiore del cuore (cfr. Ez 36, 26ss).
Che l’ottica sia questo è confermato anche dalla terza scena. Perché quando si fa il rendiconto i servi che hanno guadagnato con il loro impegno sono ricompensati; come?: Con una grande somma? Con un grande potere? No, ma dice: «[21]Bene, servo buono e fedele (…) sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; entra nella gioia del tuo padrone». Vuole dire: come ricompensa non è dato qualche cosa, è data una comunione di vita, una partecipazione alla gioia, alla pienezza (cfr. Mt 8, 10-11).
Perché il vero problema della parabola è: con quei cinque o due o un talento che tu hai ricevuto, hai saputo amare il padrone e quindi usare i talenti per lui rispondendo alla sua fiducia e alla sua speranza? Aveva messo speranza in te e tu hai risposto a questa fiducia, o sei rimasto indifferente? Perché per la parabola il peccato non è buttare via il talento, ma è nasconderlo, non usarlo. Il metterlo sotto terra, questo è peccato; quindi, torno a dire, non il buttarlo via, ma il non trafficarlo; perché?
Quando il terzo servo, quello che ha nascosto il talento, spiega il suo comportamento dice: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; [25]per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo»; «per paura».
“Paura” vuole dire: questo servo vede nel padrone un avversario della sua vita, un altro che può diventare ostile nei suoi confronti. Il che tradotto vuole dire: questo servo vede il talento che ha ricevuto non come un atto di fiducia in lui, ma piuttosto come un peso che gli è stato messo addosso da un padrone che lo sta sfruttando. La sua immagine è questa: “Il padrone mi dà questo talento per sfruttarlo, io lavoro e alla fine il premio, il guadagno, andrà a finire nelle sue tasche. Guai… guai… Io non mi muovo, io il talento glielo tengo, glielo restituisco, quindi non potrà lamentarsi, gli do quello che lui mi ha dato, ma guai a mettere della mia fatica… per chi? Per che cosa?”.
Al contrario vuole dire che gli altri due si sono dati da fare; perché lo hanno fatto? Evidentemente per fiducia, hanno avuto fiducia nel loro padrone, hanno riconosciuto il dono del talento o dei talenti come un dono di speranza, come qualche cosa che valorizzava la loro identità e personalità e hanno risposto con una capacità di amore e di fedeltà (cfr. Sal 17, 6-7).
In http://www.gabrielederitis.it/?p=443 parole AMARI Le parole sono pietre dicono, e allora i silenzi sono mari.
Mari amari. PAROLE LINGUAGGIO l’idea di SALVATORE VECA- contenuta in Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche (Feltrinelli 1997) - che si debba «prendere sul serio il linguaggio, che vuol dire tracciare o riconoscere i confini e l’intreccio con attività, esperienze, emozioni, scopi, interessi, finalità, transazioni e azioni intrinsecamente non linguistiche». In un mondo che scoprono «strano e complicato che non è intrinsecamente “loro”, gli uomini e le donne si impegnano ricorrentemente nell’impresa mai finita di adottare e rimaneggiare vocabolari, per descrivere e ridescrivere se stessi e il mondo, comunicare ciò ad altri avendo di mira una varietà di uditori e, congiuntamente, sulla base di una varietà di scopi, interessi, ideali, valori o bisogni che concernono trattamenti, modi di vivere le vite finite che hanno, dopo tutto, in comune da vivere. (L’idea qui è la seguente: noi siamo essenzialmente interessati alla conversione di un mondo in una realtà, durevolmente condivisa con altri, di fatti e di valori. Miriamo a condividere ciò che vi è e ciò che, per noi, vale)». PARTENZE Partenza (anime che se ne vanno)
In me il tuo ricordo è un fruscìo solo di velocipedi che vanno quietamente là dove l'altezza del meriggio discende al più fiammante vespero tra cancelli e case e sospirosi declivi di finestre riaperte sull'estate. Solo, di me, distante dura un lamento di treni, d'anime che se ne vanno.
E là leggera te ne vai sul vento, ti perdi nella sera.
Dicono le ortensie: - è partita stanotte e il buio paese s'è racchiuso dietro la lanterna che guidava i suoi passi - dicono anche: - è finita l'estate, è morta in lei, e niente ne sapranno i freddi verdi astri d'autunno -. Un cane abbaiava all'ora fonda alla pioggia all'ombra del mulino e la casa il giardino si vela di leggera umidità.
Vittorio Sereni da Frontiera Ed. di "Corrente", Milano, 1941 passato presente Non è forse l’interesse delle cose presenti che principalmente ci muove ad esaminare le passate? […] In tutto ciò che riguarda l’uomo noi siamo litiganti e non giudici, e quelle che vorremmo profferire come sentenze non sono per lo più altro che arringhe. ALESSANDRO MANZONI passato presente Il vero metodo per renderci presenti le cose è rappresentarle nel nostro spazio (e non di rappresentare noi nel loro). E’ questo il caso anche delle grandi cose del passato. Non siamo noi a trasferirci in loro, ma loro ad entrare nella nostra vita. WALTER BENJAMIN passato presente Nel corso della loro vita postuma le grandi opere si arricchiscono di nuovi significati, di nuovi sensi e, per così dire, sorpassano quelli che erano all’epoca della loro creazione. Possiamo dire che né Shakespeare, né i suoi contemporanei conoscono il “grande Shakespeare” che noi adesso conosciamo. Comprimere nell’età elisabettiana il nostro Shakespeare è assolutamente impossibile. MICHAIL BACHTIN pensare ITALIANI CULTURA POLITICA Veramente sono già due volte che (Berlusconi) vince le elezioni. Gli italiani sono così creduloni? Che vuole, ogni popolo ha il governo che si merita. pensare AZIONE POLITICA Non si può fermare l'acqua con le mani pensare bellezza "La bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla ed ogni mente percepisce una diversa bellezza."
David Hume pensare bisogni Non posso desiderare ciò che ho sotto mano e d'altra parte, in quanto vivo, desidero più di quello che ho, ed è questo il senso stesso della vita pensare bisogni Stato in cui si trova un essere riguardo a ciò che gli manca per realizzare i propri scopi pensare COMPLESSITA' Che cos'è la complessità? In prima istanza, la complessità è un tessuto (complexus: ciò che è tessuto insieme) di costituenti eterogenei inseparabilmente associati: pone il paradosso del¬l'uno e del molteplice. In seconda istanza, la complessità è effettivamente il tessuto di fatti, azioni, interazioni, retroazioni, determinazioni, alea, che costituiscono il nostro mondo fenomenico. Ma allora la complessità si presenta con i lineamen¬ti inquietanti dell'accozzaglia, dell'inestricabile, del disordine, dell'ambiguità, dell'incertezza... Di qui la necessità, per la conoscenza, di mettere ordine nei fenomeni respingendo il disordine, di allontanare l'incerto, vale a dire di selezionare gli elementi di ordine e di certezza, di depurare dall'ambiguità, di chiarire, distinguere, gerarchizzare... Ma simili operazioni, ne¬cessarie ai fini dell'intelligibilità, rischiano di rendere ciechi se eliminano gli altri caratteri del complexus; ed effettivamente ci hanno resi ciechi. Ora la complessità è tornata a noi, nelle scienze, per lo stesso cammino che l'aveva espulsa ... … è emerso che la vita non è una sostanza, bensì un fenomeno di auto-eco-organizzazione straordinariamente com¬plesso che produce autonomia. Da questo punto in poi, è eviden¬te che i fenomeni antropologico-sociali non potranno certo obbedire a principi di intelligibilità meno complessi di quelli ormai richiesti per i fenomeni naturali. Dobbiamo affrontare la complessità antropologico-sociale, e non più dissolverla od occultarla. La difficoltà del pensiero complesso consiste nel dover affron¬tare l'accozzaglia (il gioco infinito delle inter- retroazioni), la correlazione dei fenomeni tra loro, la nebbia, l'incertezza, la contraddizione. Possiamo però elaborare alcuni degli strumenti concettuali, alcuni dei principi per questa avventura distinzione/congiunzione che consenta di distinguere senza disgiungere, di associare senza identificare o ridurre. Edgar Morin, Introduzione al pensiero complesso. Gli strumenti per affrontare la sfida della complessità (1990), Sperling & Kupfer, 1993, p. 10-11
Ma la complessità non comprende solo quantità di unità e interazioni che sfidano le nostre possibilità di calcolo; compren¬de anche incertezze, indeterminazioni, fenomeni aleatori. La complessità, in un certo senso, ha sempre a che fare con il caso. La complessità quindi coincide con una quota di incertezza, vuoi relativa ai limiti del nostro intelletto, vuoi intrinseca ai fenomeni. Ma la complessità non si riduce all'incertezza, è l'incertezza all'interno di sistemi altamente organizzati. Essa riguarda dei sistemi semi-aleatori il cui ordine è inseparabile dalle alee che li caratterizzano. La complessità è dunque legata a una certa commistione di ordine e di disordine, commistione intima, a differenza dell'ordine/disordine statistico, in cui l'or¬dine (povero e statico) regna al livello delle grandi popolazioni e il disordine (povero, in quanto pura indeterminatezza) regna al livello delle unità elementari. Edgar Morin, Introduzione al pensiero complesso. Gli strumenti per affrontare la sfida della complessità (1990), Sperling & Kupfer, 1993, p. 32-33 pensare complessità E per quanto quell'uomo proponesse di fermarsi, non per restar passivi, ma per osservare attentamente il sole e le stelle e di nuovo orientarsi e solo allora seguire con decisione la via, non lo ascoltarono. E là continuano tutti a vagare ancora oggi pensare condizioni tempo Nel mio eremo in Francia c'è un cespuglio di japonica, il melo cotogno giapponese. Di solito fiorisce in primavera, ma in un inverno dal clima piuttosto tiepido i boccioli erano comparsi in anticipo. Una notte arrivò un'ondata di freddo e portò con sé il gelo. Il giorno dopo, durante la meditazione camminata, notai che tutti i boccioli del cespuglio erano morti; mi venne da pensare: «A Capodanno non avremo abbastanza fiori per decorare l'altare del Buddha». Poche settimane dopo il clima ricominciò a intiepidirsi. Camminando in giardino vidi nuovi boccioli: la japonica manifestava un'altra generazione di fiori. Chiesi loro: «Siete gli stessi fiori che sono morti per il gelo, o siete altri fiori?». I boccioli mi risposero: «Thày, non siamo gli stessi e non siamo altri. Quando le condizioni sono sufficienti ci manifestiamo, quando le condizioni non sono sufficienti torniamo a nasconderci. È così semplice! E' quello che ci ha insegnato il Buddha: quando le condizioni sono sufficienti le cose si manifestano; quando le condizioni non sono più sufficienti le cose si ritirano in attesa che arrivi il momento giusto per manifestarsi di nuovo».
In Thich Nhat Hanh, Il segreto della pace. Trasformare la paura, conoscere la libertà, Mondadori 2003, pag. 5-6 pensare democrazia Per democrazia non intendo affatto qualcosa di vago come "il governo del popolo" o "il governo della maggioranza", ma un insieme di istituzioni (e fra esse specialmente le elezioni generali, cioè il diritto del popolo di licenziare il governo) che permettano il controllo pubblico dei governanti e il loro licenziamento da parte dei governati e che consentano ai governati di ottenere riforme senza ricorrere alla violenza e anche contro la volontà dei governanti pensare democrazia storia stati uniti d'america Noi riteniamo che le seguenti verità siano [sacre e innegabili] self-evident (di per sé evidenti): che tutti gli uomini sono creati eguali e indipendenti, che da questa creazione su basi di eguaglianza derivino dei diritti intrinseci e inalienabili, fra i quali la preservazione della vita, la libertà e la ricerca della felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono istituiti fra gli uomini i governi, i quali ottengono i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qua) volta una qualsiasi forma di governo tenda a distruggere tali fini, è diritto del popolo modificarla o abolirla, e istituire un nuovo governo, che si fondi su principi e che abbia i propri poteri ordinati in modo che appaia maggiormente idoneo al raggiungimento della sicurezza e della felicità pensare dipendenze I tossicomani non sono né delinquenti che possano essere rieducati con il lavoro né malati che si possano guarire con prodotti magici. Sono esseri umani che hanno un rapporto particolare con la droga, come altri l'hanno con l'alcool, con il tabacco o con i tranquillanti. Già da un pezzo i tossici non formano più una zona marginale ben delimitata: sono tra noi, a volte sono anzi bene integrati. Ne incontriamo tutti i giorni. La tossicomania è mobile, plastica, resiste adattandosi meravigliosamente a tutte le situazioni, a tutte le repressioni, perché nasce da un bisogno, da una mancanza, da una sfida, da una ricerca febbrile di altro - tutte fonti che persistono e persisteranno sempre. Ogni società genera i tossicomani che le sono propri - dipendenti dall'eroina, dall'alcool o dai tranquillanti. Quando si da' come idolo supremo il vitello d'oro e quando la retta via assume la forma di un'autostrada a pagamento, i devianti prendono la fuga e prolifera-no nelle campagne. pensare elementi reverie Nella fiamma il tempo stesso si mette a vegliare. Sì, chi veglia davanti alla fiamma non legge più. Pensa alla vita. Pensa alla morte. La fiamma è precaria e vacillante. Questa luce basta un soffio ad annientarla, una scintilla a riaccenderla pensare esercizi filosofici “Osservare la polvere in un raggio di sole ci aiuta a vedere l’invisibile”
Un esercizio per il 2003
Durata: dai quindici ai trenta minuti Materiale: una camera, un raggio di luce Effetto: rassicurante
Una stanza alquanto buia. Imposte socchiuse. Attraverso esse un raggio di luce. Sole vivo, cocente, raggi obliqui dell'alba o del tramonto. Nella luce che attraversa l'ombra si stagliano innumerevoli scintillii. È certamente uno degli spettacoli più emozionanti e più magici che gli uomini possano contemplare. Migliaia di piccolissime schegge che trattengono e riflettono la luminosità piroettano, girano, passano e ripassano. Puntini, bastoncini, microscopiche piume, infimi fiocchi, minuscole cose aeree, leggere, danzanti attraversano la luce in modo sublime, serio e gioioso, terribilmente indaffarati, agitati da vortici e itinerari impossibili da seguire. Frammenti di traiettorie, puri lampi di vita. Ciò che colpisce di più in questo miracolo dello scintillio è la densità. Tralasciate i ricordi dell'infanzia, i giochi di un tempo, le case di campagna, l'odore degli armadi se è il caso. Non vi aggrappate a questi strabilianti granelli. Il confine tra la luce e le tenebre è improvvisamente così rigido, netto e diretto che ci sembra quasi possibile toccarlo con mano. Il brulichio delle particelle appare e scompare dall'altra parte della barriera. Ed è qui che è possibile sognare. Sono poche le esperienze semplici che danno così intensamente la sensazione di un mondo invisibile improvvisamente svelato. Nel raggio di luce appare come un pezzo di spazio diverso, inserito nel nostro, un universo dell'altra faccia, del rovescio del globo, dell'altrove, reso di colpo visibile come per effrazione. Come sarebbe il mondo se vedessimo scintillare continuamente, ovunque e sempre la polvere? Non c'è continuamente, ovunque e sempre uno strato invisibile e al tempo stesso presente? Uno strato che è possibile raggiungere, uno spazio incastrato in quello che conosciamo? E se si trattasse solo di saper socchiudere bene le imposte? pensare etica Qui sta il punto decisivo. Dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte: può esser cioè orientato secondo l' « etica della convinzione» (gesinnungsethisch) oppure secondo l'« etica della responsabilità» (verantwortungs-ethisch). Non che l'etica della convinzione coincida con la mancanza di responsabilità e l'etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Non si vuol certo dir questo. Ma v'è una differenza incolmabile tra l'agire secondo la massima dell'etica della convinzione, la quale — in termini religiosi — suona: « II cristiano opera da giusto e rimette l'esito nelle mani di Dio», e l'agire secondo la massima dell'etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni. pensare etica Chi vorrà provarsi a "confutare scientificamente" l'etica del Sermone della Montagna, o, per esempio, la massima: "non far resistenza al male", oppure l'immagine del porgere l'altra guancia? Eppure é chiaro che, dal punto di vista mondano, vi si predica un'etica della mancanza di dignità: bisogna scegliere tra la dignità religiosa, che è il fondamento di questa etica, e la dignità virile, che predica qualcosa di ben diverso: "Devi far resistenza al male, altrimenti sei anche tu responsabile se questo prevale". Dipende dal proprio atteggiamento rispetto al fine ultimo che l'uno sia il diavolo e l'altro il dio, e sta al singolo decidere quale sia per lui il dio e quale il diavolo. E così avviene per tutti gli ordinamenti della vita.[...]Ma il destino della nostra civiltà è appunto questo, di essere noi oggi divenuti nuovamente e più chiaramente consapevoli di ciò che un millennio di orientamento - che si presume o si afferma esclusivo - verso il grandioso pathos dell'etica cristiana aveva celato ai nostri occhi. pensare famiglie matrimonio Il confronto che due partner portano avanti per tutta la vita, il legame di un uomo con una donna fino alla morte, potrebbe costituire una via speciale nella ricerca della propria anima, una forma speciale d’individuazione. Uno dei tratti distintivi di questo percorso di salvezza è l’ineluttabilità: così come l’anacoreta non può sfuggire a se stesso, così nessuno dei due coniugi può sfuggire al partner. E’ questa impossibilità di fuga, in parte esaltante e in parte tormentosa, che costituisce la specificità di questo percorso.
In Adolf Guggenbuhl - Craig, Matrimonio, vivi o morti, Moretti & Vitali, 2000, p. 61 pensare FORMAZIONE CONCETTI I concetti sono la via attraverso cui la mente umana semplifica il mondo esterno pensare futuro Se Cassandra fosse stata creduta, Troia non sarebbe caduta pensare idee "Si battono per l'idea, non avendone" pensare ideologie Ritengo che l'essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. Quell'inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare il fratello, piuttosto che lasciarli vivere pensare individuo cultura etica il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me pensare io e altri l'egoismo non consiste nel vivere come ci pare ma nel pretendere che gli altri vivano come pare a noi pensare ITALIANI CULTURA CIVICA MICROMEGALOMANI … tanti altri predicatori che occupano il video, tutti gli arrabbiati e gli incazzati, quelli che si sentono sempre nel giusto e nel vero, eterodiretti e videodipendenti, perchè soffrono se non compaiono in televisione. Citerei una definizione di Carmelo Bene: "micromegalomani", personaggi cioè convinti di aver sempre grandi messaggi da indirizzare all'umanità … (da una intervista a Goffredo Fofi) pensare metodo Il metodo non può che costituirsi nella ricerca. Qui bisogna accettare di camminare senza sentiero, di tracciare il sentiero nel cammino. pensare mezzi e fini Convinzione ogni giorno più radicata che non meno delle iniziative conta il controllo che l’iniziativa sia attuata, che mezzi e fini coincidano perfettamente e che si può parlare di volere un fine solo quando si sanno predisporre con esattezza, cura, meticolosità i mezzi adeguati, sufficienti e necessari. pensare mezzi e fini Mantenere il rapporto dei mezzi col fine è sempre la preoccupazione di chi non vuole esporsi al rischio di vedere la dialettica degli interessi rovesciare i castelli di carta creati dalla dialettica dei sentimenti. pensare opinioni Soltanto chi non ha approfondito nulla può avere delle convinzioni
Cioran Emil pensare opinioni ... In quanti modi diversi noi giudichiamo le cose? Quante volte cambiamo idea? Quello che ritengo oggi e quello che credo, lo ritengo e lo credo con tutta la mia convinzione; tutti i miei strumenti e tutti i miei congegni sostengono quest'opinione e me ne danno garanzia per quanto possono. "Non potrei abbracciare alcuna verità né conservarla con maggior forza di questa. Ad essa mi son dato intero, mi son dato veramente; ma non mi è successo, non una volta, ma cento, ma mille, e tutti i giorni, di aver abbracciato qualche altra cosa con questi stessi strumenti, in questa stessa maniera, e averla poi giudicata "falsa? Bisogna almeno diventar saggi a proprie spese. Se spesso mi son trovato tradito per questa ragione, se la mia pietra di paragone si rivela di solito falsa e la mia bilancia inesatta e ingiusta, come posso esserne sicuro questa volta più delle altre? Non è una sciocchezza lasciarmi ingannare tante volte da una stessa guida? Benché la fortuna ci muova cinquecento volte di posto e non faccia che vuotare e riempire continuamente, come un vaso, la nostra credenza di opinioni sempre diverse, la presente e l'ultima è sempre quella certa .e infallibile. Per essa bisogna abbandonare i beni, l'onore, la vita e la salute e tutto... Io che mi spio più da vicino, che ho gli occhi incessantemente fissi su me stesso, come chi non ha molto da fare altrove ... a malapena oserei dire quanta vanità e debolezza trovo in me. Ho il piede così instabile e malsicuro, lo trovo così facile a crollare e così pronto a vacillare, e la mia vista così sregolata, che a digiuno mi sento tutt'altro che dopo il pasto; se la salute mi ride e la serenità di una bella giornata, eccomi amabile; se ho un callo che mi fa dolere l'al- luce, eccomi corrucciato, stizzoso e intrattabile. Una stessa andatura del cavallo mi sembra ora rude, ora dolce, e la stessa strada in questo momento più breve, un'altra volta più lunga, e una stessa forma ora più, óra meno gradevole. Ora mi va di far tutto, ora niente; quello che mi fa piacere in questo momento, talvolta mi sarà penoso. Mille impulsi disordinati e casuali si producono in me. O mi prende l'umore melanconico, o quello collerico; e ora predomina in me la tristezza con la sua privata autorità, ora l'allegria. Quando prendo in mano dei libri, se avrò scorto nel tal passo delle grazie rare e che avranno colpito la mia anima, che questo mi cada sot-t'occhio un'altra volta, ho un bel girarlo e rigirarlo, ho un bel piegarlo e maneggiarlo, è per me una massa sconosciuta e informe. Nei miei stessi scritti non sempre ritrovo il tono della mia prima idea; non so che cosa ho voluto dire, e mi nuoccio spesso cercando di correggere e di darvi un nuovo senso, perché ho perso il primo che era migliore. Non faccio che andare e venire: il mio giudizio non va sempre avanti; ondeggia, vaga qua e là ... Molte volte (come facilmente mi accade di fare), avendo cominciato per esercizio e per divertimento a sostenere un'opinione contraria alla mia, il mio spirito, applicandosi e volgendosi da quella parte, mi ci attacca così bene che non trovo più la ragione della mia prima opinione, e me ne allontano. Mi lascio quasi trascinare dove pendo, comunque sia, e mi lascio portare dal mio peso. Ognuno direbbe pressappoco lo stesso di sé, se si guardasse come faccio io... Insomma, non c'è alcuna esistenza costante, né del nostro essere né di quello degli oggetti. E noi, e il nostro giudizio, e tutte le cose mortali andiamo scorrendo e rotolando senza posa. Così non si può stabilire nulla di certo dall'uno all'altro, tanto il giudicante quanto il giudicato essendo in continuo mutamento e movimento. Non abbiamo alcuna comunicazione con l'essere, poiché ogni natura umana è sempre a metà fra il nascere e il morire, non manifestando di sé che un'oscura apparenza e un'ombra, e un'opinione incerta e debole. E se, per caso, fissate il vostro pensiero per voler afferrare il suo essere, sarà né più né meno che se voleste afferrare l'acqua: poiché quanto più esso serrerà e stringerà ciò che per sua natura cola via dappertutto, tanto più perderà ciò che voleva tenere e stringere in pugno. Così, essendo tutte le cose soggette a passare da un cambiamento all'altro, la ragione, cercandovi una reale consistenza, si trova delusa, non potendo afferrar nulla di consistente e permanente, poiché tutto o sta per essere e non è ancora del tutto, o comincia a morire prima di esser nato... pensare opinioni Le opinioni sono come i coglioni. Ognuno ha i suoi pensare organizzazioni Chi è capace di pensieri pensa anche in mezzo alle contraddizioni pensare parole "Non capisco che cosa volete intendere dicendo "gloria" ", disse Alice Humpty Dumpty sorrise con aria di superiorità: E' naturale che tu non capisca finchè non te lo spiegherò io. Volevo dire che "questo è un ottimo argomento per darti torto" " "Ma "Gloria" non significa "un ottimo argomento per darti torto" " obiettò Alice "Quando io adopero una parola - disse Humpty Dumpty con un tono piuttosto sdegnoso - " essa ha esattamente il significato che io le voglio dare. Né più né meno" pensare politica Dispotismo. Uno principe, e tutti li altri servi pensare politica Non sei solo in questo destino - bisogna dire. Cos'è fare politica, se non dire al tuo prossimo che non è solo ? pensare politica È mia convinzione che, esprimendo il problema della politica nella forma: "Chi deve governare?" o "La volontà di chi dev’essere decisiva?" Platone ha prodotto una durevole confusione nel campo della filosofia politica. […] È evidente che, una volta formulata la domanda: "Chi deve governare?", non si possono evitare risposte di questo genere: "i migliori" o "i più sapienti" o "il governante nato"… Ma una risposta siffatta, per quanto convincente possa sembrare — infatti, chi potrebbe propugnare il governo del "peggiore" o del "più grande stolto" o dello "schiavo nato"? — è, come cercherò di dimostrare, assolutamente sterile.[…] Ma ciò ci porta a un nuovo approccio al problema della politica, perché ci costringe a sostituire alla vecchia domanda Chi deve governare la nuova domanda Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno? […] pensare POLITICA Se va bene ce n'è per tutti. Se va male non ce n'è per nessuno. pensare politica il politico pensa alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni pensare politica democrazie la democrazia è "come un vecchio autobus che tutti possono prendere.per andare da qualche parte, magari senza pagare il biglietto. È poco esigente, lascia fare, si lascia maltrattare. È un regime che sopporta pazientemente violazioni, degrado, cattiverie, scortesie, volgarità. Infatti non pretende di mutare la natura umana, si adatta a convivere con principi e impulsi antidemocratici, anzi li fa prosperare. In questo senso è tollerante e non solo nel dominio delle opinioni". pensare politica estremisti Tra dieci anni sarete tutti notai pensare politica giustizia "Resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave ... contro le accuse di parzialità rivolte alla Magistratura ... contro le ricorrenti demonizzazioni di questo o quel magistrato contro chi ha tolto la scorta ai PM che indagano sul capo del Governo ... contro gli interventi di sabotaggio di certi processi ..." pensare politiche sociali L'unica certezza nella esplorazione del futuro economico è quella esplicitata da Keynes: "Sul lungo periodo siamo tutti morti" pensare politiche sociali Nessun pasto è gratis pensare politiche sociali la legge, nella sua maestosa equanimità, proibisce sia ai ricchi che ai poveri di dormire sotto i ponti pensare politiche sociali Verso dove possiamo quindi rivolgerci per trovare maggiore sicurezza in un ambiente così ostile come quello della moderna economia globale? L'inverosimile punto di partenza per una risposta è "Andando a caccia di orsi", uno dei nostri libri per bambini preferiti, nel quale una famiglia parte alla ricerca di un orso, solo per trovare una serie di ostacoli: fango profondo, un fiume freddo, una foresta buia, una terribile tempesta. Alla vista di ognuno di questi ostacoli la famiglia canta: “Non possiamo passarci sopra. Non possiamo passarci sotto. Dovremo passarci attraverso”. Questa è la sfida che la maggior parte di noi si trova a dover affrontare nella precaria economia dalla quale oggi dipende il nostro stipendio. Dobbiamo spronarci ad andare avanti, senza essere certi di cosa troveremo di fronte a noi, ma sapendo che non abbiamo alternative. pensare politiche sociali Nulla è più ingiusto che far parti uguali fra disuguali pensare politiche sociali non c'è miglior investimento per qualsiasi comunità che mettere del latte dentro i bambini pensare politiche sociali La domanda che dobbiamo porci a questo punti è. perché i servizi sono cresciuti e continuano a crescere in modo così elevato. Per rispondere dobbiamo analizzare questo settore così complesso dell'economia, esaminando i vari tipi di servizi separatamente: a) I servizi alle imprese (business services), come per esempio marketing, contabilità, progettazione, ingegneria. Questi sono nati prima all'interno delle imprese, ora vengono contrattati dalle imprese esternamente, e questo spiega la grande crescita di questo tipo di servizi (che nei paesi dell'Ocse, ad esempio, si è duplicato nel corso degli ultimi trent'anni) Rientrano in questa categoria i servizi finanziari, assicurativi e immobiliari, che offrono consulenza non solo al mondo imprenditoriale, ma anche alla società in generale. b) I servizi di distribuzione dei prodotti, sia materiali, sia immateriali come conoscenza e informazione. Essi includono i servizi di commercio e di comunicazione (occupazione prevalentemente femminile) e di trasporto (prevalentemente maschile). Questi servizi rappresentano in genere il 20% di tutta l'occupazione nei paesi dell'Ocse e della Ue. Negli Usa, invece, la percentuale è maggiore, ttestandosi intorno al 32%, conseguenza di un orientamento consumistico maggiore e di un commercio più sviluppato. e) I servizi rivolti alla persona che includono ristoranti, lavanderie, parrucchieri, servizi di pulizia e domestici. Sono, m genere, servizi che richiedono una bassa qualifica, e che fino a poco tempo fa si realizzavano prevalentemente in casa. L'integrazione della donna nel mercato del lavoro ha incrementato considerevolmente la domanda di questo tipo di servizi. Negli Usa è stato calcolato che per ogni donna che entra nel mercato del lavoro si crea una domanda che produce tre nuovi posti di lavoro proprio nell'ambito dei servizi alla persona. Perciò una delle ragioni che spinge ad accrescere l'integrazione della donna nel mercato del lavoro è data dal fatto che questa incrementa il numero di posti di lavoro. Come si dice negli Usa «Working women create job» (le donne che lavorano creano posti di lavoro). pensare popolazione Il numero dei mangianti supera quello dei mangiati pensare qualità La Qualità... Sappiamo cos'è, eppure non lo sappiamo. Questo è contraddittorio. Alcune cose sono meglio di altre, cioè hanno più Qualità. Ma quando provi a dire in che cosa consiste la Qualità astraendo dalle cose che la posseggono, paff, le parole ti sfuggono. Ma se nessuno sa cos'è, ai fini pratici non esiste per niente. Invece esiste eccome. Su cos'altro sono basati i voti, se no? Perché mai la gente pagherebbe una fortuna per certe cose, e ne getterebbe altre nella spazzatura? Ovviamente alcune sono meglio di altre... Ma in cosa consiste il « meglio »?… pensare religioni Il Corano, questo cattivo libro, fu sufficiente per fondare una religione mondiale, per soddisfare il bisogno metafisico di milioni e milioni di uomini, per definire il fondamento della loro morale - e di un notevole disprezzo della morte, ma anche per esaltarli convolgendoli in guerre sanguinose e nelle conquiste più estese. Nel Corano troviamo la forma più squallida e più povera di teismo... In quest'opera, io non sono riuscito a scoprire nemmeno un pensiero dotato di valore pensare religioni "Ma che lei, da musulmano, ignori che quel simbolo significa perdono senza rappresaglia, amore senza ricompensa, essere innalzati nella sconfitta. E che tutto questo, poi, sia stato tradito miliardi di volte dalla cristianità ... miliardi di volte. Tanto che l'ultimo papa chiede perdono. Ma che lei tutto questo lei non lo dica da musulmano, da fratello musulmano, questo darà fiato alle peggiori trombe di questo paese. A quelli che vanno alla guerra coi pifferi e sventolando bandiere. Non con il cuore che piange. E questo, mi creda, è una tragedia"
Dalla trasmissione TV 1 - "Porta a porta", 5 novembre 2001
risposta di Massimo Cacciari al presidente dell'Unione musulmani d'Italia, che aveva affermato: "A un bambino che guarda il crocefisso si può dire che rappresenta il cadavere di un uomo nudo, affisso su un pezzo di legno usato dai romani per punire i peggiori criminali dell'epoca. A prescindere dall'aspetto scioccante che può avere la croce per chi non è cristiano, non è sempre piacevole vedere un cadavere in miniatura" ... "La croce simbolo di amore !? No ! La croce è il simbolo di un suicidio e di un deicidio !" pensare scienza Tutte le scienze esatte sono dominate dall'approssimazione pensare situazioni problematiche PROBLEMI SITUAZIONE PROBLEMATICA P. 18 "La più feconda, forse, delle distinzioni sulle quali lavora l'immaginazione sociologica è quella che contrappone le "difficoltà personali d'ambiente" ed i " problemi pubblici di struttura sociale". Questa distinzione è uno strumento caratteristico di ogni opera classica di scienza sociale. Le "difficoltà" (troubles) si verificano nell'ambito del carattere dell'individuo e dei suoi rapporti immediati con il prossimo; sono connesse con il suo io e con quelle zone circoscritte di vita sociale delle quali è direttamente e personalmente conscio. La definizione e la risoluzione delle difficoltà appartengono all'individuo come entità biologica e al suo ambiente immediato, cioè al quadro sociale che si apre direttamente alla sua esperienza personale e , entro certi limiti, alla sua attività volontaria. Le difficoltà sono questioni personali, consistono nella sensazione dall'individuo che i suoi valori prediletti sono minacciati. I problemi (issue) si riferiscono invece a questioni che trascendono l'ambiente particolare dell'individuo e i confini della sua vita interiore. Si riferiscono all'organizzazione di molti ambienti individuali nelle istituzioni di una società storica come complesso, nella quale questi ambienti individuali diversi si sovrappongono e compenetrano, formando la più vasta struttura della vita sociale e storica. Un problema è questione pubblica, un gruppo di individui sente che uno dei suoi valori prediletti è minacciato.
Wright Mills, L'immaginazione sociologica pensare sport il calcio è popolare perché la stupidità è popolare pensare teoria e prassi Quellli che si innamorano di pratica senza scienza, son come il nocchiere ch'entra in un naviglio senza timoner o bussola, che mai ha certezza dove si vada. Sempre la pratica deve essere edificata sopra una buona teoria pensare VALORI Chi vive nel "mondo" non può esperire in sé nient'altro che la lotta tra una moltitudine di valori. Egli deve scegliere quale di questi dei vuole o deve servire pensiero Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita dell'uomo che lo esprime. Che cambi in esempio Albert Camus, Taccuini PIACERI "Ogni piacere ha il suo momento culminante quando sta per finire."
Lucio Anneo Seneca PITTURA "i quadri di hopper sono brevi attimi isolati di descrizione che suggeriscono il tono di ciò che li seguirà proprio mentre portano in primo piano il tono di ciò che li ha preceduti. Il tono ma non il contenuto. le implicazioni ma non i segni evidenti. sono saturi di suggestioni . più sono teatrali, simili a messe in scena, più ci spingono ad immaginare cosa succederà poi"
Mark Strand, Edward Hopper, Un poeta legge un pittore (1994), Donzelli editore, 2001, pag. 33 POESIA c'è qualcosa di miracoloso nel vedere come le parole poetiche (le cose più "gratuita", nel senso di sottratte alle regole del mercato) possano invece incontrare menti e cuori attenti. domenica scorsa riotta, nella sua interessantissima trasmissione di presentazione dei libri tracciava questi dati: 2000 premi di poesia, 5000 libri all'anno di poesia (10 % del fatturato) 43 milioni di poesie disseminate su internet. interpreto questi segnali come un indicatore di individualizzazione, ciè voglia di esprimersi da parte delle persone. e in questa individualizzazione (non individualismo: ma desiderio di soggettività) vedo il tuo malessere per la politica.
più si è individuati più è difficile trovare sintesi nelle attuali culture politiche. io sono persona più semplice di un poeta: sono un semplice vivente che si colloca in modo diverso sui vari piani della comunicazione inter-umana. un conto sono io come individuo. un conto sono io come membro di una cultura. un conto sono io come membro di una società. faccio interagire questi contesti e non pretendo che le logiche dell'uno siano le stesse di quello dell'altro POESIA La poesia è una foto della vita scattata con le parole. E' l'osservazione minuziosa della realtà, i dettagli della propria vita e di quelle altrui, filtrata, interpretata dai nostri occhi, le nostra parole, la nostra sensibilità.
Andrea di http://nonsequitur.splinder.com/ POESIA haiku Haiku poesia giapponese costituita da tre righe (sarebbe improprio dire costituita da tre versi) di 5, 7, 5 sillabe (totale 17: notevole per la numerologia); ha per oggetto la natura e contiene una parola che evoca una stagione. Comporre haiku è un'arte Zen. Come ha spiegato Roland Barthes, gli haiku danno luogo ad una "visione senza commenti", riproducono "il gesto del bambino che mostra col dito qualsiasi cosa dicendo soltanto "quello!" ... Giuseppe Ungaretti fu tra i primi a conoscere gli haiku, a Parigi; li chiamava Haikai, come fanno ancora i francesi: propriamente Haikai era una forma antica dell'haiku, con regole un po' diverse ma con lo stesso criterio di brevità. ... Ci si può ispirare al moderno haiku cercando di ridurre poesie già brevi a moduli esatti di 5, 7, 5 sillabe. Per esmpio partendo da quei versi che dicono "balaustrata brezza/per appoggiare stasera/la mia malinconia" può ottenere: "balaustrata/di brezza per la mia/malinconia" POESIA VALORE Valore
Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l'assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finche' dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si e' risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varra' piu' niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordare di che .
Considero valore sapere in una stanza dov'e' il nord, qual'e' il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l'uso del verbo amare e l'ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto. POLITICA È uno scontro che segna un'epoca, perché chiude la prima fase di un quindicennio berlusconiano di poteri contrastati ma bilanciati e ne apre un'altra, che ha l'impronta risolutiva di una resa dei conti costituzionale, per arrivare a quella che Max Weber chiama l'"istituzionalizzazione del carisma" e alla rottura degli equilibri repubblicani: con la minaccia di una sorta di plebiscito popolare per forzare il sistema esistente, disegnare una Costituzione su misura del Premier, e far nascere infine un nuovo governo, come fonte e risultato di questa concezione tecnicamente bonapartista, sia pure all'italiana.
un caso di amore e di disperazione tra genitori e figlia che cercava di sciogliersi nella legalità dopo un tormento di 17 anni, è stato trasformato ieri da Silvio Berlusconi in un conflitto istituzionale senza precedenti tra il governo e il Quirinale, con il Capo dello Stato che non ha firmato il decreto d'urgenza del governo sul caso Englaro, dopo aver inutilmente invitato il Premier a riflettere sulla sua incostituzionalità, e con Berlusconi che ha contestato le prerogative del Presidente della Repubblica, annunciando la volontà di governare a colpi di decreti legge senza il controllo del Quirinale
il governo assumerà il potere legislativo attraverso i decreti legge, della cui ammissibilità sarà l'unico giudice, con le Camere chiamate ad una ratifica automatica di maggioranza e il Capo dello Stato costretto ad una firma cieca e meccanica.
È un progetto bonapartista, con il Premier che chiede di fatto pieni poteri in nome del legame emotivo e carismatico con la propria comunità politica, si pone come rappresentante diretto della nazione e pretende la subordinazione di ogni potere all'esecutivo.
la data di ieri apre una fase nuova nella vita del Paese, una Terza Repubblica basata su una nuova geografia del potere, una nuova legittimità costituzionale, un nuovo concetto di sovranità, trasferito dal popolo al leader
La svolta bonapartista di EZIO MAURO in La Repubblica 7 febbraio 2009 POLITICA DESTRA SINISTRA la sinistra è un male che solo la presenza della destra rende sopportabile POLITICA ESTERA Solo pochi anni fa, si pensava alla globalizzazione come alla possibile forzata occidentalizzazione del mondo. Invece il mondo, sempre più, sta diventando multipolare: con le sue straordinarie opportunità di umanizzazione e con gli altrettanto enormi rischi per la stabilità finanziaria e la giustizia sociale, per l’equilibrio ambientale e per la pace.
L’ampliarsi degli orizzonti del mondo rende ancora più attuali le quattro direttrici storiche della nostra politica estera. E rende ancora più evidente e necessario il principio che è la forza di ogni Paese: la priorità assoluta sono gli interessi nazionali, non quelli di parte.
Si potrà e si dovrà, se necessario, dissentire tra maggioranza e opposizione su questa o quella scelta concreta. E’ avvenuto in passato e altrove, è possibile che continui a succedere. Ma un grande Paese, una grande democrazia come noi vogliamo essere, non è tale senza una visione condivisa della collocazione dell’Italia nel mondo e del nostro, comune interesse nazionale.
Il primo pilastro della nostra politica estera è, continua ad essere, la partecipazione attiva dell’Italia al processo di integrazione politica dell’Europa: l’Europa massima possibile, non quella minima indispensabile, l’Europa come risposta a chi crede che la globalizzazione sia ingovernabile.
Noi facciamo nostro e chiediamo alle altre forze politiche di fare altrettanto, l’appello del Presidente Napolitano, al quale rivolgiamo da qui il nostro saluto più affettuoso, per una sollecita ratifica parlamentare del trattato di Lisbona.
Nella prossima legislatura, le nostre priorità in campo europeo saranno una solida politica di sicurezza comune, una politica dell’energia coerente con la strategia dell’abbattimento delle emissioni e dello sviluppo delle fonti rinnovabili, una rappresentanza unitaria sui mercati esterni, una politica della ricerca e delle reti europee da finanziarsi anche mediante l’emissione di euro-bond.
Il secondo pilastro della nostra politica estera è il Mediterraneo, che dopo secoli di marginalità ha oggi davanti a sé la straordinaria opportunità di proporsi come l’hub politico ed economico mondiale di questo secolo. Un hub che collega Europa e Nord Africa, Caspio e area del Golfo, a sua volta porta per l’Asia. Un hub per le merci e per l’energia, per le migrazioni e il dialogo religioso.
Essere parte e perno di un forte circuito “euro-mediterraneo” è per l’Italia la condizione principale per il rilancio del Mezzogiorno, per rovesciare finalmente la prospettiva e fare del nostro Sud non più il principale problema ma la più importante risorsa sottoutilizzata del Paese.
Il terzo pilastro è il rafforzamento dell’amicizia e della collaborazione, nazionale ed europea, con gli Stati Uniti. Amicizia e collaborazione fondate ovviamente sull’autonomia, e non sulla dipendenza. Sul legame che la storia ci ha consegnato, e sui compiti che il presente ci assegna.
Concorrere alla costruzione di uno spazio comune transatlantico è fondamentale nel campo tradizionale della politica estera e di difesa. Ed è decisivo in campo economico, dove serve una cooperazione che rafforzi il governo della globalizzazione e della liberalizzazione dei mercati, e diminuisca il rischio di crescenti protezionismi.
Europa e Stati Uniti assieme rendono tutto più facile e possibile. La partnership atlantica è la base migliore per un nuovo dialogo con il mondo arabo e islamico. E’ un’opportunità per il governo delle crisi, a cominciare da quella israelo-palestinese. E’ la chiave per la piena integrazione dei Balcani occidentali nel sistema europeo, e per un approccio positivo nei confronti delle nuove potenze emergenti e dei rischi della proliferazione nucleare e del riarmo.
Il quarto pilastro di una politica estera che auspichiamo condivisa dal più ampio arco di forze parlamentari è il multilateralismo, e in particolare il sostegno alle Nazioni Unite, al loro imprescindibile ruolo, alla loro necessaria autoriforma.
Dopo il successo dell’iniziativa sulla moratoria delle esecuzioni capitali, l’Italia deve continuare a battersi per la tutela dei diritti umani e per l’affermazione e il rispetto della legalità internazionale, tramite la Corte di Giustizia e il Tribunale Penale Internazionale.
E io continuo a credere che faremmo un torto alla nostra civiltà, oltre che al futuro stesso dell’umanità, se non assumessimo in modo più stringente e vincolante la lotta alla povertà e alla fame e il raggiungimento degli altri Obiettivi di Sviluppo del Millennio. POLITICA OCCIDENTE COLPA «Viviamo tempi in cui gli uomini, spinti da spiriti mediocri o da feroci ideologie, si abituano a provare vergogna di qualsiasi cosa. Vergogna di se stessi, vergogna di essere felici, d'amare e di creare. [...] È necessario quindi sentirsi colpevoli. Eccoci trascinati al confessionale laico, il peggiore di tutti. » Albert Camus, Actuelles. Ecrits politiques, 1948 POLITICA PARTITO DEMOCRATICO ELEZIONI APRILE 2008 SCHEMA FORZE IN CAMPO non abbiamo avuto paura di rompere il vecchio schema politico.
Probabilmente chi ha guardato a noi con gli occhi di una volta avrà pensato fosse solo tattica, fossero solo parole.
Se è così, ha avuto non solo il tempo per ricredersi, ma anche per maturare il convincimento che la nostra scelta di presentarci agli italiani, da soli con le nostre idee e le nostre proposte, finalmente liberi, segna la fine di un’epoca e obbliga tutti al cambiamento.
E’ stato sufficiente aver avuto il coraggio per farlo, ed è come se una voce si fosse alzata a dire che “il re è nudo”.
Improvvisamente tutti hanno visto quel che era evidente: siamo andati avanti per quindici anni con alleanze tanto grandi quanto eterogenee, fittizie, pensate solo per battere l’avversario, anzi per distruggere il nemico. Poi, puntualmente, esecutivi che non potevano realizzare programmi e governare. E altrettanto puntualmente puniti dagli elettori la volta dopo, visto che nessun governo, in questa lunga stagione di bipolarismo abbozzato, è stato confermato per due volte di seguito.
Non lo si è voluto fare insieme? Noi abbiamo cominciato unilateralmente a cambiare la politica italiana.
E’ questo che sta facendo il Partito democratico. E’ questo che sta accadendo dopo che noi abbiamo deciso: basta mediare, basta attenuare, basta ritardare o rinunciare.
Oggi siamo finalmente liberi di dire agli italiani quello che pensiamo e vogliamo. E se guadagneremo la loro fiducia saremo finalmente liberi di governare. Liberi di imprimere al Paese la svolta riformista che serve.
La radicalità della nostra scelta ha prodotto e sta producendo effetti di autentico terremoto della vita politica italiana. E’ quanto pensavamo sarebbe successo. E’ quanto è giusto accada.
Noi abbiamo scelto di chiudere l’esperienza nazionale di coalizioni la cui eterogeneità programmatica è ogni giorno confermata dalle dichiarazioni, che rispetto, degli amici della sinistra Arcobaleno, ai quali voglio rivolgere un augurio di buona fortuna per la loro scelta di autonomia.
Noi con questa scelta abbiamo definito con chiarezza il nostro campo e il campo del governo che ci sarà. E’ il campo del centrosinistra riformista. Chi voterà per noi avrà la certezza che il riformismo, libero da condizionamenti e veti, diventerà governo del Paese.
Ma il vero terremoto è ora nel centrodestra.
Precipitati verso le elezioni con la bottiglia di champagne in mano, ora per effetto della nostra iniziativa vedono squadernate le loro divisioni e le loro lacerazioni. Impossibilitati a fare quello che avevano pensato, e cioè una coalizione di 18 partiti che dopo la nostra scelta sarebbe apparsa “marziana”, sono stati costretti da un lato a improvvisare un cartello che non si capisce se sia un partito o una lista elettorale, e dall’altro a scaricare alleati.
Ma al contrario di quanto abbiamo fatto noi, che abbiamo concluso la nostra esperienza con la sinistra radicale, Forza Italia ha ritenuto di dover concludere la sua esperienza con le forze moderate di centro, alleandosi con AN e con il movimento di estrema destra guidato dalla signora Mussolini.
Così il panorama politico italiano è cambiato. E’ obiettivamente, nessuno lo può negare, uno spostamento a destra. POLITICA PARTITO DEMOCRATICO PROGRAMMA ELEZIONI APRILE 2008 Nei prossimi giorni il Coordinamento politico discuterà e approverà un documento programmatico che tradurrà questi principi in una organica proposta al Paese.
Qui mi limiterò ad indicare dodici grandi obiettivi, dodici proposte innovative che possono cambiare l’Italia.
1. Primo: modernizzare l’Italia significa scegliere come priorità le infrastrutture e la qualità ambientale.
Partiamo da qui, da un programma straordinario che si proponga di colmare il grave ritardo che l’Italia ha accumulato.
Il Paese ha bisogno di infrastrutture e servizi che oggi sono ostacolati più da incapacità di decisione che da carenza di risorse finanziarie.
Ecco la novità del nostro ambientalismo del fare: sì al coinvolgimento, alla partecipazione, alla consultazione dei cittadini in tutte le fasi di localizzazione, progettazione e costruzione; ma basta con l'ambientalismo che cavalca ogni movimento di protesta del tipo Nimby, “non nel mio giardino”, e impedisce di fare le infrastrutture necessarie al Paese.
Noi riformeremo la normativa di valutazione ambientale delle opere, con l'eliminazione dei tre passaggi attuali e la concentrazione in un’unica procedura di autorizzazione, da concludere in tre mesi. Una volta assunta la decisione, deve essere previsto un divieto di revoca o l'applicazione di sanzioni pecuniarie elevate con responsabilità erariale a carico degli amministratori pubblici interessati.
La priorità va data agli impianti per produrre energia pulita, ai rigassificatori indispensabili per liberalizzare e diversificare l'approvvigionamento di metano, ai termovalorizzatori e agli altri impianti per il trattamento dei rifiuti, alla manutenzione ordinaria e straordinaria della rete idrica.
E poi al trasporto ferroviario. L’Alta Velocità è il più grande investimento infrastrutturale in corso nel nostro Paese: va completato e utilizzato appieno. Il completamento della TAV metterà a disposizione del trasporto regionale un aumento del 50 per cento delle tratte ferroviarie. Noi le useremo per ridurre il traffico attorno alle grandi città e per dare ai pendolari un servizio finalmente decente.
Dotare il Paese delle necessarie infrastrutture non solo non è in contraddizione con l’obiettivo di tutelare e valorizzare l’ambiente, ma ne è il presupposto. Allo stesso modo, le tecnologie per l'ambiente saranno nei prossimi vent'anni ciò che il comparto della comunicazione è stato nei venti precedenti: la forza trainante dello sviluppo e di un più vasto cambiamento economico e sociale.
Produrre il 20 per cento di energia con il sole e con il vento significa risparmiare miliardi di euro sulle importazioni di petrolio; migliorare l'efficienza energetica significa più competitività per le imprese e risparmio per le famiglie.
E la nostra proposta è un piano per realizzare in dieci anni la trasformazione delle fonti principali di riscaldamento degli edifici, privati e pubblici, in modo da creare al tempo stesso un gigantesco risparmio energetico e un grande volano di crescita economica.
Per anni abbiamo incentivato la rottamazione delle auto. Ora incentiviamo la rottamazione del petrolio.
2. Il secondo grande obiettivo di innovazione è il Mezzogiorno, è la sua crescita, che è poi la crescita dell’Italia.
Gran parte delle politiche per il Mezzogiorno è incentrata sull'utilizzo delle risorse comunitarie. L’efficacia di questa spesa è stata tuttavia spesso deludente, si è assistito alla dispersione dei fondi in una miriade di programmi e si sono così mancate importanti occasioni per utilizzare le risorse in modo da superare i rilevanti gap del Mezzogiorno nelle infrastrutture e nei servizi collettivi.
Si deve quindi procedere a una drastica e veloce revisione dei programmi, e ad un altrettanto drastico accentramento delle risorse su pochi obiettivi, quantificabili e controllabili.
La priorità è quella di portare entro il 2013 la rete delle infrastrutture, a cominciare dal sistema dei trasporti – strade, ferrovie, porti, aeroporti e autostrade del mare – su un livello quantitativo e qualitativo confrontabile con l’Europa sviluppata. E lo stesso vale per servizi essenziali come quelli idrici e ambientali.
Pensiamo alla Sicilia, alla sua collocazione strategica, al suo essere approdo quasi naturale per i traffici commerciali delle economie emergenti dell’area, che fa dell’Isola l’avamposto europeo nel Mediterraneo. Perché questo circuito virtuoso si sviluppi la Sicilia ha bisogno di una rete infrastrutturale che le consenta di diventare davvero, con le altre regioni del nostro Mezzogiorno, la naturale piattaforma logistica per gli scambi di servizi, di beni, di persone, di culture in un’area cruciale del mondo.
3. Terzo grande obiettivo di innovazione è il controllo della dinamica della spesa pubblica. E’ aumentarne la produttività e renderla finalmente quel fattore di sviluppo e di uguaglianza che oggi ancora non è.
Nei cinque anni di governo del centrodestra la spesa corrente primaria è aumentata di due punti e mezzo di PIL. Un'enormità, che spiega da sola il fallimento delle politiche economiche della Casa delle libertà.
In tutto il mondo, la destra liberista ha come slogan “meno Stato più mercato”.
Solo in Italia il centrodestra pensava di poter governare riducendo le tasse e aumentando la spesa.
Alla fine dei cinque anni del governo Berlusconi, la pressione fiscale era stata leggermente ridotta. Peccato però che la spesa corrente primaria, che il centrodestra aveva trovato nel 2000 al 37,3 per cento del PIL sia stata lasciata al 39,9 per cento nel 2005: più 2,6.
Tra minori entrate e maggiori uscite, 3 punti e mezzo di PIL da finanziare: questa è l’eredità che ha trovato il Governo Prodi.
E’ quindi vero che il miglioramento dei conti pubblici, che ha portato alla fuoriuscita dell'Italia dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo in cui era precipitata nel quinquennio 2001-2006, deriva per la parte maggiore da un aumento della pressione fiscale: peraltro, in parte consistente, frutto del successo nella lotta all'evasione fiscale.
Ma non è meno vero, che per la prima volta dopo dieci anni un Governo stava riuscendo a mettere sotto controllo la spesa corrente primaria, che è passata dal 39,9 del 2005 al 39,3 del 2007.
Proprio l’esperienza di questi due anni ci consente di dire credibilmente ai cittadini italiani che nella prossima legislatura, il banco di prova decisivo per il Governo del Partito Democratico è quello riqualificare e ridurre la spesa pubblica. Senza ridurre, anzi facendo gradualmente crescere in rapporto al PIL, la spesa sociale.
Spendere meglio, spendere meno.
Mezzo punto di PIL di spesa corrente primaria in meno nel primo anno, un punto nel secondo e un punto nel terzo: il conseguimento di questo risultato è condizione irrinunciabile per onorare l'altro impegno che assumiamo con i contribuenti italiani, famiglie e imprese: restituire loro, con riduzioni di aliquota e detrazioni, ogni Euro di gettito aggiuntivo, derivante dalla lotta all'evasione fiscale.
Procederemo con innovazioni legislative certo. Ma, soprattutto, con attività di alta amministrazione.
Un maggiore controllo della spesa pubblica è possibile, come dimostrano i dati positivi del 2007. Occorre continuare con tenacia e con rigore.
Noi risparmieremo sugli acquisti di beni e servizi, ricorrendo a grandi piattaforme di acquisto.
Aumenteremo l’efficienza del lavoro pubblico, collegando all’effettiva produttività la dinamica delle retribuzioni, oltre che valutando davvero i dirigenti sulla base del raggiungimento degli obiettivi.
E a proposito di valutazione, è tempo di dare ai cittadini la reale possibilità di giudicare i servizi ricevuti, di fornire indicazioni per il loro miglioramento e di operare per realizzarlo. Non può sempre passare tutto sulla testa delle persone. Questa è una innovazione profonda, per mettere l’Italia sullo stesso piano delle grandi democrazie moderne.
E ancora, per questo: semplificare il nostro barocco sistema amministrativo, ridurre le sovrapposizioni fra uffici, livelli istituzionali, organismi ed enti pubblici, accorpare in un’unica sede provinciale tutti gli uffici periferici dello Stato.
Anche in attesa di una riforma istituzionale più complessiva, che assesti finalmente il Titolo V della Costituzione, cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi Comuni metropolitani, ai quali andranno dati poteri reali in settori importanti come la mobilità.
Utilizzeremo in modo produttivo il grande patrimonio demaniale, con l’accordo di Stato e Comuni, in modo da abbattere contestualmente di qualche punto il debito pubblico, che potrà così scendere più rapidamente al di sotto della soglia del 100 per cento sul PIL.
Libereremo così risorse per almeno un punto di PIL all’anno, attualmente impiegate per pagare interessi sul debito: una posta di bilancio che oggi si mangia quasi la metà dell’intero gettito IRPEF.
Insomma: una politica forte e autorevole, un quadro istituzionale più sereno, un lavoro di lunga lena ma realistico, possono permetterci, nell’arco di pochi anni, di ridurre la percentuale di spesa pubblica sul PIL e, soprattutto, di migliorare la qualità della spesa.
4. Quarto obiettivo, fare quello che non è mai stato fatto e che oggi è possibile fare: ridurre davvero le tasse ai contribuenti leali, che sono tanti, lavoratori dipendenti e autonomi, e che pagano davvero troppo.
Il risanamento della finanza pubblica realizzato negli ultimi due anni, combinato con questo credibile e concreto programma di riduzione e riqualificazione della spesa e con la prosecuzione della lotta all’evasione, permette per il futuro, anche per quello immediato, di programmare una riduzione del carico fiscale.
Per sostenere il potere d’acquisto delle famiglie italiane e affrontare la questione salariale.
Per restituire alle famiglie e alle imprese i frutti della lotta all’evasione e all’elusione.
Per rendere il fisco più amico dello sviluppo delle persone e dell’economia.
Pagare meno, pagare tutti: è questo il terzo grande obiettivo programmatico del Partito Democratico.
Un obiettivo che si traduce, subito, in un incremento della detrazione IRPEF a favore dei lavoratori dipendenti. E dunque in un aumento di salari e stipendi.
La manovra è attuabile in più fasi, in progressiva crescita nel tempo, partendo dai redditi medio-bassi. E può essere usato per portare a regime l'intervento per la restituzione del fiscal-drag: ogni anno, la detrazione aumenta per neutralizzare l'effetto del drenaggio fiscale.
La detrazione può essere utilizzata anche per sperimentare forme di sostegno ai redditi più bassi, come trasferimento a favore dei lavoratori che hanno un reddito così basso da non poter usufruire delle detrazioni di cui pure avrebbero diritto.
Proprio perché abbiamo dimostrato di saper fare la lotta all’evasione fiscale, insieme al controllo della spesa, possiamo essere credibili se ci assumiamo l’impegno, a partire dal 2009, di ridurre gradualmente tutte le aliquote IRPEF: un punto in meno all'anno, per tre anni.
Subito ridurremo invece la pressione fiscale sulla quota di salario da contrattazione di secondo livello: azienda, gruppo, distretto, territorio.
Ridurre le tasse sul salario di produttività è la strada maestra per favorire la crescita e, allo stesso tempo, per redistribuire finalmente un po’ dei vantaggi da aumento della produttività anche a favore dei lavoratori.
Per pagare le tasse, le piccolissime imprese commerciali ed artigiane sopportano esorbitanti costi di regolare tenuta della contabilità. Va dunque significativamente elevato il tetto di 30 mila euro di fatturato per il pagamento a forfait delle diverse imposte e tributi, anche attraverso una differenziazione del tetto stesso per settori e comparti, da concordare con tutte le categorie interessate.
Ad esempio: più alto, fino a 50 mila Euro, per chi produce beni, un po’ più basso per chi produce servizi.
Agli artigiani, ai commercianti, alle piccole imprese in generale voglio dire che semplificheremo drasticamente l’applicazione degli studi di settore per imprese in monocommittenza e contoterzisti, fino a consentire loro la totale fuoriuscita dall'uso di questo strumento.
La revisione degli studi di settore si applicherà all’anno d’imposta in corso e non sarà mai retroattiva.
Abrogheremo la norma che prevede la possibilità di reiterare gli accertamenti.
Daremo maggiore rilevanza alla dimensione territoriale nella definizione degli indicatori utilizzati negli studi.
Potenzieremo la formazione congiunta tra Agenzia delle Entrate e Associazioni di categoria.
5. Il quinto grande obiettivo di innovazione è investire più di quanto mai sia stato fatto sul lavoro delle donne.
Il modello sociale italiano è oggi afflitto da tre gravi patologie: bassi tassi di occupazione femminile, bassa natalità e alti tassi di povertà minorile.
Si tratta di un circolo vizioso, che blocca la crescita economica, demografica e “civile” dell’Italia. Che futuro può avere il Mezzogiorno se un quarto dei suoi bambini nasce povero e vive un’infanzia deprivata? Se i suoi quindicenni hanno una preparazione scolastica più simile a quella di Thailandia e Uruguay che a quella della Francia o della Germania, e anche del Trentino e della Lombardia? Che sicurezza economica possono avere le famiglie italiane se la loro maggioranza, soprattutto fra quelle con figli, può contare su un solo percettore di reddito, quasi immancabilmente il maschio adulto?
Per questo noi vogliamo trasformare l’enorme capitale umano femminile inattivo in un “asso” da giocare nella partita dello sviluppo, della competitività, del benessere sociale.
Vogliamo rovesciare il circolo vizioso in un circolo virtuoso. Più donne occupate significa infatti più crescita, più nascite (come dimostra l’esperienza degli altri paesi europei), famiglie più sicure economicamente e più dinamiche e meno minori in povertà.
Per favorire l’occupazione femminile, noi introdurremo incentivi fiscali mirati per il lavoro delle donne, anche al fine di favorire il secondo reddito familiare, e incentivi fiscali per promuovere, sul mercato, un settore di servizi “avanzati” alle famiglie, che sia insieme un settore di occupazione per le donne e un mezzo di conciliazione.
In particolare, pensiamo ad un credito d'imposta rimborsabile per le donne che lavorano, adeguato a sostenere le spese di cura, così da essere incentivante e graduato in rapporto al numero dei figli e al livello di reddito. Tutte le donne lavoratrici, siano dipendenti, autonome o atipiche, con figli e reddito familiare al di sotto di una certa soglia che potrà crescere nel tempo, dovranno poterne beneficiare. Nei primi due anni della legislatura, il credito d’imposta potrà essere applicato alle donne lavoratrici del Sud, per poi essere esteso a tutto il territorio nazionale.
Vareremo inoltre una legge sull’eguaglianza di genere nel mercato del lavoro, come in Spagna, e stabiliremo punteggi più elevati nelle graduatorie per gli appalti alle aziende che rispettano la parità di genere.
E ai livelli più alti, vogliamo che i Consigli d’Amministrazione delle aziende pubbliche siano formati, per metà, da donne.
Per la conciliazione tra lavoro e maternità, proponiamo orari flessibili e “lunghi” negli asili, nelle scuole elementari e negli uffici pubblici che rendono i principali servizi ai cittadini; gli asili dovranno chiudere solo una settimana a Ferragosto; le scuole elementari dovranno organizzare attività estive e restare aperte anche al pomeriggio; gli orari del commercio dovranno essere liberalizzati.
Proponiamo anche un nuovo congedo di paternità interamente retribuito, dalle imprese, come nei paesi scandinavi, addizionale alla maternità/paternità già oggi prevista, e non fruibile dalle donne; congedi parentali al 100 per cento per 12 mesi, come in Francia; incentivi alla flessibilità di orario richiesta dal dipendente.
E se parliamo di dignità femminile, di libertà e responsabilità delle donne italiane, fatemi dire ancora una volta con estrema chiarezza: la legge 194 è una buona legge, è una legge contro il dramma dell’aborto, tanto che ha sottratto le donne dall’incubo della clandestinità e in trent’anni ha quasi dimezzato il numero degli aborti. Discutiamo di come applicarla integralmente, di come valorizzarne gli aspetti di prevenzione. Ma è una legge che va difesa ed è un tema che va tenuto fuori dalla campagna elettorale.
6. Il sesto obiettivo di innovazione è aumentare il numero di case in affitto.
In Italia la quota di patrimonio immobiliare in affitto è pari al 19 per cento, contro il 60 in Germania, tra il 40 e il 50 in Austria, Danimarca, Francia, Paesi Bassi e Svezia, il 30 nel Regno Unito.
La scarsa disponibilità di case in affitto blocca la mobilità, specie dei giovani e delle giovani coppie. Il terzo delle famiglie che non possiede abitazioni è esposto al rischio di aumenti dei costi degli affitti e alle difficoltà di poter acquistare una casa senza venderne un'altra.
Tra le misure che proporremo per aumentare l’offerta di case in affitto, un grande progetto di social housing realizzato da fondi immobiliari di tipo etico a controllo pubblico, con ruolo centrale della Cassa Depositi e Prestiti, che può mobilitare risorse per 50 miliardi di euro, senza intervento di spesa pubblica, per la costruzione e gestione di 700 mila unità abitative da mettere sul mercato a canoni compresi fra i 300 e i 500 euro.
E una coraggiosa riforma del regime fiscale degli affitti: tassare il reddito da affitto ad aliquota fissa, ferma restando l’opzione per la condizione di miglior favore; e consentire la detraibilità di una quota fissa dell’affitto pagato fino a 250 euro mensili.
7. Il settimo grande obiettivo programmatico del Partito Democratico è quello di invertire l’attuale trend demografico, aiutando in modo significativo le famiglie con figli, mediante l’istituzione della Dote fiscale per il figlio, proposta dalla Conferenza governativa di Firenze sulla famiglia.
La Dote sostituisce gli attuali Assegni per il nucleo familiare e le detrazioni Irpef per figli a carico, assicura trattamenti significativamente superiori a quelli attuali, si rivolge anche ai lavoratori autonomi.
La Dote parte da un valore pieno di 2.500 euro annui sul primo figlio, aumentando col numero dei figli secondo parametri di equivalenza e riducendosi regolarmente in funzione del reddito familiare, ma in modo da migliorare i trattamenti anche per i redditi medi e medio-alti.
Per le famiglie incapienti con figli, la Dote stessa fa da imposta negativa in quanto viene erogata come trasferimento.
L'asilo nido deve diventare un servizio universale, disponibile per chiunque ne abbia bisogno. Il nostro obiettivo, in collaborazione con le Regioni e gli enti locali, è quello di raddoppiare il numero dei posti entro cinque anni, in modo da assicurare il servizio ad almeno il 20 per cento dei bambini da 0 a 3 anni.
E’ anche con questi strumenti che si sostiene la famiglia, che la si aiuta a svolgere la sua importante funzione sociale.
Dobbiamo fare della nostra una società a misura di bambino, riservando all’infanzia i tempi e gli spazi di cui ha bisogno.
E difendendo i bambini dalle violenze, spesso familiari, e dalle insidie che una società predona mette in atto nei loro confronti.
Lo dico tornando per un momento all’esperienza che ho vissuto negli ultimi sette anni. Come Sindaco ho incontrato migliaia di bambini. Li ho visti felici negli asili, nelle scuole, nei parchi giochi insieme ai loro genitori. Li ho visti non perdere il sorriso e l’allegria negli ospedali. Ho incontrato, ed è questa la cosa più dura, lo sguardo dei bambini che avevano subito un trauma, una violenza, un abuso.
Io su poche cose non ho dubbi come su questa: la pedofilia è per me il più orrendo dei crimini, è equiparabile ad un delitto, perché è la vita di un piccolo innocente che si spezza. Come tale la giustizia lo deve perseguire, con la più assoluta durezza, anche nell’erogazione della pena.
8. Ottavo obiettivo, ottava sfida di innovazione: fare della Scuola, dell’Università, della Ricerca un sistema all’altezza delle sfide della società della conoscenza. Mi limito qui ad anticipare alcune proposte.
Abbiamo bisogno di “campus” scolastici e universitari. Abbiamo bisogno che per i ragazzi i luoghi di formazione non siano come una fabbrica o un ufficio, ma dei centri di vita e di formazione permanente.
Ci sono risorse non solo per riqualificare le strutture esistenti, ma per farne i luoghi più belli e accoglienti del quartiere. Scuole aperte il pomeriggio, con architetture nuove, attrezzature didattiche di qualità, strumenti tecnologici e impianti sportivi.
Cento “campus”, universitari e scolastici, dovranno essere pronti per il 2010. Delle centrali di sapere per le comunità locali. Dei luoghi di formazione e di “internazionalizzazione” per i nostri ragazzi.
Il secondo impegno riguarda la valutazione. Tutti gli studenti delle scuole italiane saranno periodicamente sottoposti a test oggettivi, che serviranno alle famiglie per valutare la qualità dell’apprendimento dei ragazzi e della scuola che frequentano.
Perché è sul talento e sul merito che la società italiana dovrà contare. Perché il talento e il merito, se uniti alla costruzione di un sistema di pari opportunità, sono il miglior propellente della crescita e della coesione sociale.
E fatemi dire, a quarant’anni dal ’68, che chi allora proponeva il “6 politico” produceva un falso egualitarismo che perpetuava le divisioni sociali e di classe esistenti.
Il terzo impegno riguarda gli insegnanti: noi investiremo sulla loro passione e la loro competenza, la vera risorsa di una scuola di qualità, avviando una vera e propria carriera professionale degli insegnanti che valorizzi, anche qui, il merito e l’impegno.
Investire sulla professionalità docente significa ad esempio prevedere per gli insegnanti periodi sabbatici di aggiornamento intensivo, così come avviene per i professori universitari.
Quanto alla ricerca, dobbiamo spingere le imprese a investire più risorse, concentrando solo sugli investimenti in ricerca e sviluppo i contributi a fondo perduto.
9. Il nostro nono grande obiettivo è in realtà una priorità assoluta: la lotta alla precarietà. E in senso più ampio la qualità del lavoro, la sua sicurezza.
Comincio da questa: si tratta di difendere e promuovere standard minimi di civiltà. Ma si tratta anche di far avanzare un’idea alta della competizione e della produttività. Dobbiamo vincere sui mercati internazionali per la qualità delle nostre produzioni, quindi per la forza del nostro lavoro, non perché ci illudiamo di poter competere sui costi, mettendo in pericolo la sicurezza e sacrificando i diritti dei lavoratori.
Ed io sono orgoglioso di potervi annunciare la prima candidatura del Partito Democratico alle prossime elezioni: è quella di Antonio Boccuzzi, operaio della Thyssen, sindacalista, unico sopravvissuto dei sette che quella notte si trovavano sulla linea cinque.
La sicurezza del lavoro, poter lavorare senza morire e senza farsi male, è un diritto fondamentale della persona umana, che non può essere comprato e venduto a nessun prezzo.
Bisogna creare un'unica Agenzia Nazionale per la sicurezza sul lavoro, come luogo di indirizzo e coordinamento per l'attività ispettiva, preventiva e repressiva, anche rafforzando il ruolo della concertazione.
Anche grazie all'attività dell'Agenzia, potrà essere realizzato un sistema di forti premi per le imprese che investono in sicurezza, agendo sul livello della contribuzione;
I lavoratori in nero sono anche i più esposti al rischio infortuni. Vanno quindi premiate le imprese che accolgono l'invito a regolarizzarsi e a rispettare i contratti.
In Italia un numero consistente di lavoratori ha retribuzioni inaccettabilmente basse; si trovano per questo in una situazione di povertà che riguarda soprattutto i lavoratori atipici, giovani, donne, e che si cumula spesso con condizioni di precarietà dell'occupazione.
Noi intendiamo contrastare con decisione questa situazione, con misure diverse e convergenti.
La più importante è la sperimentazione di un compenso minimo legale, concertato tra le parti sociali e il governo, per i collaboratori economicamente dipendenti, con l'obiettivo di raggiungere 1.000 euro mensili.
Troppi giovani sono ora “intrappolati” troppo a lungo, spesso per anni, in rapporti di lavoro precari.
Noi contrasteremo questa situazione, facendo costare di più i lavori atipici e favorendo un percorso graduale verso il lavoro stabile e garantito.
Un percorso che preveda un allungamento del periodo di prova e una incentivazione e modulazione del contratto di apprendistato come strumento principale di formazione e di ingresso dei giovani nel lavoro.
In un primo periodo, di lunghezza variabile da definire con le parti secondo le necessità di formazione, i trattamenti e le agevolazioni all’impresa restano quelle attuali; alla fine di questo periodo si procede alla verifica della qualificazione dell’apprendista, con la possibilità di continuare il rapporto, se necessario a completare la formazione, con ulteriori agevolazioni.
Dopo questo ulteriore periodo vanno previsti incentivi all’impresa che trasforma il rapporto in contratto di lavoro a tempo indeterminato.
10. Il decimo obiettivo di innovazione riguarda uno dei primi diritti, forse il primo, che ogni individuo ha: quello alla sicurezza.
Malgrado l’impegno generoso delle forze dell’ordine, i cittadini si sentono più insicuri: la qualità della vita ne viene gravemente danneggiata. E il danno è più grave per chi è più debole.
Far sentire sicuri i cittadini, aumentando la presenza di agenti per strada e anche utilizzando nuove tecnologie è uno dei principali obiettivi programmatici del Partito Democratico.
E’ questione di entità delle risorse pubbliche dedicate, ma è soprattutto questione di migliore impiego delle risorse umane e finanziarie già disponibili. Se si vogliono più agenti in divisa a presidio del territorio, di giorno e di notte, in centro e in periferia, nelle città e nelle campagne, si impongono misure radicali.
Trasferiremo ai comuni funzioni amministrative e vareremo un piano di mobilità interna alla Pubblica Amministrazione di personale civile oggi sottoutilizzato, per impiegarlo nelle attività amministrative di supporto alle attività di polizia.
Le nuove tecnologie, a cominciare dalle reti senza fili a larga banda (WI-FI, WIMAX) consentono un’infinita possibilità di controllo del territorio. Col loro impiego si possono aiutare i cittadini più esposti alla paura: le donne che escono sole di notte, gli anziani che si muovono nel quartiere, i bambini che vanno a scuola, possono essere protetti dalla rete, attivando un allarme in caso di pericolo.
Le stesse iniziative di video sorveglianza dei privati, che nascono come funghi, potrebbero avere convenienza a diventare un terminale della rete, contribuendo alla sua espansione e ottenendo in cambio preziosi vantaggi.
Stazioni e fermate del trasporto pubblico possono diventare, da luogo insicuro per definizione, l’esatto contrario: le “boe della sicurezza” nel mare metropolitano, consentendo collegamenti agili con le forze dell’ordine.
La sicurezza dipende anche dalla certezza della pena. Troppo frequenti sono i casi di condannati per reati di particolare allarme sociale che vengono ammessi a rilevanti benefici di legge senza avere mai scontato un giorno di carcere.
Il “pacchetto sicurezza” approvato dal Consiglio dei Ministri il 30 ottobre scorso aveva ampliato il numero dei reati particolarmente odiosi, fra questi la rapina, il furto in appartamento, lo scippo, l’incendio boschivo e la violenza sessuale aggravata. E in tutti questi casi prevedeva l’obbligo della custodia cautelare in carcere, il giudizio immediato, l’applicazione d’ufficio della custodia cautelare in carcere già con la sentenza di primo grado e l’immediata esecuzione della sentenza di condanna definitiva senza meccanismi di sospensioni.
Su questa linea noi proseguiremo.
11. Di innovazione ha bisogno un’altra sfera decisiva nella vita di un Paese e di ogni suo cittadino: quella della giustizia, della legalità.
Da troppi anni, in Italia, il confronto e lo scontro sulla giustizia riguardano esclusivamente i rapporti tra la politica e la magistratura.
Su questo tema il Presidente Napolitano ha pronunciato giovedì scorso, davanti al plenum del Csm, parole chiare e dal nostro punto di vista conclusive.
Vorrei tuttavia che, in materia di etica pubblica e di moralità politica, noi fossimo capaci di essere più severi con noi stessi di qualunque legge e qualunque magistrato.
Il Partito Democratico non può disporre per altri partiti. Ma per se stesso, sia attraverso il codice etico, sia attraverso norme statutarie relative ai comportamenti di suoi iscritti eletti nelle istituzioni, il partito stabilisce indicazioni rigorose in particolare sulla qualità delle nomine di cui i suoi rappresentanti dispongono.
Codici di comportamento e regole deontologiche lasciano il tempo che trovano, osserveranno gli scettici. Non è vero: i cittadini sono sensibili all’onestà in politica e, se l’onestà diventa un vantaggio competitivo, anche gli altri partiti seguiranno l’esempio del nostro.
In ogni caso, noi proporremo norme innovative per la trasparenza delle nomine di competenza della politica. Per ognuna di esse, dovranno essere predeterminati e resi pubblici criteri di scelta fondati sulle competenze; attivate procedure di sollecitazione pubblica delle candidature; infine, pubblicato lo stato e gli esiti delle procedure di selezione.
Noi proporremo anche di introdurre nel nostro ordinamento il principio della non candidabilità al Parlamento dei cittadini condannati per reati gravissimi come quelli connessi alla mafia e alla camorra, alle varie forme di criminalità organizzata, o per corruzione o concussione.
Ma la vera emergenza giustizia, quella che l’opinione pubblica avverte come tale, perché ha effetti devastanti sia sulla sicurezza dei cittadini che sullo sviluppo economico del Paese, è quella dei tempi del processo, sia penale che civile, che vedono l’Italia agli ultimi posti in Europa e nel confronto coi Paesi avanzati di tutto il mondo.
Il nostro undicesimo grande obiettivo programmatico è allora ridurre sensibilmente questi tempi, portandoli entro la legislatura a livelli europei.
Noi porteremo a compimento le riforme avviate negli scorsi anni, come la razionalizzazione e l’accelerazione del processo civile e di quello penale. Ma adotteremo anche provvedimenti amministrativi che possono essere presi immediatamente, per accrescere l’efficienza del sistema giudiziario italiano.
Penso ad esempio alla gestione manageriale degli Uffici giudiziari, anche prevedendo la figure del manager dell'Ufficio Giudiziario, un magistrato appositamente formato per l'assolvimento di questo compito. Penso alla realizzazione del processo telematico, per eliminare gli infiniti iter cartacei. O ancora alla modifica dei contratti tra avvocati e clienti, attualmente basati sulla durata del processo, verso forme basate su premi alla rapidità.
C’è poi il nodo delle intercettazioni telefoniche, informatiche e telematiche. E’ uno strumento essenziale al fine di contrastare la criminalità organizzata e assicurare alla giustizia chi compie i delitti di maggiore allarme sociale, quali la pedofilia e la corruzione. Si tratta di conciliare queste finalità con i diritti fondamentali, come quello all’informazione e quelli alla riservatezza e alla tutela della persona.
In parole semplici: ai magistrati deve essere garantita la massima libertà, ai cittadini la massima tutela.
Il divieto assoluto di pubblicazione di tutta la documentazione relativa alle intercettazioni e delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misura cautelare fino al termine dell’udienza preliminare, e delle indagini, serve a tutelare i diritti fondamentali del cittadino e le stesse indagini, che risultano spesso compromesse dalla divulgazione indebita di atti processuali.
E’ necessario individuare nel Pubblico Ministero il responsabile della custodia degli atti, ridurre drasticamente il numero dei centri di ascolto e determinare sanzioni penali e amministrative molto più severe delle attuali, per renderle tali da essere un’efficace deterrenza alla violazione di diritti costituzionalmente tutelati.
12. Dodicesimo obiettivo di innovazione, dodicesima sfida: portare la banda larga in tutta Italia e garantire a tutti gli italiani una TV di qualità.
L’effettiva possibilità di accesso alla rete a banda larga deve diventare un diritto riconosciuto a tutti i cittadini e a tutte le imprese, su tutto il territorio nazionale, esattamente come avviene per il servizio idrico o per l’energia elettrica.
Noi realizzeremo, a partire dalle grandi città, reti senza fili a banda larga per creare un ambiente disponibile alla gestione di nuovi servizi collettivi. Non c’è bisogno di grandi investimenti pubblici: sono tecnologie infinitamente meno costose delle classiche opere pubbliche. Soprattutto, sono sistemi che attivano l’iniziativa dei privati, creano nuove convenienze a cooperare, attraggono investimenti.
Sviluppare un programma nazionale per le info-città è tanto più importante per far entrare l’Italia nell'era della TV digitale con più libertà, più concorrenza, più qualità, più autonomia dalla politica.
Più libertà significa superamento del duopolio, oggi reso possibile dall'aumento di canali garantito dalla TV digitale. Per andare oltre il duopolio occorre correggere gli eccessi di concentrazione delle risorse economiche, accrescendo così il grado di pluralismo e di libertà del sistema.
La libertà di informazione è un cardine della democrazia, come ci ha insegnato un grande giornalista, che resta nel cuore di tutti gli italiani, Enzo Biagi.
Più concorrenza significa ricondurre il regime di assegnazione delle frequenze ai principi della normativa europea e della giurisprudenza della Corte costituzionale.
Più qualità: noi proponiamo di istituire un fondo, finanziato da una aliquota sui ricavi pubblicitari, che finanzi le produzioni di qualità. Dire qualità e dire Italia è la stessa cosa. Vale se pensiamo alla nostra cultura. Se pensiamo a un settore in cui non è possibile che il nostro Paese abbia pero tante posizioni: quello del turismo.
Più autonomia della televisione dalla politica significa, subito, nuove regole per il governo della RAI. La nostra idea è quella di una Fondazione titolare delle azioni, che nomina un amministratore unico del servizio pubblico responsabile della gestione.
Queste sono alcune delle nostre idee per cambiare il Paese. Questo è il cammino di innovazione che attende l’Italia. politica qualunquismo La controprova del senso di questo risultato si ebbe invece con il successo dell'Uomo qualunque, un movimento nato dal giornale omonimo diretto dal commediografo Guglielmo Giannini, e che si era distinto, ottenendo un rapidissimo successo, soprattutto per il modo in cui aveva attaccato le forze politiche ufficiali, accusate di un eccesso di impegno riformatore, critica che venne sintetizzata nello slogan famoso: "basta con la politica, viva l'amministrazione!" Alle spalle di questo movimento, che portò di colpo alla Assemblea costituente una trentina di deputati, senza nessuna struttura organizzativa, con la sola forza propagandistica del giornale, non stava certamente nessun movimento di idee, né un preciso programma, ma uno stato d'animo diffusissimo soprattutto nei ceti medi impiegatizi e nella piccola borghesia e radicato nella tradizione nazionale, e cioè un atteggiamento individualistico e particolaristico, in cui la morale albertiana trovava una sua versione adatta ai nuovi tempi. Fu un'esplosione momentanea, perché gli elettori dell'Uomo qualunque rifluirono poi nei partiti della destra, scomparendo dal panorama politico ufficiale. Ma questo successo, sia pure temporaneo, indicava chiaramente e in modo impressionante la tenace persistenza di una dimensione, non poi tanto latente, della coscienza nazionale, che fu causa in seguito di non poche conseguenze operando all'interno dei partiti che accolsero i qualunquisti. Carlo Tullio-Altan, La nostra Itralia-Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall'Unità ad oggi, Feltrinelli 1986, 131 POLITICA REGIME regime regime /re'dʒime/, non com. /'rɛdʒime/ s. m. [dal lat. regĭmen regimĭnis "governo, amministrazione", der. di regĕre "reggere"]. - 1. (polit.) a. Ordinamento politico, forma o sistema statuale o di governo: r. democratico, parlamentare, presidenziale; r. assembleare, in cui il potere risiede nelle assemblee parlamentari; r. monarchico, assoluto, autoritario, militare. b. Stato o governo autoritario, e in partic. quello fascista, o anche ordinamento che ha impostazioni e tendenze autoritarie all'occupazione di tutti i posti di potere: un governo democratico che si sta trasformando in regime. ▲ Locuz. prep.: di regime, che si uniforma alle direttive del governo: giornali di regime. 2. (estens.) a. Modo di comportarsi e di regolarsi nella vita economica e sociale: avere un alto (o un buon) r. di vita. b. Modo di comportarsi nell'alimentazione, come abitudine o norma spec. igienica o medica: seguire un buon r. alimentare; r. ipocalorico o ipercalorico, ipolipidico o iperlipidico, ecc. ● Espressioni: essere (o stare o mettersi) a regime, seguire una dieta. 3. (econ... regime /re'dʒime/, non com. /'rɛdʒime/ s. m. [dal lat. regĭmen regimĭnis "governo, amministrazione", der. di regĕre "reggere"]. - 1. (polit.) a. Ordinamento politico, forma o sistema statuale o di governo: r. democratico, parlamentare, presidenziale; r. assembleare, in cui il potere risiede nelle assemblee parlamentari; r. monarchico, assoluto, autoritario, militare. b. Stato o governo autoritario, e in partic. quello fascista, o anche ordinamento che ha impostazioni e tendenze autoritarie all'occupazione di tutti i posti di potere: un governo democratico che si sta trasformando in regime. ▲ Locuz. prep.: di regime, che si uniforma alle direttive del governo: giornali di regime. 2. (estens.) a. Modo di comportarsi e di regolarsi nella vita economica e sociale: avere un alto (o un buon) r. di vita. b. Modo di comportarsi nell'alimentazione, come abitudine o norma spec. igienica o medica: seguire un buon r. alimentare; r. ipocalorico o ipercalorico, ipolipidico o iperlipidico, ecc. ● Espressioni: essere (o stare o mettersi) a regime, seguire una dieta. 3. (econ., polit.) Modo in cui è regolata e disciplinata un'attività: commercio in r. di monopolio. ● Espressioni: regime valutario, il complesso di norme che disciplinano, in uno stato, le operazioni valutarie con l'estero. 4. a. Andamento di un fenomeno in un determinato periodo di tempo e in determinate condizioni: r. permanente, uniforme, stazionario, continuo e r. variabile, transitorio; r. delle precipitazioni. b. Riferito a un corso d'acqua, andamento della portata: r. di piena, di magra di un fiume. c. Fase di funzionamento di una macchina: il massimo r. di giri di un motore. ▲ Locuz. prep. (anche con uso fig.): a pieno regime, alla massima velocità costante consentita e, fig., incessantemente, senza posa: un motore che funziona a pieno r.; lavorare a pieno r.; a regime, a velocità costante nel tempo e, fig., in condizioni di pieno funzionamento: la riforma andrà a r. l'anno prossimo.
Enciclopedia Treccani POLITICA SINISTRA "estremismo massimalista" POLITICA TASSAZIONE la tassazione è una componente del CONTRATTO SOCIALE che si stipula fra i CITTADINI e lo STATO POLITICA UTOPISMO IDEOLOGICO TOTALITARISMO Dio ci scampi dagli utopisti, uomini pieni di zelo e sicuri del cammino verso l’ordine sociale e perfetto. Eccoli di nuovo, totalitaristi sotto altre spoglie, innocui e isolati adesso, ma in costante crescita e pieni di rabbia e smaniosi di un ennesimo bagno di sangue
IAN MCEWAN, SABATO, EUNAUDU, 2005 problermi Mai fasciarsi la testa prima di cadere e anche se cadi non disperare: le possibilità di "rialzarsi" aumentano di giorno in giorno. JazzFan Prometeo Epimeteo Tutti conoscono la storia di Prometeo, colui che prima pensa e poi agisce, pochi conoscono la storia di suo fratello Epimeteo, colui che prima agisce e poi pensa. Eppure i loro destini sono inscindibili.
«Vi fu un’epoca in cui gli Dei esistevano, ma gli esseri mortali non esistevano ancora. Quando arrivò il tempo destinato alla loro nascita, gli Dei li formarono sotto la terra, con terra, fuoco e tutto ciò che si mescola con questi elementi. Volendo portarli poi alla luce, gli Dei ordinarono a Prometeo e ad Epimeteo di ornare quegli esseri e di distribuire tra di loro le capacità secondo quanto a ciascuno di loro spettava. Epimeteo ottenne da Prometeo di poter procedere da solo alla distribuzione. L’imprudente distribuì tutto tra gli animali, in modo che l’uomo restò completamente indifeso e nudo. Così il provvido Prometeo non poté fare a meno di rubare il fuoco e le arti di Efesto e di Pallade Atena dal loro tempio comune, per regalarli al genere umano. Da allora l’uomo è capace di vivere, ma Prometeo - per quanto la colpa fosse di Epimeteo - fu punito per la sua azione. E fu punito, come era giusto, tramite il fratello Epimeteo. » (K.KERENYI, Gli dei e gli eroi della Grecia, Garzanti, Milano, 1982). - Figlio di Giapeto, tu che sai più di tutti gli altri, tu ti rallegravi di aver rubato il fuoco e di avermi ingannato; ma ciò sarà a danno tuo e degli uomini futuri. Essi infatti riceveranno da me, in cambio del fuoco, una maledizione di cui gioiranno, circondando d’amore ciò che costituirà la loro disgrazia. Così parlò il padre degli Dei e degli uomini e rise. Egli ordinò subito a Efesto di mescolare un po’ di terra e acqua, d’introdurvi voce umana e forza e di creare una bella e desiderabile fanciulla simile nell’aspetto alle Dee immortali. Ad Atena fu ordinato di insegnarle l’arte di tessere, lavoro femminile, all’aurea Afrodite di circonfondere la testa della fanciulla di fascino amoroso e di desideri struggenti. A Ermes Zeus ordinò di dotare la fanciulla di una spudoratezza da cagna e di fallacità. Tutti obbedirono all’ordine del sovrano. Il celebre artefice fece con la terra l’immagine di una pudica fanciulla. Pallade Atena la ornò di una cintura e di una veste. Le Cariti e Peito le misero al collo una collana d’oro. Le Ore inghirlandarono la fanciulla con fiori primaverili. Ermes le pose nel petto la menzogna, le lusinghe e l’inganno. Il messaggero degli Dei le conferì voce e chiamò la donna Pandora, poiché tutti gli Olimpici l’avevano creata come un dono, a danno degli uomini mangiatori di pane. Quando fu pronta l’insidia minacciosa, contro la quale non vi è difesa, il padre inviò il celebre e veloce messaggero da Epimeteo, con il dono. Questi non si preoccupò di ciò che Prometeo una volta gli aveva detto, cioè di non accettare alcun regalo da parte di Zeus, bensì di rimandargli tutto, affinché nessun male derivasse ai mortali. Prese il dono e solo in seguito si accorse del male. Prima il genere umano era vissuto sulla terra senza alcun male, senza fatiche e malattie che dovessero portare alla morte gli uomini. Ora invece la donna levò il coperchio del grosso vaso e lasciò che si diffondesse dappertutto il suo contenuto, a triste scapito degli uomini. Soltanto Elpis, la Speranza, rimase dentro il carcere indistruttibile, sotto l’orlo del vaso, e non volò fuori. Davanti a lei la donna chiuse il coperchio, secondo la volontà di Zeus. Il resto dello sciame, innumerevole e triste, circola da allora dappertutto tra gli uomini e la terra è piena di male e pieno di male è il mare. Le malattie colpiscono gli uomini di giorno, vengono inattese di notte, fatali e mute, poiché Zeus astuto negò loro la voce. Non vi è dunque alcuna via per ingannare la perspicacia di Zeus. La storia della creazione della donna continuava raccontando come la giovane creatura, di fresco venuta al mondo, avesse levato per curiosità il coperchio di un recipiente del tipo di quei grandi vasi di terracotta in cui noi ancora oggi conserviamo l’olio e il frumento, lasciando libero lo sciame dei mali che vi erano rinchiusi. Con questi mali, e precisamente con le malattie, venne nel mondo anche la morte e così si compì la distinzione tra gli uomini e gli Dei immortali
In sintesi, Prometeo aiuta l’uomo a vivere, strappando i segreti agli Dei, Epimeteo porta all’umanità la morte abbandonandosi spensieratamente all’Eros. Prometeo è l’eroe che lotta per strappare agli Dei il controllo sul destino umano, Epimeteo è l’eroe che vuole godere i doni degli Dei a costo di ammalarsi e morire. Prometeo non teme il destino, le catene e la morte, Epimeteo si accorge che deve morire quando è ormai troppo tardi. Entrambi amano la vita ma Prometeo la abbraccia, Epimeteo ne è abbracciato. � Prometeo contempla la vita e la può «salvare», Epimeteo s’abbandona alla vita e può «perderla».� Prometeo aiuta a «vivere», Epimeteo deve essere aiutato a «morire».
Con queste parole di FRANCESCO CAMPIONE più di dieci anni fa veniva inaugurata la pubblicazione di una rivista, ZETA. RICERCHE E DOCUMENTI SULLA MORTE E SUL MORIRE, di cui abbiamo voluto riproporre per intero l’Editoriale del primo numero. Le ragioni ideali che la animavano sono ancora le nostre. Non siamo riusciti a trovare la sede della Redazione, per chiedere il permesso di riprodurre quel testo esemplare. Ma proseguiamo nella sua lettura.
Ecco perché una rivista che si propone, come quella che oggi vede la luce, di occuparsi e preoccuparsi dell’uomo che muore per mano di Eros (cioè, perché prima agisce e poi pensa, perché agisce istintivamente, perché vuole vivere pienamente la sua naturalità), deve essere intitolata a Epimeteo piuttosto che a Prometeo, diversamente da come tendono a pensare coloro che vivono al di sopra di Eros (ci si riferisce qui alla frequente mancata integrazione della dimensione erotico-biologico-pulsionale nel modo di intendere l’esistenza che si basi su principi ideali o etici).
In altre parole, questo nostro lavoro è dedicato a Epimeteo, cioè all’uomo-eroe che, abbandonandosi alla vita, proprio per ciò la consuma e continuamente «muore», all’uomo che nel tentativo di essere pienamente se stesso scopre continuamente di non esserlo mai del tutto, perché è stanco, malato, spossessato, bisognoso, bramoso del nuovo, inebetito, incosciente, drogato, incompleto, vuoto, solo, falso, ferito, umiliato, moribondo, angosciato.
http://www.gabrielederitis.it/?p=558 PSICANALISI Ci sono scrittori che "creano" i propri lettori, li stuzzicano, li provocano, li modellano. E lo fanno proponendo loro una serie di enigmi che questi saranno chiamati a risolvere nel corso del libro. Perché dico questo? Perché ho appena terminato di rileggere L'albero filosofico di Carl Gustav Jung, un'opera che mi ha restituito intatte le emozioni della prima lettura (ma, unita ad esse, ho trovato anche una nuova consapevolezza, dovuta forse alle esperienze e al tempo trascorsi da quella prima volta). Per chi vive "in sospensione" come me, all'eterna ricerca del "mistero" della vita (senza implicazioni religiose o pseudo-spiritualistiche, ma unicamente logico-filosofiche) questa è davvero un'opera fondamentale. Da associare forse alle migliori di Prigogine (penso per esempio a Tra il tempo e l'eternità) o di Monod (come Il caso e la necessità). Direi che qui c'è tutto: il valore di scienza come "ipotesi", come "metafora" di partenza sul cammino, a volte improbo, della conoscenza; il senso del "linguaggio" psicologico, che non è - e non sarà mai - avulso da quello filosofico (da cui, anzi, per certi versi dipende); la "matrice" del vivere nella "ramificazione" dell'esistere, con tutti i corollari legati al senso della vita, alla morale da dare ad essa, al "giusto mezzo" per raggiungere gli scopi che ci siamo prefissati, e potrei continuare. Insomma, un'opera imprescindibile, da non dimenticare. E dico questo a me stessa, naturalmente. PSICANALISI SIMBOLI Si trovava nella sua stanza intento a studiare, con la porta mezz'aperta che immetteva nella sala da pranzo, dove la madre, ormai vedova, stava lavorando a maglia accanto alla finestra: ed ecco che improvvisamente risuonò un forte scoppio, come un colpo d'arma da fuoco, e nel grande tavolo rotondo in legno di noce, che si trovava vicino alla madre, si aprì una fenditura, dal bordo fino a oltre il centro. Questo nonostante il tavolo fosse molto solido, in legno di noce massiccio, perfettamente stagionato da almeno settanta anni. Due settimane dopo, il giovane studente, tornando a casa una sera, trovò la madre, la sorella quattordicenne e la domestica in preda a una grande agitazione: circa un'ora prima si era verificato un altro scoppio assordante, proveniente questa volta da una pesante credenza dell'Ottocento. Le donne l'avevano subito esaminata, senza tuttavia trovarvi nessun segno particolare. Ma lì accanto, nel cassetto in cui era riposto il cestino del pane, Jung trovò il coltello usato per tagliare il pane con la lama d'acciaio in frantumi: in un angolo del cestino c'era il manico, e in ognuno degli altri un pezzette della lama. Per tutta la vita, Jung conservò frammenti di quell'avvenimento concreto. In Jung, Scritti scelti, a cura di Joseph Campbell, Red Edizioni, pag XII PSICHE DIPENDENZA L'unica scelta efficace per uscire da ogni possibile forma di dipendenza (dal mondo, dagli altri, dalla routine della vita) è quella di somigliare solo a se stessi. Altre vie praticabili non credo che esistano. Io almeno non ho trovato che questa. psyche daimon "Se prendiamo la parola Daimon nel suo senso greco, così come è utilizzata ad esempio da Socrate, i Daimon sono dei geni, che albergano in noi e nello stesso tempo fuori di noi. Il Daimon ci guida e ci insegna. Si è posseduti da un Daimon, come in quei riti nel corso dei quali un Dio si incarna in una persona e parla per bocca sua. Nel mondo contemporaneo possiamo essere posseduti dalle idee e dalla loro forza vitale: una forza vitale che è in noi e fa battere il nostro cuore e sollevare i nostri polmoni. Noi siamo posseduti da questa forza di vita, che alcuni chiamano i geni, e che non è altro che l’organizzazione biologica, sviluppata e trasmessa di generazione in generazione. Noi siamo nello stesso tempo posseduti dalla cultura che ci arriva dalla società, che ci ha insegnato un linguaggio, delle norme, delle regole. Ma nello stesso tempo possiamo dialogare con ciò che ci possiede e acquisire una certa autonomia, una certa libertà."
in http://francescomorace.nova100.ilsole24ore.com/2008/01/citazione-fm.html QUI ED ORA Prendo una sedia.
Mi piazzo al centro della stanza.
Non mi manca nulla.
E’ un momento prezioso.
Non mi manca nulla:
il vento, la luce, il sole roteano come ricordi
sul cielo della stanza.
Non vorrei un’altra vita,
non mi interessa essere al posto di nessun altro.
Mi è andata bene in questo mondo,
sarei potuta nascere con la testa di Berlusconi o di La Russa.
Mi è andata bene in questo mondo,
ho percepito fin da subito
che il fischio del treno può portarti lontano,
che gli spaventapasseri insegnano il silenzio,
che la mancanza è una risorsa
e le Pleiadi lucciole notturne che hanno una forma, ma non un confine.
Mi è andata bene in questo mondo,
a 5 anni ho incontrato il primo uomo
che mi ha insegnato a cercare la Poesia.
Su un quaderno nero, tra le mani callose,
nel cammino lento, enigmatico
e complesso di una tartaruga.
Sono al centro di una stanza,
le cose accolgono la Notte.
Ed io sono felice. relazioni Ci si può sputare addosso senza aprire la bocca.
da Stanisław Jerzy Lec, Pensieri spettinati RELAZIONI SCONFINAMENTO
Ora che posso invadere la tua parte del letto scopro il piccolo spazio qui tra il comodino e la parete, di cui non sapevo – lì hai fatto
un’istallazione simile a un kit di sopravvivenza biro occhiali limette romanzi riviste tubetti di blandi medicamenti e pomate una scatola decorata con dentro niente.
Sollevo quel niente e lo fisso. Mai il niente mi è sembrato tanto splendido. Impaurito di lasciarci uno sbaffo e rovinarlo l’ho subito rimesso dentro e chiuso il coperchio.
Jamie Mckendrick RELAZIONI "Tutto ciò che degli altri ci irrita può portarci alla comprensione di noi stessi."
Carl Gustav Jung RELAZIONI DISTURBANTI Si puliva i denti come se non sapesse fare altro. Lasciava il suo stecchino al lato del piatto per riprendere a stuzzicarseli appena finito di masticare. Ore ed ore, dall'alto in basso, da destra a sinistra, da sinistra a destra, da avanti a dietro, da dietro ad avanti. Sollevando il labbro superiore, come un coniglio, mostrando - uno dopo l'altro - gli incisivi giallastri; abbassando il labbro inferiore fino alla gengiva corrosa; finché gli sanguinò, solo un poco. Gli trasformai lo stuzzicadenti in baionetta, conficcandoglielo fino alle nocche.
Max Aub, Delitti esemplari, Sellerio editore, 1981, p. 14-15 RELIGIONI The Passion sembra stare alle trasposizioni cinematografiche di ogni fede, come i sermoni in cassetta o via internet degli integralisti stanno a ciascuna comunità religiosa. Segnando il definitivo affermarsi dell'era della globalizzazione fondamentalista. Del resto, durante i mesi di lavorazione del film negli stabilimenti di Cinecittà, Gibson ha voluto che ogni giorno fosse celebrata una messa per chi era impegnato sul set. Non una messa qualunque, ma secondo il rito tridentino, dal Concilio di Trento, detta anche messa di San Pio V, officiata da due sacerdoti francesi: Jean Charles- Roux, della congregazione dei rosminiani e Michel Debourges dell'Istituto di Cristo Re di Gricigliano, Firenze, vicino alle posizioni della Fraternità San Pio X, il raggruppamento tradizionalista fondato da Monsignor Lefebvre. E quale sia la "cifra" del sentimento religioso nel quale l'attore e regista è stato allevato, è piuttosto evidente. Suo padre, Hutton Gibson, è stato a lungo legato ai tradizionalisti cattolici, ma, come ha spiegato uno dei portavoce della Fraternità, l'abate Alain Lorans, ha scelto negli ultimi anni di separarsi da loro giudicandoli «troppo liberali e troppo moderni». Hutton Gibson si è quindi avvicinato ai cosiddetti "sedevacantisti", quella frangia del cattolicesimo ultrà che non riconosce i Papi post-conciliari. Con i proventi derivanti dai suoi successi cinematografici, Mel Gibson ha costruito a proprie spese a Malibu, in California, una chiesa per questi fedeli davvero particolari. Ma Hutton Gibson, 85 anni, sembra avere idee molto chiare anche su altri argomenti. A pochi giorni dall'uscita di The Passion negli Stati Uniti, volendo rispondere a suo modo all'accusa di antisemitismo mossa al film da diverse organizzazioni e personalità della comunità ebraica, ha pensato bene di spiegare come per lui «l'Olocausto è un'invenzione».
Ma che The Passion rappresenti qualcosa di più del frutto avvelenato di una cultura di estrema destra, è altrettanto evidente. Come ha spiegato su Le Monde Henri Tincq, «il film di Gibson rivela la frontiera che separa i due versanti attuali del cristianesimo. Da un lato, una fede cristiana che si appoggia sulla ragione, una fede intellettualizzata da secoli di scolastica, dall'approccio critico dei testi ammesso dalla tradizione luterana come dal Concilio Vaticano II. Dall'altro, un cristianesimo fondato sull'emozione, sul realismo magicoreligioso, sul fondamentalismo "evangelico" e su una pietà morbosa». «È questa seconda corrente – conclude lo specialista di religioni del quotidiano parigino – che ha oggi il vento in poppa – negli Stati Uniti come nelle megalopoli povere del Terzo mondo – e che, attraverso il successo del film di Gibson, mostra la sua capacità di espansione». RELIGIONI buddismo Disciplina spirituale fondata da Buddha, vissuto nell'India nord-orient. fra 6° e 5° sec. a.C. Nei secoli successivi il b. assunse i caratteri di dottrina filosofica e di religione ateistica, diffondendosi in gran parte del subcontinente e in vaste zone dell'Asia orientale. Il b. appare come ricerca speculativa intesa a trovare la soluzione del problema dell'eterno morire e rinascere dell'uomo, nel ciclo delle esistenze, posto dal pensiero indiano. Il b. detto del piccolo veicolo (Hīnayāna), a carattere essenzialmente monastico e più vicino alla dottrina dei primi tempi, è tuttora popolare a Ceylon e nel Sud-Est asiatico. Il b. del grande veicolo (Mahāyāna), che dà una grande importanza alla compassione e al culto dei bodhisattva, è il più diffuso.
http://www.treccani.it/Portale/elements/categoriesItems.jsp?pathFile=/BancaDati/Enciclopedia_Universale_3_Volumi /VOL01/ENCICLOPEDIA_UNIVERSALE_3_VOLUMI_VOL1_008304.xml RELIGIONI CULTURE ISLAM Bernard Lewis, arabista di Princeton che tanta parte ha avuto in questa concezione dell’islam scelta da Bush, pensa che “un nuovo movimento nell’islam è emerso grazie a una combinazione politica ed economica. È un pericolo che ricorda il nazismo. La Germania aveva dato un grande contributo alla civiltà e il nazismo fu una mostruosità tedesca. Oggi vediamo una simile perversione nell’islam. È una minaccia per tutto il mondo”. Sebbene il contributo attivo dell’occidente sia in qualche modo limitato (“i veri cambiamenti possono essere raggiunti soltanto dai musulmani”), il grande studioso avverte: “Abbiamo soltanto una scelta: liberiamoli o ci distruggeranno”. RELIGIONI DIO Di lui dopo Auschwitz
Due cose a volte
immagino di lui
che esista
e dorma
fuori dal tempo
mentre noi
lo invochiamo
da dentro
Alberto Vigevani RELIGIONI DISINCANTO MAX WEBER Comunque finiscano poi le elezioni, l’affermazione dei due leader ha fin d’ora un grande significato psicologico rispetto ad alcuni luoghi comuni molto diffusi nelle interpretazioni circolanti sul nostro tempo. Un secolo fa, il 900 sembrò inaugurare l’era del «disincanto» (come lo chiamò il sociologo Max Weber), quella della fine delle credenze religiose (già annunciata nella teoria della «morte di Dio» di Friedrich Nietzsche) e del rinchiudersi dell’uomo nell’universo delle cose, dei corpi e del denaro. Insomma in un’ottica materialista. Come si vede, non è andata così: un secolo dopo, nel più grande e potente Paese occidentale, i candidati alla presidenza si confrontano proprio su chi di loro sia più affidabile come inviato «in missione per conto di Dio», come dicevano di sé i popolarissimi Blues Brothers. Ciò d’altra parte si accompagna ad una rinnovata passione per i temi dell’appartenenza religiosa in tutto il mondo, un modo di sentire che ha già fortemente contribuito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, negli anni 90
http://claudiorise.blogsome.com/2008/01/07/p346/ RELIGIONI LAICITA' Quando gli uomini parlano senza capirsi e credono di dire una cosa usando una parola che ne indica una opposta, nascono equivoci, talora drammatici sino alla violenza. Nel penoso autogol in cui si è risolta la gazzarra contro l’invito del Papa all’università di Roma l’elemento più pacchiano è stato, per l’ennesima volta, l’uso scorretto, distorto e capovolto del termine «laico», che può giustificare un ennesimo […] tentativo di chiarirne il significato.
Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l’opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.
La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l’attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura — anche cattolica — se è tale è sempre laica, cosi come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo.
Una visione religiosa può muovere l’animo a creare una società più giusta, ma il laico sa che essa non può certo tradursi immediatamente in articoli di legge, come vogliono gli aberranti fondamentalisti di ogni specie. Laico è chi conosce il rapporto ma soprattutto la differenza tra il quinto comandamento, che ingiunge di non ammazzare, e l’articolo del codice penale che punisce l’omicidio. Laico — lo diceva Norberto Bobbio, forse il più grande dei laici italiani — è chi si appassiona ai propri «valori caldi» (amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico) ma difende i «valori freddi» (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi. Un altro grande laico è stato Arturo Carlo Jemolo, maestro di diritto e libertà, cattolico fervente e religiosissimo, difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa e duro avversario dell’inaccettabile finanziamento pubblico alla scuola privata — cattolica, ebraica, islamica o domani magari razzista, se alcuni genitori pretenderanno di educare i loro figli in tale credo delirante.
Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l’autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall’idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.
[Articolo apparso sul Corriere della Sera del 20 gennaio 2008.] RELIGIONI NASCITA ... trovarono Maria e Giuseppe e il bambino giacente nella mangiatoia.
È tutto. Questo presepio di dieci parole è dell'evangelista Luca che nemmeno lui lo vide, come non lo vide il suo maestro Paolo di Tarso: soltanto quei pastori notturni polverizzati nel nulla. Tre nomi, un arnese. Facciamolo anche noi così piccolo e vero il presepio. Leggiamo e rileggiamo queste dieci parole — come ci si curva su un diamante fino ad appannarlo col fiato. Sono tutto il nostro Natale: le ha scritte un medico di Antiochia, senza che la sua penna tremasse per la tentazione di dire di più.
in Luigi Santucci, Volete andarvene anche voi?, Mondadori, 1969, p. 33 RESILIENZA Resilienza
tracceUn articolo di Aldo Romano sulla Stampa di oggi recupera un grande concetto e principio orientatore del lavoro di servizio:
resilienza
Perfino la pubblicità di un noto materasso ne parla:
“Uno strato superiore di esclusivo materiale sensibile alla temperatura viene laminato su una base in poliuretano ad alta resilienza di 8 cm. Il sistema di flusso d’aria fra lo strato e la base in espanso permette un’ulteriore resilienza in profondità e ventilazione in tutto il materasso.”
E, anche se non la chiamerebbe mai così, Pippo Delbono ha "fatto resilienza" ai suoi problemi. Con il teatro. Perchè ci sono molte vie di resilienza. Come racconta in "Racconti di giugno: incontro con se stesso". Lui da solo sul palco. A raccontarsi con totale e perfino estrema sincerità.
pippodelbono
Cosa significa Resilienza?
Quando una parola è poco conosciuta conviene partire dal vocabolario.
- Capacitá di un materiale di resistere a urti improvvisi senza spezzarsi (Lo Zingarelli, Zanichelli, Milano, 1995):
- capacità di un materiale di resistere a deformazioni o rotture dinamiche, rappresentata dal rapporto tra il lavoro occorrente per rompere un’asta di tale materiale e la sezione dell’asta stessa: indice, valore di resilienza
- capacità di un filato o di un tessuto di riprendere la forma originale dopo una deformazione (Da Dizionario De Mauro)
Se consideriamo questo concetto in rapporto alle scienze sociali, possiamo dire che
“la resilienza corrisponderebbe alla capacitá umana di affrontare le avversitá della vita, superarle e uscirne rinforzato o, addirittura, trasformato” (Grotberg, 1996).
Da questo punto di vista la parola viene associata sempre con tensione, stress, ansietá, situazioni traumatiche che ci colpiscono durante la nostra vita.
Si tratta di qualcosa che corrisponde alla natura umana, ma che non sempre si riesce a mettere in atto e, anche se a volte si attiva, non sempre si arriva a generare situazioni positive.
Questa misteriosa possibilitá ha una base innegabile, e cioé, l´evidenza che gli elementi costitutivi della resilienza sono presenti in ogni essere umano e la loro evoluzione accompagna le diverse fasi dello sviluppo o del ciclo vitale dell´uomo: è un comportamento intuitivo durante la infanzia, poi si rinforza fino ad essere attivo nella adolescenza, e dopo ancora sará completamente incorporato alla condotta propria dell´etá adulta.
Ma ci vuole educazione per farlo (una sfaccettatura della educazione dei sentimenti? care Astime e Maf?). Occorre ancoraggio a valori solidi. Anche se hanno 2000 anni. Decisione nel volere ottenere questo risultato educativo. Padri “morbidi” ed impauriti e madri decisioniste come delle dirigenti di azienda difficilmente ci riescono. E lo si vede.
La resilienza é piú della semplice capacitá di resistere alla distruzione proteggendo il proprio io da circostanze difficili
E’ anche la possibilitá di reagire positivamente a scapito delle difficoltá e la voglia di costruire utilizzando la forza interiore propria degli essere umani.
Non é solo sopravvivere a tutti i costi, ma é anche avere la capacitá di usare l´esperienza nata da situazioni difficili per costruire il futuro.
Si dice, si racconta, si narra che ci sono alcune caratteristiche tipiche della resilienza:
• “insight” o introspezione: la capacitá di esaminare sé stessi, farsi le domande difficili e rispondersi con sinceritá
• Indipendenza: la capacitá di mantenersi a una certa distanza, fisica e emozionale, dei problemi, ma senza isolarsi
• Interazione: la capacitá per stabilire rapporti intimi e soddisfacenti con altre persone
• Iniziativa: la capacitá di affrontare i problemi, capirli e riuscire a controllarli
• Creativitá: la capacitá per creare ordine, bellezza e obbiettivi partendo dal caos e dal disordine
• Allegria: disposizione dello spirito all´allegria, ci permette di allontanarci dal punto focale della tensione, relativizzare e positivizzare gli avvenimenti che ci colpiscono
Anche la Teoria Sistemica (“se cambia un soggetto della relazione cambiano anche le relazioni fra i soggetti della relazione”) arriva alla conclusione che la resilienza sarebbe di grande aiuto durante il processo di terapia alla famiglia, poichè è:
“la capacitá che ha un sistema per resistere i cambiamenti provocati dall´esterno, per sovrapporsi e superare queste crisi, approfittando il cambiamento qualitativo e mantenendo la coesione strutturale attraverso il processo di sviluppo” (Hernandez Córdoba, 1997).
Durante una crisi la famiglia trasforma la sua struttura, coesiste per resistere la tempesta: non sa quanto puó durare quella energia. Deve trovare fattori interni ed esterni che possano aiutarla per diventare meno vulnerabile e impedire che la crisi aumenti di proporzione, in principio, e dopo superarla in modo che possa affrontare una ristrutturazione del sistema, che possa uscirne rinforzata e possa trasformarla in un elemento utile al cambiamento e alla crescita positiva.
La resilienza é un fattore che puó essere accresciuto durante l’infanzia, nelle diverse tappe dello sviluppo, per mezzo dello stimolo delle aree affettive, cognitiva e del comportamento, sempre d’accordo con l´etá e il livello di comprensione delle diverse situazioni di vita. Il periodo che va dalla nascita fino alla adolescenza sarebbe quello piú opportuno per svegliare e sviluppare questa qualitá interiore che permette di affrontare le avversitá.
Riassumendo si può dire che la resilienza é
la capacitá umana adatta ad affrontare gli avvenimenti dolorosi e a risorgere dalle situazioni traumatiche.
Principio storicamente dimostrato nei momenti di stragi mondiali e di genocidi provocati dall´uomo.
Ci sono poi possibilitá di sviluppo della resilienza che si ottengono agendo sulle risorse personali e sociali, in stato di latenza, in ogni individuo ed anche in ogni comunità .
Tra queste possiamo nominare: l´autostima positiva, i legami affettivi significativi, la creativitá naturale, il buon umore, una rete sociale e di appartenenza, una ideologia personale che consenta di dare un senso al dolore, in modo da diminuire l’aspetto negativo di una situazione carica di conflitti, permettendo il risorgere di alternative di soluzione davanti alla sofferenza.
La resilienza puó venire incontro al lavoro sociale e psicologico a livello di: prevenzione, riabilitazione, collaborazione in educazione, assistenza alle famiglie e ai diversi gruppi sociali, perché non attinge la sua forza soltanto dalle condizioni naturali degli individui, ma ha bisogno di un aiuto esterno e di un ambiente che faciliti e appoggi uno sviluppo personale che conduca verso un apprendimento.
L´obiettivo di questa noterella é di ricordare innanzitutto a me stesso (ottimo metodo quello di riflettere su di sé, prima di proiettare sugli altri da sé) che la pratica della resilienza è abbastanza consolante.
Non risolutiva, ma consolante.
Ogni persona possiede questa caratteristica, ma da ciascuno di noi dipende che possa essere sviluppata, se ci concediamo la possibilitá di farlo, magari scegliendoci con cura, attenzione, accudimento ed amore le persone con cui camminare.
Lo spirito di resilienza è un principio informatore ed “educatore” che può anche essere usato anche nei post e nei commenti dei blog, dove il pensiero associativo che qui si sviluppa talvolta genera tensioni, eccessi informativi, rabbia compulsiva, aggressività, depressione, proiezioni.
Riprendendo l’aurea scaletta sopra riportata:
- esaminare sé stesso, farsi le domande difficili e rispondersi con sinceritá. Tanto siamo in situazioni di “relazioni gratuite”
- mantenere a una certa distanza dai problemi, tuttavia senza isolarsi. Qui abbiamo già accettato di comunicare ed esporci. Occorre farlo con cautela. Adottando il metodo del “buon padre di famiglia” (così, per essere in sintonia con la doppia manifestazione di sabato scorso)
- Interagire, stabilire anche rapporti intimi con le persone. Purchè siano soddisfacenti, ossia tendenzialmente benefici per la psiche. Il tempo stringe. Nessuno ci obbliga a stare qui. Perché farci del male? Ci pensano già i musulmani ((nella variante culturale “perdenti radicali”) dal 2001 a farci del male: almeno qui possiamo dire “no, grazie”
- Affrontare qualche problema, provarsi a capirlo, anche con l’aiuto delle “sfaccettature” (vero Prisma?), provare a controllarlo. Cioè vederli, questi problemi. Come lo psichiatra Hannibal Lecter quando, nel romanzo Il silenzio degli innocenti, dice a Clarice Sterling: “Rifletti … cosa osserva lui ? ….. cosa sta facendo? … hai tutti i dati in mano … cosa fa? …. Lui d e s i d e r a ….”
- Essere creativi. Qui non controlla nessuno. Sì certo, si può essere assaliti da commenti lividi e cattivi. Può anche capitare che qualcuno ti aizzi addosso i suoi amici di blog (mi è capitato e non me ne sono dimenticato ed ho provveduto a difendermi). Però, con qualche cautela, puoi far lasciare andare i pensieri. Si può provare a dare ordine, partendo dal caos e dal disordine
- Dare spazio al folletto “Spirito allegro”. Buffoneggiare, anche (vero Surferella?). Una disposizione all’allegria, permette di allontanarci dalle tensioni, di relativizzare e di vedere positivo. “Penso positivo perché son vivo”, ma senza l’infinita tristezza culturale dei newagisti che ruminano l’ideologia del pensiero positivo. E che diventano così tetri e tristi
Il tema della resilienza deve molto allo psicologo rumeno Boris Cyrulnik (figlio di deportati ad Auschwitz che riuscì a fuggire dal treno diretto ai campi di concentramento):
“Due sono le parole chiave che caratterizzeranno il modo di osservare e di comprendere il mistero di chi ha superato un trauma e, una volta adulto, riguarda le cicatrici del passato. Le due strane parole che preparano il nostro sguardo sono «resilienza» e «ossimoro». Il termine «resilienza» è stato coniato in fìsica per descrivere l'attitudine di un corpo a resistere a un urto. Ma tale definizione attribuiva eccessiva importanza alla sostanza.
Il termine è stato mutuato dalle scienze sociali per indicare «la capacità di riuscire, di vivere e svilupparsi positivamente, in maniera socialmente accettabile, nonostante lo stress o un evento traumatico che generalmente comportano il grave rischio di un esito negativo» (Vanistendael S., Cles pour devenir: la resilience, 1998). Come diventare umani nonostante gli scherzi del destino? Questi interrogativi pieni di ammirazione sono emersi quando si è deciso di esplorare il continente dimenticato dell'infanzia. Il dolce Remi, in Senza famiglia, poneva il problema con parole molto chiare:
«Sono un trovatello. Ho creduto di avere una mamma, come tutti gli altri bambini...»
Due volumi dopo, una volta conosciuta l'infanzia di strada, lo sfruttamento del lavoro minorile, le percosse, il furto e la malattia, Remi si guadagna il diritto di condurre una vita socialmente accettabile a Londra e conclude con una canzone napoletana che canta le «dolci parole» e il «diritto di amare».
Il principio è esattamente lo stesso adottato da Charles Dickens che aveva attinto il tema della sofferenza e della vittoria dalla sua infanzia infelice e sfruttata.
«Non vedevo alcuna ragione per cui [...] la feccia del popolo non servisse [...] a fini morali, così come il suo fiore più fine [...] Essa comprende le più belle e le più brutte sfumature della nostra natura [...] i suoi aspetti più vili e parte dei più belli.». Dopo aver letto Giovinezza di Lev Tolstoi, torna sempre alla mente il verso di Aragon: «È così che vivono gli uomini?» Anche Infanzia di Maksim Gorki descrive lo stesso percorso archetipico. Atto I, la desolazione: La mia infanzia (1913-1914); atto II, la riparazione: Fra la gente (1915-1916); atto III, il trionfo: Le mie università (1923).
Tutti i romanzi popolari citati sono imperniati su un'unica idea: le nostre sofferenze non sono vane, una vittoria è sempre possibile. Un tema che viene assurto a bisogno fondamentale, a unica speranza dei disperati:
«Se sai veder distrutta l'opera della tua vita / E senza dire una sola parola rimetterti a costruire [...j / Se sai essere duro senza mai infuriarti [...] / Se sai essere coraggioso e mai imprudente [...J / Se sai ottenere la vittoria dopo la sconfitta [...] / Sarai un uomo figlio mio» (Rudyard Kipling). Pel di carota, il bambino maltrattato, riacquista la speranza alla fine del libro; Hervé Bazin ritrova la pace quando suo padre finalmente mette a tacere Folcoche; Tarzan, bimbo indifeso in una giungla ostile, finisce per diventare l'amatissimo capo degli animali più feroci; Zorro e Superman, eroi dalla doppia vita, da un lato comuni individui e dall'altro paladini della giustizia; Francois Truffaut e Jean-Luc Lahaye raccontano il vero romanzo della loro infanzia tormentata. Ne "La città della gioia", Dominique Lapierre descrive l'incredibile serenità dei derelitti come confermato da tutte le persone che si sono occupate dei bambini di strada”
L’articolo di Aldo Romano da cui ha preso avvio questa reminiscenza della resilienza è qui:
Ormai non ci sono dubbi, Silvio Berlusconi è dotato di acuta resilienza. Che non è una malattia, ma la capacità di riprendere forma e vigore dopo i colpi più duri. Non è l’unico esponente della politica italiana a godere di quella magica qualità, ma certo che gli ultimi quindici giorni hanno dato una spettacolare dimostrazione del suo primato nel settore. La netta vittoria elettorale in Sicilia è stata interamente sua prima che della Casa delle Libertà, come gli riconoscono i meno frustrati tra gli avversari sconfitti. La sua partecipazione al Family Day ha impresso una curvatura partigiana ad un evento che voleva essere trasversale e problematico per entrambi gli schieramenti. Insomma, il Cavaliere Resiliente si è ripreso la scena. E può permettersi di tormentare i propri alleati con nuove angherie. Ora minacciando di passare il bastone del comando direttamente alla giovane outsider Michela Vittoria Brambilla, ora buttando lì la possibilità di darsi alle larghe intese, ora fantasticando di un Partito della libertà da creare dall’oggi al domani con quelli che ci volessero stare. Il solito leader dalle sette vite, si dirà, capace di ritrovarsi alla testa delle proprie truppe sconfiggendo ogni avversità. Eppure non è detto che si tratti di una buona notizia per il centrodestra. Perché al di là dell’attivismo effettivamente miracoloso di Berlusconi, da tempo poco o niente sta accadendo dalle parti dell’opposizione al governo Prodi. Nessun segno di vitalità propriamente politica, niente che faccia pensare che in quel vasto settore del Parlamento si stia lavorando ad un’idea del Paese diversa da quella che viene espressa dalla maggioranza di centrosinistra. Molta propaganda ma poche idee su tutti i grandi aspetti della vita politica. In economia è evidente il mutismo di uno schieramento che si limita a ripetere lo slogan del «meno tasse» – peraltro senza poter vantare alcuna sensibile riduzione del carico fiscale negli anni in cui ha governato il Paese – non riuscendo ad orientare neanche marginalmente la discussione sulla necessità di un’apertura della società italiana ai valori liberali e della concorrenza. In politica estera la brillante strategia del centrodestra è tutta nel «tanto peggio, tanto meglio», pronta ad attendere l’ennesimo scivolone internazionale di Prodi o D’Alema senza fornire alcun indizio alternativo che non sia una più tenace fedeltà all’alleato americano. Sul piano più generalmente ideologico e culturale, siamo fermi ad un anticomunismo che resiste negli anni ad ogni smentita del mondo e della stessa sinistra italiana. E se non fosse per il nuovo protagonismo della Chiesa cattolica sui temi della vita e della famiglia, nemmeno per Berlusconi vi sarebbe alcuna occasione di sortite opportunistiche. In sostanza, il centrodestra sta replicando la strategia della passività mostrata dal centrosinistra nella scorsa legislatura. Quando l’opportunità di metter mano ad un progetto per il Paese mentre si era opposizione fu sacrificata alla conservazione degli equilibri politici e personali su cui si reggeva la coalizione. Le conseguenze di quella scelta si vedono oggi nella stanchezza dell’azione di governo, nell’impressione di un esecutivo che resiste più per il favore delle condizioni esterne che per le proprie virtù politiche e progettuali. Ma disporre di un’opposizione che non riesce ad andare oltre la propaganda non fa certo bene al governo. Così come non giova all’Italia, che ormai è dovunque circondata da Paesi che sono riusciti a dotarsi di leadership nuove e più dinamiche. Perché l’attivismo del Cavaliere riempie di sé ogni spazio lasciato libero dall’assenza di una vera concorrenza politica nel suo campo. Ma il vuoto di idee è destinato a rimanere tale, anche quando permette l’esibizione di spettacolari capacità di rimbalzo.
In Aldo Romano, Berlusconi sta bene il Polo no, in La Stampa 16 maggio 2007
In: http://amalteo.splinder.com/post/12222179/Resilienza RESILIENZA " Finché non saremo riusciti a sopprimere nessuna delle cause della disperazione umana, non avremo il diritto di provare a sopprimere i mezzi attraverso i quali l'uomo prova a pulirsi della disperazione. " Antonin Artaud. Non so bene a quali mezzi Artaud si riferisse. Leciti, illeciti, boh. Antonin però è sacro e qualunque cosa dica ha un senso, per me. Provo a svelare tre o quattro cose che faccio io, in stati catatonici-semicomatosi (Grazie al cielo, questo è un periodo buono). 1) Rileggo un elogio alla vera leggerezza, scritto all’età di 13 anni. 2) Cerco di distinguere i “falsi problemi”. Sono quelli che complicano maledettamente le cose, creando una baraonda indistinta sena capo, né coda. 3) Ludoterapia, a manetta, con film che esasperano il problema, rendendolo una cosa piccolissima e ridicola. 4) Scrivo su un blog, facendo accurata attenzione a svelare tutti i cazzi miei. Se mai, un giorno, renderemo conto ad un Giudice universale, tra trombe, angeli e tremori, tutti insieme, appassionatamente, non vedo perché dovrei tutelare adesso una Privacy emotiva, che circola e circola, chiedendo solo di uscire. 5) Mi illudo, considerando l’illusione un bozzolo di desiderio, uno scenario a venire, una vita parallela diretta da un regista colorato e stravagante. Il problema più grosso, in realtà, è quando il desiderare-con forza- una jouissance qualunque ti si spezza. O è spezzata dalle cose reali e dalle voci distanti. Tutto ciò è peggio di in cancro, in fase terminale. 6) Contatti umani, tanti, cercando di non considerare mai nessuno una pattumiera muta e stracolma di pazienza. Perché, se no qualcuno, problema o non problema, disperazione o non disperazione, a quel paese, prima o poi, ti ci manda, aggravando, o risolvendo definitivamente la situazione. :* 7) Ecco, se tutto ciò non dovesse ancora funzionare, e la Malinconia persiste, chiudo la luce e dormo. Anche di giorno. Sperando di sognare un angolo della Costiera Amalfitana, magari Positano, di sera, con le luci che giocano sulla scogliera, e, sotto, una pizzeria profumatissima di basilico e limoni. Un cameriere, con la faccia da guitto, non mi fa aspettare. Ed io divoro con le mani una Gigantesca Margherita.
Renèe Dicichè in http://diciche.splinder.com/post/14856376 RESPONSABILITA' AMORE AZIONI PROMESSE Ciò che si può promettere. Si possono promettere azioni, ma non sentimenti, perché questi sono involontari. Chi promette a qualcuno di amarlo sempre o di odiarlo sempre o di essergli sempre fedele, promette qualcosa che non è in suo potere; invece può ben promettere quelle azioni, che sono sì, di solito, effetto dell’amore, dell’odio e della fedeltà, ma che possono anche scaturire da altri motivi: giacché a un’azione conducono più vie e motivi. La promessa di amare sempre qualcuno significa cioè: finché ti amerò, compirò verso di te le azioni dell’amore; se non ti amerò più, continuerai a ricevere da me le stesse azioni, anche se per altri motivi, sicché nella testa del prossimo persiste l’illusione che l’amore sia immutato e sempre il medesimo. Si promette, dunque, di continuare nell’apparenza dell’amore quando, senza accecarsi da sé, si giura a qualcuno eterno amore. (FRIEDRICH NIETZSCHE, Umano, troppo umano, I, ARNOLDO MONDADORI EDITORE 1970, pag.58) RETE FORMATO AVI Il formato "AVI" è un cosiddetto formato "contenitore". Contiene cioè una traccia audio e una traccia video distinte, entrambe compresse.
La traccia audio solitamente è compressa con un codec MP3 ("codec" sta per "codificatore - decodificatore"), e non ci sono mai problemi a leggerla. Spesso capita infatti che, quando sul computer mancano i codec video, avviando il file.avi venga riprodotta solo la traccia audio.
La traccia video invece dovrebbe essere compressa con i codec "DivX" oppure "XviD". Il nome del secondo non a caso è il contrario del primo, essendo nato come "concorrente" del codec DivX, da cui deriva indirettamente... ma questa è un'altra storia :-)
Sebbene esistano altri codec per comprimere le tracce video, i formati AVI utilizzano sempre questi 2 codec. Per avere i codec DivX basta scaricare e installare il setup dei DivX, da qui: http://www.divx.com/divx/windows/...
Per quanto riguarda gli XviD invece... non ricordo di averli mai installati, ma non ho problema a riprodurre video compressi in XviD, quindi devo averli pur presi da qualche parte... ora che ci penso mi sembra che siano compresi anch'essi nel setup dei DivX.
Una volta installati saranno automaticamente riconosciuti da qualsiasi lettore tu abbia sul computer, tipo Windows Media Player, WinAmp, Real Player, VLC Player, ecc.... RETI SOCIALI Reti sociali e dinamiche dell'innovazione da Luca De Biase Le reti sociali e le ex-élite Appunti sull'emergere delle relazioni simbiotiche tra chi guida e chi partecipa
Le reti sociali non sono i social network. Le reti sociali sono formate da tutte le relazioni tra le persone. Le reti sociali classiche sono quelle della parentela e del vicinato. E oggi si aggiungono fortissime quelle che nascono nei posti di lavoro. I social network e la blogosfera sono dimensioni nuove di una storia ovviamente antica.
Le ricerche sulle dinamiche degli ecosistemi, quelle sviluppate con la scienza della complessità e con la teoria delle reti, aiutano a leggere la forma delle relazioni sociali con l'aiuto di concetti e approcci interpretativi nuovi. E la dimensione internettiana delle reti sociali consente di realizzare una quantità impressionante di scoperte in materia.
Per esempio: si ridefinisce completamente il rapporto tra élite e popolazione, che diventa una relazione tra chi guida di volta in volta i processi e chi partecipa. E' essenziale, per comprendere questo cambiamento, intendere che chi guida i processi non lo fa in quanto dotato di uno status ma solo in quanto si pone al servizio dell'insieme (e dunque non è alla guida per sempre ma solo nel tempo in cui davvero offre un servizio). Di fatto, l'élite ritorna a essere legittima solo se si pone in relazione simbiotica con l'ecosistema e non in relazione parassitaria.
L'esempio più semplice da riportare è quello del motore di ricerca. Nella rete dei siti è sicuramente in posizione di vertice perché ottiene molti visitatori, ma non interpreta questa posizione di vertice come potere. Di fatto, la sua importanza è intrinsecamente determinata dalla quantità e qualità dei siti da ricercare. E questi traggono vantaggio da un buon motore che aiuta a farli trovare. Insomma: tra il motore e la lunga coda di siti online c'è una relazione simbiotica perché la vita di una di queste categorie di siti dipende dalla vita dell'altra.
Vediamo un esempio nella dinamica dell'innovazione. A partire da questo approccio si scopre che una rete sociale formata da persone che avvertono l'urgenza di contribuire a cambiare il mondo dà forma a un vero e proprio ecosistema dell'innovazione. I partecipanti possono occuparsi di molte attività specifiche (dalla ricerca scientifica alla produzione di software, dalla scrittura di blog all'arte di strada, dall'architettura dei sistemi informativi alla definizione di politiche dell'innovazione, dalla produzione di visioni sul futuro alla scrittura di romanzi di fantascienza, dalla condivisione di musica e video autoprodotti alla realizzazioni di installazioni, dalla proposta di playlist alla definizione di nuovi criteri del gusto sull'entertainment digitale, dall'adozione pionieristica delle nuove tecnologie all'esplorazione dei servizi online... la lista è infinita e molto molto varia) e/o possono vivere con piglio innovativo le loro attività tradizionali (nelle aziende e nella pubblica amministrazione, nella scuola o in famiglia e così via...).
Ebbene: ogni innovatore è un po' un ribelle e spesso si definisce inizialmente in un rapporto conflittuale rispetto a ciò che ritiene possa essere migliorato e superato. Ma la dinamica del conflitto è solo la prima parte del suo compito. Successivamente, l'adozione generalizzata della sua innovazione passa anche per l'armonizzazione del conflitto.
A questo punto entrano in gioco le reti sociali per la diffusione e l'armonizzazione dell'innovazione. E sappiamo che le reti sociali sono morfologicamente composte di diversi nodi: quelli che smistano l'informazione, quelli che la producono, quelli che la valutano. Nell'innovazione qualcuno la propone e qualcuno la adotta: ma se la proposta dell'innovazione è spesso un atto di ribellione, quasi sempre l'adozione è anche un atto di armonizzazione. Chi guida il processo è inizialmente il promotore dell'innovazione, poi chi riesce a metterla insieme con una qualità più profonda perché tiene conto di molte dimensioni culturali con le quali l'innovazione interagisce.
Per questo va coltivato l'approccio sbarazzino dell'innovatore ribelle e contemporaneamente il rispetto per il generatore di sintesi e armonizzazioni. La novità e la prospettiva sono dimensioni entrambe necessarie. L'ingegneria e la storia, l'azione e la riflessione, l'estensione e la profondità sono tutti elementi necessari all'ecosistema culturalmente sano.
L'approccio all'innovazione basato sul concetto di ecosistema rinnova il senso di tutte le componenti. Valorizza l'infodiversità. E il rispetto di tutti. Purché valga il principio dell'ascolto e del servizio reciproco.
http://blog.debiase.com/2008/02/20.html#a1664 ricordare Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. ricordare Noi siamo la nostra memoria, siamo questo museo chimerico di forme incostanti, questo mucchio di specchi rotti. ricordare Chi non conosce la storia sarà costretto a riviverla (cartello all'ingresso di Auschwitz) ricordare I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume ricordare Per molto tempo mi sono coricato presto la sera. A volte, non appena spenta la candela, mi si chiudevano gli occhi così subito che neppure potevo dire a me stesso "M'addormento". ricordare La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla ricordare Si può ricordare sia secondo la modalità dell'avere, sia secondo quella dell'essere; ma tra le due forme di memoria c'è una differenza, legata soprattutto al tipo di connessione che si opera. Nella modalità mnemonica dell'avere, la connessione è in tutto e per tutto meccanica* come si verìfica quando la connessione tra una parola e la successiva è stabilita e confermata dalla frequenza con cui viene istituita. In altre parole, le connessioni possono essere puramente logiche, come la connessione tra opposti oppure tra concetti convergenti, o ancora col tempo, lo spazio, la dimensione, il colore, o nella cornice di un determinato sistema mentale. Nel caso della modalità dell'essere, invece, ricordare significa richiamare attivamente alla mente parole, idee, cose viste, dipinti, suoni musicali; in altre parole, consiste nel connettere il singolo dato da rammentare ai molti altri dati con i quali è correlato. Le connessioni, in questa seconda modalità, non sono né meccaniche né puramente logiche, bensì viventi. Un concetto è connesso a un altro da un atto produttivo di pensiero (o emozionale) che entra in azione quando si va alla ricerca della parola giusta. […] Ricordare secondo la modalità dell'essere implica riportare in vita qualcosa che si è visto o udito prima. È un processo mnemonico produttivo di cui possiamo fare esperienza cercando di visualizzare il volto di una persona o una scena da noi vista una volta. Né nell'uno né nell'altro caso saremo in grado di richiamarcela istantaneamente alla memoria: dobbiamo ricreare la situazione, riportarla in vita nella nostra mente. È un modo di ricordare non sempre facile: per rammentare appieno il volto o la scena è necessario che li si sia osservati con sufficiente concentrazione; e quando questo processo riesce appieno, la persona di cui ci si ricorda il volto è così viva, la scena ricordata così pregnante, come se l'uno e l'altra fossero tìsicamente, concretamente presenti. ricordare Il passato è sempre con noi. La sua sorte dipende dalla decisione del presente di rimuoverlo o di assumerlo. Per assumerlo non dobbiamo far altro che voltarci, ma voltarci costa, darsi un'occhiata alle spalle è spesso un'operazione insopportabile. Guardiamoci da tutti coloro che dopo ogni strage dicono che "la vita deve andare avanti", che a un certo punto dobbiamo pur "metterci una pietra sopra". Costoro stanno preparando il terreno al ritorno di tutto ciò che si è deciso di dimenticare. Quanto detto per le stragi vale anche per il razzismo, l'antisemitismo e il neonazismo, tre nozioni che indicano il grado zero dello sviluppo dell'umanità. Gli ebrei hanno tenuto alta la memoria, gli zingari, i nomadi, il cui sterminio statisticamente parlando è stato più drastico di quello degli ebrei, non hanno avuto la possibilità di farlo, e lo stesso può dirsi degli armeni sottoposti, a più riprese nella storia, a genocidio. Queste cancellazioni della memoria rendono ora possibile il genocidio in Bosnia. ricordare nostalgia Nostalgia è una parola introdotta da uno studente di medicina diciannovenne che nel 1688 presenta a Basilea una tesi di laurea in cui propone di nominare nostalgia una sindrome che colpiva militari mercenari in terra straniera, ragazze al servizio presso famiglie lontane dalla loro terra na-tia, esuli, sradicati, stranieri. Il termine ebbe fortuna e sostituì la parola Heimweh, dove nella radice heim c'è il richiamo alla parola patria (Heimat), alla casa, al villaggio, a ciò che è familiare (heimlich). Heim proseguì la sua storia nella versione negativa di Unheimlich, l'Inquietante, che ritorna in Heidegger e Freud, mentre Nostalgia, che lo studente Johannes Hofer coniò componendo due parole greche, nóstos (ritorno) e algos (dolore), ebbe la sua storia come variante della malinconia, e precisamente come quella malinconia che assale chi soffre per la lontananza dalla sua patria e ne agogna il ritorno. "La nostalgia - scrive il nostro laureando in medicina - è sintomo di una immaginazione turbata, prodotto degli spiriti vitali che nel loro moto perseguono quasi un unico percorso lungo i condotti bianchi dei corpi striati del cervello e i canaletti del centro ovale, e quindi suscitano nell'anima l'idea esclusiva e persistente del ritorno in patria. A tale sintomo se ne accompagnano poi altri, più o meno gravi. In questa mia descrizione colloco quella malattia tra i sintomi di un'immaginazione turbata, in quanto non credo che anche con uno studio accurato si possa trovarle una collocazione migliore". Due secoli prima di Freud questo giovane studente aveva quindi ipotizzato che una dimensione dello spirito, l'immaginazione, potesse ammalare il corpo e condurlo alla morte. ridere Beati quelli che sanno ridere di se stessi: beati, perché non finiranno mai di divertirsi RIFLESSIONE Rifletti, prima di pensare!
da Stanisław Jerzy Lec, Pensieri spettinati SCOMPARIRE “Ogni tanto puoi semplicemente scomparire. Seduto in giardino, inizi a sentire che stai scomparendo: osserva come ti sembra il mondo, quando te ne sei allontanato, quando non fai più parte del mondo, quando sei diventato assolutamente trasparente. Anche per un secondo, cerca di non essere”
Osho, La maturità, Edizioni Riza, 2004, p.162 SCRITTURA Copiare da un altro autore è un reato di plagio. Copiare da più autori è, invece, un’opera meritevole e viene chiamata «ricerca». Trovo questa battuta su una rivista, in una rubrica di «detti», e la «copio» per proporla oggi ai miei lettori. Certo, anch’io cado sotto le forche caudine di quel motto: ogni giorno compio un atto di plagio «copiando» una frase altrui, oppure, reimpastando più di una frase o idea, passo al genere della «ricerca» che però è pur sempre dipendenza. In verità, tra «copiare» e «ricercare» la differenza c’è e basta solo comparare il compito di un ragazzo che è ricorso a Internet per la sua «ricerca» e il saggio di uno studioso che gronda di riferimenti bibliografici. È, comunque, possibile costruire attorno alla battuta citata un paio di considerazioni. La prima è all’insegna dell’umiltà o almeno del ritegno. Un autore medievale, Bernardo di Chartres, ha coniato una frase spesso citata: «Noi siamo nani sulle spalle di giganti». Solo per questo riusciamo a vedere un po’ più in là di loro. Fanno ridere certi autori che sbeffeggiano secoli di pensiero occidentale per rifilarci i loro prodotti che spesso sono solo pessime rimasticature del già detto o infime novità. «Copiare» dal passato può essere, quindi, un atto necessario e segno di intelligenza. Il grande Montaigne non esitava a confessare di ricorrere alle citazioni per «far dire agli altri quello che non so dire bene, talora per debolezza del mio linguaggio, altre volte per debolezza della mia intelligenza». L’altra considerazione è conseguente alla prima: per «copiare» bisogna leggere. L’augurio è che, in un paese come il nostro di non-lettori, questa pratica cresca senza riserve e remore, soprattutto quando si tratta di classici. Gianfranco Ravasi, il mattutino scrivere Sono vivo e vegeto. Sono vivo. E vegeto scrivere Scrivere è un modo di parlare senza essere interrotti SCUOLA FAMIGLIE certo, quello della scuola è un ruolo diverso da quello proprio della famiglia, di chi ha messo al mondo quell’allievo (genitore) o comunque di chi si è assunto il compito di condurlo nel mondo (madre e padre). diverso, anche se complementare. Alla scuola, infatti, spetta il compito di inserire l’allievo dentro la storia e dentro la cultura di un borgo, di una città, di una nazione e del mondo intero. oggi anche dentro casa ci sono stimoli e capacità di insegnamento, ma non certo le condizioni per farlo in maniera strutturata, coordinata e completa. SENSI "Poiché gli uomini potevano chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all'orrore, davanti alla bellezza, e turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti. Ma non potevano sottrarsi al profumo. Poiché il profumo era fratello del respiro. Con esso penetrava negli uomini, a esso non potevano resistere, se volevano vivere. E il profumo scendeva in loro, direttamente al cuore, e là distingueva categoricamente la simpatia dal disprezzo, il disgusto dal piacere, l'amore dell'odio. Colui che dominava gli odori, dominava i cuori degli uomini."
Patrick Süskind: Il profumo Longanesi Editore, Milano -1999 traduzione dal tedesco di Giovanna Agabio pagg. 160-161 SENTIMENTI IRA DOLORE RISENTIMENTO Ben più gravi sono gli effetti prodotti in noi dall'ira e dal dolore, con cui reagiamo alle cose, che non quelli prodotti dalle cose stesse, per le quali ci adiriamo o ci addoloriamo.
Marco Aurelio SENTIMENTI odiare Poche persone riescono a essere felici senza odiare qualche altra persona, nazione o credo
Bertrand Russell SENTIMENTI piangere sentimento Piangere al cinema Durata: circa novanta minuti Materiale-, un lungometraggio Effetto: calmante
II film deve essere adatto: niente film per intellettuali, ma uno facile da seguire, prevedibile, con un intreccio leggero. Una storia d'amore è l'ideale. Meglio sedersi molto vicini allo schermo come per non perdersi neanche un'esclamazione, diventare un tutt'uno con esso, dimenticare tutto. E per finire credere che tutto quanto si vede è vero e immenso. Assolutamente bello e triste al tempo stesso. Diventare farfallone, sartina, si-gnorinella. Ma totalmente, altrimenti non è cinema. Non avere alcun distacco critico, nessuna triste serietà. Smontare sistematicamente ogni diffidenza, ogni dubbio. Diventare un ottimo spettatore, farlo con spudoratezza e decisione. E quando gli amanti si separano, l'eroina muore, l'assassino, il male, o l'imbecillità trionfano, i sogni si spezzano, i cuori si lacerano e i violini suonano in sottofondo e le percussioni rimbombano, allora lasciatevi andare al pianto liberatorio a calde lacrime. Senza riflettere o vergognarvi. Caldamente, intensamente, senza fine. Sentitevi pure disperati e rassicurati al tempo stesso, travolti dalla storia, incapaci della minima resistenza, distrutti dal dispiacere, felici di lasciarlo fluire, incuranti del resto. Poiché di questi tempi si coltivano sempre più il cinismo, la freddezza, la denigrazione, la derisione, conviene sperimentare di spontanea volontà e liberamente i buoni sentimenti. Senza calcolo alcuno, solo per il piacere di farlo. Questa fiera mollezza delle lacrime innocenti nasconde un piacere particolare, un crollo delle barriere, una perdita temporanea della corazza.
Roger - Pol Droit, Piccola filosofia portatile. 101 esperimenti di pensiero quotidiano, Rizzoli, 2001 sentirsi diversi Sono Gimpel l'idiota, ma non credo d'esser stupido. Anzi sentirsi diversi Non lo nego: sono ricoverato in un manicomio; il mio infermiere mi osserva di continuo, quasi non mi toglie gli occhi di dosso perché nella porta c'è uno spioncino, e lo sguardo del mio infermiere non può penetrarmi perché lui ha gli occhi bruni, mentre i miei sono celesti sentirsi diversi Un teppista, crudelissimo e sadico e pieno di fantasia criminale, insieme ai suoi degni compari vive di violenza, stupra, deruba e uccide. Finché la polizia riesce a catturarlo e gli rivolta contro le sue stesse attitudini. Ritenendolo un soggetto molto interessante, sperimenta su di lui certe terapie che gli tarpino gli istinti aggressivi: lo costringe a sentire continuamente una certa musica e ad assistere contemporaneamente a scene di violenza. Per qualche tempo il giovane si ribella, resiste, poi capisce che è meglio fìngere di integrarsi. Potrà continuare a fare le stesse cose, ma protetto dal sistema. Tratto da un romanzo di Anthony Burgess, un altro film che fece epoca. Per la tecnica registica di Kubrick e per la violenza espressa, che allora era davvero una novità, Arancia meccanica continua ad essere un manifesto di quella generazione, insoddisfatta e alla ricerca di altri valori.
Alex (McDowell) e Frederick, un ministro del regime, si ritrovano dopo la cura cui è stato sottoposto il primo, che è ancora in ospedale, piuttosto provato. FREDERICK Capisci Alex? Mi sono spiegato chiaro? ALEX Come un lago senza fango, sir. Così limpido come un cielo d'estate sempre blu. Fidati di me, Fred. FREDERICK Bravo, sei un amico. Ah, già, mi hanno detto che ti piace la musica. Ho una piccola sorpresa per tè. ALEX Sorpresa? FREDERICK Be', spero che ti piaccia come, come diciamo così, come simbolo della nostra nuova intesa. Una nuova intesa fra due vecchi amici. ALEX Ero guarito, eccome. (tratto da: Daniela Farinotti, Domani è un altro giorno: sessanta finali di sessanta film leggendari …, La Tartaruga Edizioni, Milano 1995) sessantotto Il Pci ai giovani!
di Pier Paolo Pasolini E’ Triste. La polemica contro il Pci andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati. Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo. lo no, amici. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccolo-borghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene, il loro modo di esser stati bambini e ragazzi le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità. La madre incallita come un facchino, o tenera, per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli; la casupola tra gli orti con la salvia rossa (in terreni altrui, lottizzati); i bassi sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari, ecc. ecc. E poi, guardateli come si vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha uguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare). Hanno vent'anni, la vostra età, cari e care. Siamo ovviamente d'accordo contro l'istituzione della polizia. Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà avete bastonato, appartengono all'altra classe sociale. A Valle Giulia, si é così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate, i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! in questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici/ “Popolo” e “Corriere della sera”, “Newsweek” e “Monde” vi leccano il culo. Siete i loro figli la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano non si preparano certo a una lotta di classe contro di voi! Se mai, alla vecchia lotta intestina. Per chi, intellettuale o operaio, è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente l’idea che un giovane borghese riempia di botte un vecchio borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera un giovane borghese. Blandamente i tempi di Hitler ritornano: la borghesia ama punirsi con le sue proprie mani. Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli che operano a Trento o a Torino, a Pavia o a Pisa, a Firenze e anche un po' a Roma, ma devo dire: il Movimento Studentesco non frequenta i vangeli la cui lettura i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono, per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici: una sola cosa gli studenti realmente conoscono: il moralismo del padre magistrato o professionista, la violenza conformista del fratello maggiore (naturalmente avviato per la strada del padre) l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini contadine, anche se già lontane. Questo, cari figli, sapete. E lo applicate attraverso inderogabili sentimenti: la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia prende in considerazione solo voi) e l'aspirazione al potere. Sì, i vostri slogan vertono sempre la presa di potere. Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti nei vostri pallori snobismi disperati, nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali, nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo (solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia infima, o da qualche famiglia operaia questi difetti hanno qualche nobiltà: conosci te stesso e la scuola di Barbiana!) Occupate le università ma dite che la stessa idea venga a dei giovani operai. E allora: “Corriere della Sera” e “Popolo”, “Newsweek” e “Monde” avranno tanta sollecitudine nel cercar di comprendere i loro problemi. La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata? E’ un'osservazione banale; e ricattatoria. Ma soprattutto vana: perché voi siete borghesi e quindi anticomunisti. Gli operai, loro, sono rimasti al 1950 e più indietro. Un'idea antica come quella della Resistenza (che andava contestata venti anni fa, e peggio per voi se non eravate ancora nati) alligna ancora nei petti popolari in periferia. Sarà che gli operai non parlano né il francese né l'inglese, e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula, si è dato da fare per imparare un po' di russo. Smettetela di pensare ai vostri diritti, smettetela di chiedere il potere. Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti e bandire dalla sua anima, una volta per sempre, l'idea del potere. Tutto ciò è liberalismo: lasciatelo a Bob Kennedy. I Maestri si fanno occupando le fabbriche non le università: i vostri adulatori ( anche comunisti) non vi dicono la banale verità che siete una nuova specie idealista di qualunquisti come i vostri padri, come i vostri padri, ancora, figli. Ecco, gli Americani, vostri adorabili coetanei, coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando, loro, un linguaggio rivoluzionario “nuovo”! Se lo inventano giorno per giorno! Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n'e già uno: potreste ignorarlo? Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione del “Times” e del “Tempo”). Lo ignorate andando, col moralismo delle profonde province, “più a sinistra”. strano, abbandonando il linguaggio rivoluzionario del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale Partito Comunista, ne avete adottato una variante eretica ma sulla base del più basso gergo dei sociologi senza ideologia (o dei babbi burocrati). Così parlando, chiedete tutto a parole, mentre, coi fatti, chiedete solo ciò a cui avete diritto (da bravi figli borghesi): una serie di improrogabili riforme, l’applicazione di nuovi metodi pedagogici e il rinnovamento di un organismo statale. Bravi! Santi sentimenti! Che la buona stella della borghesia vi assista! Innebriati dalla vittoria contro i giovanotti della polizia costretti dalla povertà a essere servi, (e ubriacati dall'interesse dell’opinione pubblica borghese con cui voi vi comportate come donne non innamorate, che ignorano e maltrattano lo spasimante ricco) mettete da parte l'unico strumento davvero pericoloso per combattere contro i vostri padri: ossia il comunismo. Spero che l'abbiate capito che fare del Puritanesimo è un modo per impedirsi un'azione rivoluzionaria vera. Ma andate, piuttosto, figli, ad assalire le Federazioni!Andate a invadere cellule! Andate ad occupare gli uffici del Comitato Centrale! Andate, andate ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure! Se volete il Potere, impadronitevi, almeno, del potere di un partito che è tuttavia all'opposizione (anche se malconcio, per l’autorità di signori in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote, borghesi coetanei dei vostri stupidi padri) ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere. Che esso si decida a distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé, dubito molto, anche se col vostro apporto, se, come dicevo, buona razza non mente…Ad ogni modo: il Pci ai giovani!Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? cosa vi sto consigliando? A cosa vi sto sospingendo? Mi pento, mi pento Ho preso la strada che porta al minor male, che Dio mi maledica. Non ascoltatemiAhi, ahi, ahi, ricattato ricattatore, davo fiato alle trombe del buon senso! MI son fermnato appena in ternpo, salvando insieme, il dualismo fanatico e l’ambiguità…Ma son giunto sull’orlo della vergogna…(oh Dio! che debba prendere in considerazione l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?) Fonte: “Il Pci ai giovani!”, pubblicato su Nuovi Argomenti, n.10, aprile-giugno 1968 SESSUALITA' RUOLI SESSUALI Donni e Uome Una ricerca dimostra che i ruoli sessuali sono cambiati, i generi sono sempre più vicini. E che il coito stanca (ma la tenerezza no)
L’amore si fa in quattro: due corpi biologici (maschio e femmina) seguono il drive evolutivo alla riproduzione (consegnare i propri geni al futuro), mentre due individui (uomo e donna), elaborati dalla cultura nella mente e nel corpo, cercano di ottenere il controllo dei primi due. A stento, dato che, nella nostra società postmoderna, si è consolidata l’asimmetria tra riproduzione e sesso, simile alla differenza che intercorre tra alimentazione e gastronomia, o tra emissione di vocalismi e canto. Il guaio è che, in Occidente, uomini e donne cominciano a fare confusione tra la stanza dei bottoni e quella da letto. È una questione di modelli. Un tempo era tutto chiaro: Marte amava Venere, facendo cornuto il deforme Efesto (Odissea, VIII, 266-366); nel frattempo il bell’Apollo inseguiva le ninfe e, al momento topico, non combinava niente. Mercurio faceva l’accompagnatore di anime morte, portando avanti le fantasie erotiche. Le Dee, per pudore, non stavano a guardare. Oggi, rispetto ai tempi di Omero, sono saltate le distinzioni binarie. Per quanto riguarda il sesso, gli italiani sono diventati donni e/o uome. Così pare nell’analisi condotta dall’Istituto GPF per Pfeizer, Gli Italiani e la sessualità (2007), dove si incontrano strani soggetti sessuali. “La prima macroevidenza dell’indagine è l’allineamento delle risposte di uomini e donne sulla maggior parte degli indicatori. Il dato rivela l’avvicinamento dei generi, fondato su un processo di revisione dei ruoli sessuali”. Come direbbe Simone de Beauvoir: «Essere donna vuol dire essere un uomo come un altro ». Con plauso delle donne, la pubblicità espone il corpo maschile nudo. Ottimo risultato, come quello che ha consentito alle donne di fare il soldato e ammazzare bambini. D’altra parte, “i pubblicitari sono mercanti di sabbia che lavorano per l’espansione del deserto” (Gruppo Marcuse, 2006).
Ancora la ricerca GPF: “Gli uomini sono oggi più disposti a parlare della propria sessualità e dei problemi a essa legati e si mostrano più propensi a risolvere eventuali forme di disagio con un approccio che coniughi l’esigenza di trovare comprensione e ascolto, e la sicurezza data da una prospettiva di supporto medicale”. I sondaggi, si sa, contengono essenzialmente narrazioni di sé, di come vorremmo essere e non di come si è. Freud non interpretava i sogni, ma analizzava come essi venissero narrati, parola per parola. È così che andrebbero letti i sondaggi. A quanto pare, l’italiano di oggi è fautore della coppia d’amore (per il 76,6% degli uomini e l’85,6% delle donne, “non è possibile avere rapporti sessuali soddisfacenti senza coinvolgimento affettivo”). L’uomo si immagina tenero con le donne, ma sicuro della sua “durezza farmaceutica” sotto la cintura.
A tale proposito stiamo assistendo a una serie di trasformazioni comportamentali nella sfera della sessualità che mostrano un’inversione dei caratteri sessuali secondari. Il fenomeno, come sempre nell’immaginario, coinvolge più il corpo femminile che non quello maschile. Il sesso non è più considerato quello che si attiva verso i genitali (caratteri sessuali primari), ma quello che gestisce quelli secondari (sederi, seni, piedi, labbra, ombelico, schiena, capelli, muscoli e lunghezza del pene per gli uomini ecc.). Questo è il regno della leggerezza e della tenerezza, come insegna il latin lover. Il sesso primario è sangue e sudore; quello secondario è l’elogio dell’impermanenza. Ecco perché è area di mercato. La tenerezza non lascia conseguenze, il coito sì. La tenerezza si ricompra all’infinito. Il coito stanca. Va allora riconsiderata la soddisfazione sessuale: si rivolge al sesso primario o a quello secondario? Credo che oggi gli italiani siano molto soddisfatti per questa seconda, nuova, forma di sesso legata ai caratteri secondari: gli uomini sono tutti guardoni e abili nella mano morta; le donne sono diventate esibizioniste (al punto che così è rappresentata, con tanto di impermeabile aperto, una vecchietta di una pubblicità telefonica). Una bella soddisfazione.
IN http://dweb.repubblica.it/dettaglio/Saremo-UOME-o-DONNI/37361?page=3 SIMBOLI ALBERI L'ALBERO
Noi siamo l'albero, eppure sediamo sotto l'albero, tra le foglie siamo l'uccello nascosto, siamo il cantore e siamo il canto. (Conrad Aiken)
L'albero è un compagno silenzioso, umile, protagonista non citato, presente con discrezione nelle nostre passeggiate, nel nostro stesso cercare ossigeno, aria e libertà. E' ancora fondamentale per la clorofilla, per i frutti, per la cellulosa e per la protezione idrogeologica, sebbene oggi nelle nostre città sia sacrificato e inquinato. Esso ha accompagnato l'essere umano nella sua plurimillenaria esperienza e ne è stato compagno, specchio, simbolo, espressione di fecondità e simbolo di trascendenza. Alla nascita di mio figlio un caro amico ha piantato un albero, un piccolo melo che cresce con lui, riavviando un percorso antico come l'uomo, che ci lega alla terra e al cosmo. L'essere umano fino dagli albori della coscienza si è servito dell'albero come modello, a livello simmetrico e complementare, di confronto, di identità e di trasformazione. L'albero, secondo antichissime tradizioni, siamo noi stessi, e la nostra stessa sorte è connessa alla sua. L'albero si ricollega attraverso invisibili radici, con il ricco e misterioso mondo della madre terra, quel "sotto" che affascina tanto i bambini. Si intuisce che sotto il tronco non solo la vita non è interrotta, ma possiede invece una sua straordinaria magica potenza. L'intuizione che anche noi siamo alberi viventi, può portare rispondenze nel nostro intimo, e non a caso l'albero evoca meditazione, contemplazione, concentrazione, è il primo compagno che la natura offre. Secondo molti miti l'uomo discende dagli alberi, l'eroe è chiuso nell'albero materno, come Osiride. L'albero da sempre è legato al culto di dei e dee ai quali talune specie di alberi erano consacrate. Artemide era le dea del cedro, Attis si identifica con un pino, l'olivo era l'albero di Atena. Il culto dell'albero è stato diffuso nelle civiltà pre-elleniche e presupponeva riti destinati ad aiutare la vegetazione, come quello dello strappamento di un arbusto sacro in cui si celebrava la morte annuale della vegetazione, il cordoglio della natura. L'albero, che oggi non è protagonista nella nostra vita cementata, continua a essere invece protagonista nei sogni, come simbolo universale pregno di significati vivificanti e attuali. Un esempio: "La sognatrice si trova in un bosco, alla base di un albero che è anche una croce e un Cristo." Le associazioni libere delle persone comuni che sognano tale simbolo sono: la crescita, la vita, l'estrinsecarsi della forma in senso fisico e spirituale, lo sviluppo, la crescita dall'alto verso il basso, l'aspetto materno (protezione, ombra, riparo, frutti nutritivi), infine la morte e la rinascita. L'albero è ritenuto proiezione della personalità in crescita: la linea di sviluppo dal basso verso l'alto suggerisce vari significati: passaggio dall'inconscio (radici, origine, profondità) al conscio, aspirazioni, divenire, socialità ed estroversione verso l'alto. Il fusto rappresenta il centro, il mezzo, il sostegno; durevole e stabile è in contrapposizione al fogliame che ha invece carattere transitorio e ornamentale. Il test proiettivo dell'albero, non a caso, parte dal disegno di un albero per tracciare una descrizione della personalità. Ma il simbolismo dell'albero va ben oltre: simbolo di vita in continua evoluzione, in ascensione verso il cielo, esso evoca in questo senso il simbolismo della verticalità. Contemporaneamente rappresenta il carattere ciclico dell'evoluzione cosmica, morte e rigenerazione. L'albero mette in comunicazione i tre livelli del cosmo: quello sotterraneo, per le radici che scavano la profondità in cui affondano, la superficie della terra, per il tronco e per i rami e infine i cieli per i rami superiori e la cima attirata dalla luce del sole. Rettili strisciano tra le radici e uccelli volano e abitano le sue fronde: l'albero mette in relazione il mondo ctonio con quello uranio e riunisce in sé tutti gli elementi: l'acqua circola con la linfa, la terra si integra al suo corpo tramite le radici, l'aria nutre le foglie e il fuoco si sprigiona dal legno. Per le sue radici affondate nel suolo e per i rami che si innalzano al cielo l'albero è ritenuto universalmente un simbolo dei rapporti tra terra e cielo. L'albero del mondo diventa sinonimo di asse del mondo. L'albero è simbolo della perpetua rigenerazione e perciò della vita stessa nel suo senso dinamico. E' carico di forze sacre perché verticale, fiorisce, perde e ritrova le sue foglie e si rigenera: muore e rinasce innumerevoli volte. L'albero secondo M. Eliade diventa una manifestazione archetipale della Potenza. In quanto simbolo di vita, della vita a tutti i livelli, dall'elementare al mistico, l'albero è stato assimilato alla madre, alla fonte, portandone tutta la forza ambivalente. Ma esso è simbolo anche fallico, come descritto nell'albero filosofico. L'albero, insieme fallo e matrice, diviene un simbolo del sé raffigurato come processo di crescita. Nella tradizione cristiana l'albero rappresenta la vita dello spirito, tanto che il Cristo è insieme sole ed albero. L'albero rappresenta la maturazione dalla materia allo spirito. L'albero non è solo di questo mondo, va dagli inferi al cielo come una via di comunicazione vivente, il che spiega l'immagine dell'albero come palo sciamanico. L'albero è anche considerato un simbolo dell'unione tra continuo e discontinuo. Di qui la presenza nella Bibbia dell'Albero della Vita, cioè della vita eterna, e dell'albero della conoscenza del bene e del male. L'albero è paragonato al pilastro che sostiene il tempio e la casa, alla colonna vertebrale del corpo: le stelle sono i frutti dell'albero cosmico. Gli studiosi delle religioni parlano dell'albero cosmico come asse del mondo. Su di esso sale lo sciamano per arrivare attraverso i nove gradini del cielo al trono di dio. L'albero è un "passaggio", una soglia di entrata in invisibili mondi iniziatici. Il nero (le radici), il bianco (il tronco) e il rosso (la chioma solare) sono tre dimensioni del sacro necessariamente complementari. Le implicazioni cosmiche dell'albero, quale colonna e asse del mondo, tornano a dire, nelle fantasie e nei sogni dell'uomo moderno, la necessità di recuperare le dimensioni archetipali che albergano in noi. L'albero diviene allora, per l'uomo, strumento di contatto con la vita, come risulta dal seguente scritto di Crisostomo: "Questo legno mi appartiene per la mia salvezza eterna. Io me ne nutro, me ne cibo: mi attacco alle sue radici, mi stendo sotto i suoi rami, al suo soffio mi abbandono con delizia come al vento. Sotto la sua ombra ho piantato la mia tenda, e al riparo dal calore eccessivo, ho trovato riposo. Io fiorisco con i suoi fiori, i suoi frutti mi procurano una gioia perfetta, frutti che io colgo preparati per me fin dall'inizio del mondo."
Simonetta Figuccia
in http://www.geagea.com/40indi/40_05.htm SIMBOLI ANGELI L'ANGELO DELLA STORIA
“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
W. Benjamin, Angelus novus, Tesi di filosofia della storia, Einaudi, 1962, pp. 76-77 SIMBOLI ARCHETIPI GRANDE MADRE MEDITERRANEA “La chiave che permette di schiudere l’enigma dell’anima italiana è la constatazione che in Italia regna la Grande Madre mediterranea, la quale non ha perduto nei millenni né di potenza né di influenza. Essa è la premessa archetipica che si ravviva in ogni singola donna italiana se si fa appello alle sue qualità materne. … Nel dominio psichico essa produce prima di tutto una specifica attitudine materna. L’istinto materno la impegna interamente alla cura e alla protezione del bambino, un atteggiamento che si estende all’infinito attraverso meccanismi di proiezione; poiché dovunque essa trovi un oggetto, qualcosa a cui attribuire il significato di ‘figlio’, ivi si fissa, per rivolgerglisi maternamente. Essa accoglie ogni moto del ‘bambino’, afferra tutto, comprende tutto, perdona tutto, sopporta tutto. Quanto più bisognoso il bambino, più sofferente, più povero, più trascurato, tanto più vicino è al suo cuore. … La mancanza di puntualità e di fidatezza degli italiani si fonda in parte su questa fondamentale struttura psichica, poiché a chi è dominato dalla Grande Madre mancano capacità d’astrazione e di disciplina virili, o meglio queste soccombono inesorabilmente quando vengono a conflitto con la Grande Madre. Tutto ciò che è impersonale, per principio, essa cerca di trasformarlo in rapporto personale, attraverso il quale, come è noto, in Italia si può raggiungere quasi tutto. … Niente è più espressivo che l’interiezione “Pazienza!” che l’italiano pronunzia in modo quasi riflessivo quando qualcosa non è andato come doveva, a mo’ di rassegnazione e di conforto insieme, secondo quanto gli suggerisce la Grande Madre consolatrice. … Poiché la rassegnazione contenuta in quel “Pazienza!” ha infine la propria radice in una genuina fiducia nel corso delle cose, in quella sicurezza che al figlio dà protezione materna, che giunge fino a quel ‘completo abbandono alla Provvidenza’ che è uno dei pilastri naturali della religiosità cristiana in Italia. Ma la Grande Madre mediterranea in Italia è una madre primitiva. Essa vizia per lo più i suoi figli con la massima istintività, e i figli di conseguenza sono esigenti. Ma quanto più li vizia tanto più li rende dipendenti da sé, tanto più naturale le sembra la propria pretesa sui figli e tanto più questi si sentono ad essa legati e obbligati. A questo punto la buona madre nutrice e protettiva si trasforma nel proprio aspetto negativo, nella cattiva madre che trattiene e divora e che con le sue pretese ormai egoistiche impedisce ai figlie il raggiungimento dell’indipendenza e li rende inermi e infelici. … Spesso sono mogli e madri energiche, ricche di meriti, capaci, con un marito per lo più debole, senza interesse o capacità per le cose concrete, che creano e mantengono la posizione della famiglia, che dirigono aziende, fabbriche, alberghi, negozi o perlomeno la carriera del marito … Oppure sono donne sofferenti, malate o malaticce, il più delle volte con un marito estroverso, che sono state impedite nella loro evoluzione spirituale e psichica … Ambedue i tipi di madre, l’attivo come il passivo, hanno un’influenza ugualmente forte sul destino dei componenti della famiglia.
Data la posizione dominante della madre nella psicologia italiana, è naturale che la maggior parte delle nevrosi sia determinata principalmente da complesso materno. Molto spesso noi troviamo nell’uomo turbe di potenza, dongiovannismo, omosessualità, disturbi del lavoro. Nella donna troviamo sfiducia nelle sue qualità femminili, mancanza di fiducia nei decorsi naturali, mestruazione, gravidanza, parto, sviluppo dei bambini con i relativi disturbi: resistenza sessuale, frigidità, lesbismo, ipercompensazione intellettuale. In generale: disturbi dei rapporti fra i sessi, difficoltà nella ricerca del compagno, matrimoni infelici, angosce, depressioni, complessi d’inferiorità e un’infinita schiera di disturbi psicosomatici, dalla frequentissima emicrania alla colite, alla nevrosi cardiaca, all’asma, fino all’ulcera gastrica. … In una civiltà di stampo matriarcale l’elemento maschile rappresenta per definizione il lato indifferenziato, l’Ombra. Poiché la madre rappresenta l’inconscio nel suo aspetto predominante, l’uomo italiano è facilmente esposto ai suoi influssi e dispone di fronte a esso d’un Io relativamente debole; egli si identifica più o meno con l’Anima.
L’'identità con i lato positivo materno è evidente. E’ commovente vedere come i padri italiani sanno trattare coi loro bambini, come li sanno comprendere, proteggere, curare,. Sovente ridiventano bambini essi stessi, figli della Grande Madre, perché in fondo non hanno mai cessato di esserlo, compagni di gioco delle proprie figlie e dei propri figli, proprio come avviene presso i primitivi organizzati patriarcalmente, dove il posto del padre, con i suoi diritti e doveri, è preso dal fratello della madre, dallo zio materno. …
L’elemento maschile indifferenziato tende in linea di massima a fissarsi in una condizione di “figlio di mamma”, sovente nella forma di eterno Puer, cioè in una psicologia di pubertà. Questo produce per un verso l’attaccamento e la venerazione commoventi che l’uomo italiano ha per la propria madre, e con essi il suo tradizionalismo e il suo conservatorismo in tutti i domini, naturalmente anche nei confronti della Chiesa. …
Per altro verso questa psicologia di pubertà così caratteristica per l’uomo si manifesta positivamente come ribellione, ardimento, slancio, entusiasmo, intuizione creativa e schietto impulso all’avventura, negativamente come faciloneria, esibizionismo, vanità, gallismo o disprezzo della donna, spesso con tratti manifesti o latenti di omosessualità, e come tendenza a ogni possibile eccesso”
in Ernst Bernhard, Il complesso della Grande Madre. Problemi e possibilità della psicologia analitica in Italia, in Tempo Presente dicembre 1961, ripubblicato in Mitobiografia, Adelphi. 1969, pagg. 168-174 SIMBOLI ARCHETIPI Shakespeare Nietzsche segue l'esempio di Amleto quando dice che ciò per cui troviamo le parole è spesso già morto nel nostro cuore e che quindi vi è sempre una sorta di disprezzo nell'atto del parlare. Prima che Amleto ci insegnasse a non avere fiducia nel linguaggio né in noi stessi, essere uomini era molto più semplice ma anche molto meno interessante. Grazie ad Amleto, Shakespeare ci ha trasmesso lo scetticismo nei confronti di qualsiasi relazione, perché abbiamo imparato a dubitare dell'eloquenza nella dimensione affettiva. [Harold Bloom - Shakespeare] SIMBOLI ARCHETIPI Shakespeare I grandi personaggi di Shakespeare - Macbeth, Cleopatra, gli intelligentissimi Rosalinda, Amleto, Falstaff (per cui ho una predilezione personale) - sono più veri delle persone che ci sembra di conoscere. Sono più veri della vita stessa. Sono talmente convincenti che io non riesco a credere che Shakespeare non li avesse visti davvero, e semplicemente ritratti. SIMBOLI MITI MITOLOGEMI Il mitologema è un materiale mitico che viene continuamente rivisitato, rimodellato e plasmato, come un fiume di immagini senza fine.
K. Kerenyi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, trad. it. A. Brelich, Boringhieri, Torino, 1983, pagg. 15- 17
Esiste un materiale particolare che determina l’arte della mitologia: un’antica massa di materiale tramandata in racconti ben conosciuti che tuttavia non escludono ogni ulteriore modellamento, – “mitologema” è per essa il migliore termine greco, – racconti intorno a dèi, esseri divini, lotte di eroi, discese agli inferi. La mitologia è il movimento di questa materia; qualcosa di solido e tuttavia mobile, materiale e tuttavia non statico, bensí suscettibile di trasformazioni.
Il paragone piú appropriato – che io devo sempre ripetere per illustrare quest’aspetto della mitologia – è quello con la musica. Mitologia in quanto arte e mitologia in quanto materiale sono fuse in un unico e identico fenomeno, nella stessa maniera in cui lo sono l’arte del compositore e il suo materiale, il mondo sonoro. L’opera musicale ci mostra l’artista quale plasmatore e nello stesso tempo ci fa vedere il mondo sonoro nell’atto di plasmare se stesso. Nei casi in cui non ci sia in primo piano nessun modellatore di spirito particolarmente eccezionale, come nelle grandi mitologie degli Indî, dei Finni e degli Oceaniani, si può parlare con ancor maggiore ragione di una siffatta relazione; di un’arte cioè che si manifesta nel plasmare e di un particolare materiale che si plasma, come di unità inscindibile di un unico e identico fenomeno.
Il modellamento, nella mitologia, è immaginifico. Scaturisce un fiume di immagini mitologiche. Uno scaturire che nello stesso tempo è un esplicarsi: fissato, come i mitologemi sono fissati nelle sacre tradizioni, esso è una specie di opera d’arte. Vi possono essere diversi sviluppi dello stesso tema fondamentale, uno accanto all’altro o uno dopo l’altro, simili alle diverse variazioni di un tema musicale. Benché, infatti, il flusso stesso si presenti sempre in immagini, il paragone con le opere musicali conserva la sua validità. Sempre, intanto, con opere: vale a dire con qualcosa di obiettivato, qualcosa che è già diventato oggetto autonomo che parla da sé, qualcosa a cui non si rende giustizia con interpretazioni e spiegazioni, bensí tenendolo presente e lasciando che pronunci da sé il proprio senso.
Nel caso di un mitologema autentico questo senso non è una cosa che si possa esprimere altrettanto bene e completamente anche in un linguaggio non mitologico. La mitologia non è soltanto una maniera d’espressione al cui posto si potrebbe sceglierne un’altra, piú semplice e piú comprensibile che tutt’al piú non si sarebbe potuta adottare in quella data epoca perché in quella la mitologia sarebbe stata l’unica maniera d’espressione conforme ai tempi. Conforme o meno conforme ai tempi può essere la mitologia, esattamente come la musica. Vi sono forse epoche che solo in musica possono esprimere la loro piú alta idea. Ma quella piú alta idea è, in questo caso, qualcosa che non potrebbe essere espresso se non, appunto, in musica. Cosí è anche per la mitologia. Come la musica ha anche un aspetto pieno di significato, il quale soddisfa nello stesso modo in cui una totalità piena di significato può soddisfare, cosí succede per ogni mitologema autentico. Se tale significato si traduce cosí difficilmente nel linguaggio della scienza, è appunto perché esso non può venir espresso completamente se non in forma mitologica.
Da quest’aspetto immaginifico-significativo-musicale della mitologia deriva che l’unico giusto modo di comportarsi nei suoi riguardi è quello di lasciar parlare i mitologemi per se stessi e prestar loro semplicemente ascolto. La spiegazione deve rimanere in questo caso sullo stesso piano che occupa la spiegazione di un’opera musicale o, tutt’al piú, poetica. Che questo richieda un particolare “orecchio”, esattamente come occuparsi di musica o di poesia, s’intende da sé. “Orecchio” significa anche qui un vibrar insieme, anzi un espandersi insieme. “Colui che si spande come una sorgente, viene conosciuto dalla conoscenza” (Rainer Maria Rilke). Dove è però la sorgente della mitologia? In noi? Soltanto in noi? Anche al di fuori, o soltanto al di fuori di noi? È questa sorgente che va cercata. Ne troveremo piú facilmente la via se partiremo da un altro aspetto della mitologia, da un suo aspetto che qui va esaminato piú diffusamente di quanto sia stato nei miei lavori precedenti.
Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. V, pagg. 129-130 social network social network: forma di analisi della struttura sociale che vede la società organizzata attraverso nodi, individui od organizzazioni e legami costituiti da valori di amicizia, scambio, visione, commercio, odio, condivisione, contrapposizione di idee. sognare anima daimon IL SOGNO DEL NEGRO SOFFERENTE
Sono all'aperto, in un cantiere stradale. Gli operai sono sporchi di sudore. Nel punto in cui si deve stendere il nastro di asfalto c'è un uomo di carnagione scura, avvolto in un pastrano. E' steso su una rete appoggiata sull'asfalto liquido, Fra i piedi tiene una pertica di ferro e la muove a leva su e giù, per fare attrito. E' così che si deve fare per stendere l'asfalto. E' così che deve fare lui. E' lui che lavora e gli altri operari sono intorno che lo guardano. Questa azione è terribilmente faticosa e vedo il suo sguardo carico di dolore. I suoi occhi (ah che occhi ! ...) parlano di una fatica intollerabile e di un carico di dolore che solo lui deve sopportare. Si ferma. Non ce la fa più. Lo tirano fuori, con il suo pastrano che lo copriva. Mi guarda e incrocio i suoi occhi che incarnano la sofferenza 4 marzo 2009
-------------------------------------------------------------------------------------- Connessioni intersoggettive di Baldo Lami: Questo sogno mi ha profondamente colpito.. dicevamo a proposito dell’angelo/daimon.. della tua/nostra precedente sottovalutazione.. e dell’essere cui il sogno appartiene e a cui così rispondo.. Ci sono lavori in corso di costruzione di una nuova strada.. un nuovo ennesimo canale, una nuova ennesima via di collegamento e di comunicazione vuol solcare la terra.. L’uomo nero col pastrano nero sta tirando l’asfalto.. o bitume della giudea.. Chi è?... Fatica e dolore intollerabili trasudano dai suoi occhi (“ah che occhi!” Paolo, li ho visti anch’io, me li hai fatti vedere).. è letteralmente stremato, sfinito, non ce la fa più.. ed ecco che.. il daimon si accascia!.. Certo, perché è lui, non ci sono dubbi.. perché è il daimon che fa tutto (come anche Gabriele ha sostanzialmente detto riportando il tema di un suo precedente scritto sul volontariato).. è lui che opera, l’operatore, il maestro e l’operaio.. per noi.. ma noi dove siamo? È per questo che la sua è opera di dolore.. ed è per questo che le strade che hanno fatto la grandiosa storia della civiltà dell’uomo sono strade di lacrime e sangue.. Ma ora tutto il costruibile è stato costruito, il lavoro più duro, più pesante, è stato fatto, tutte le vie tracciate.. nel bene e nel male. Adesso è giunto il momento, il tempo, dell’incontro con l’angelo.. ed è nell’incrocio dei vostri sguardi che è inscritto l’appuntamento.. per cui questo tempo che resta è il tempo dell’attesa dell’angelo.. il nuovo vero evento nella storia dell’uomo (se saprà coglierlo). SOGNI Il tempo, nei sogni, è inafferrabile, così mi suggerisce l'opera di María Zambrano, I sogni e il tempo. Convengo con lei. Nell'attività onirica ci sono infatti pezzi di eternità che si consumano in una frazione di secondo, e istantanee che restano sospese sull'intera notte. A volte mi sveglio, dopo aver sognato, e non c'è verso, non riesco più a ricomporre il fastello di immagini e rintocchi, mentre l'orologio con il tempo va per la sua strada: immutabile, piana, persino ovvia. Se voglio rientrare in sincronia con il tempo abituale devo costringermi a riaddormentarmi. Sempre sperando di non tornare a sognare. SOGNI Freud cercava nel sogno le tracce dei desideri che la cultura aveva rimosso; Jung invece vedeva nel sogno le anticipazioni di sviluppi futuri, che avrebbero potuto rinnovare il senso di una vita altrimenti destinata alla sterilità e alla paralisi. Per quel che mi riguarda, non discostandomi dalla via psicoanalitica, ritengo che il sogno circoscriva uno spazio ignoto e, se posso cercare una sintesi tra le due autorevoli tesi, noi stessi ci muoviamo nel sogno sospesi tra due ignoti: il passato mitico (e proibito) della libertà istintiva, e il futuro altrettanto mitico (e utopico) della pienezza di senso. Su quale delle due "rive" decidiamo di approdare credo che, paradossalmente, molto dipenda non non tanto dallo stato incosciente di sogno, ma assai di più da quello cosciente di veglia, di cui il precedente non è che il riflesso. SOGNI INCONSCIO Metti al lavoro il tuo inconscio. L'inconscio è specializzato nel trovare le soluzioni per i problemi più personali. Affidati a lui e concedi una tregua alla tua mente razionale. STORIA TEMPO POESIA La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. [...] La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell'orario. [...] La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C'è chi sopravvive. [...] La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Eugenio Montale, La Storia, in Satura TEMPO Natale 1926
Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemmeno vola: scivola, dilegua, scompare, come la rena che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita, e non lascia sul palmo che un senso spiacevole di vuoto. Ma, come della rena restano, nelle rughe della pelle, dei granellini sparsi, così anche del tempo che passa resta a noi la traccia
Antonia Pozzi tempo Mirari soleo cum video aliquos tempus petentes et eos qui rogantur facillimos; illud uterque spectat propter quod tempus petitum est, ipsum quidem neuter: quasi nihil petitur quasi nihil datur. Re omnium pretiosissima luditur; fallit autem illos, quia res incorporalis est, quia sub oculos non venit ideoque vilissima aestimatur, imno paene nullum eius pretium est. L. A. Seneca: De brevitate vitae 8-1
Mi meraviglio sempre quando vedo alcuni chiedere ad altri il loro tempo, e quelli sono più che disposti a concederlo. Nessuno dei due guarda al tempo in sé, ma solo al motivo per cui è stato richiesto: lo si chiede come fosse nulla e come nulla fosse lo si concede. Si scherza con la cosa più preziosa di tutte senza accorgersene, perché è immateriale e non cade sotto gli occhi; perciò se ne fa pochissimo conto, anzi non gli si dà alcun valore. TEMPO ...sine dilatione omne gaudium haurite: nihil de hodierna nocte promittitur. Nimis magnam advocationem dedi: nihil de hac hora. Festinandum est, instatur a tergo: iam disicietur iste comitatus, iam contubernia ista sublato clamore solventur...
L. Annei Senecae Ad Marciam, de consolatione, X, 4
[..assaporate senza indugio ogni gioia. Non ci è assicurata neppure la prossima notte, anzi, vi ho dato un termine troppo lungo: neppure l'ora presente. Bisogna affrettarsi, siamo incalzati alle spalle: questa compagnia sarà presto dispersa, questo gruppo sparirà tra un levarsi di grida...] TEMPO Come se il tempo non avesse direzione, sentirmi sommersa da un'infinita finitezza… TEMPO Attraversare il tempo. Un esercizio che ricorda la passeggiata dell'equilibrista su una corda. Un'esperienza che agli altri mortali può senz'altro provocare le vertigini e che Paolo Lagazzi affronta invece con cura e maestrìa in Vertigo, l'ansia moderna del tempo dove, in particolare, rende molto chiaro il meccanismo compositivo e narrativo di tre capolavori: Lord Jim di Conrad, La donna che visse due volte (Vertigo) di Hitchcock e Il commesso di Malamud. Tre meditazioni "sui modi di sentire, di vivere e di esprimere il tempo nella modernità", fino ad arrivare a una conclusione che faccio mia perché la perseguo da tempo:
Tutto ciò che dobbiamo imparare per salvare in noi la fede nel tempo è solo, forse, l'arte di attendere. TEMPO Il tempo è la cosa più importante: esso è un semplice pseudonimo della vita stessa
Antonio Gramsci TEMPO Pensavo al problema cruciale: e cioè alla nostra collocazione in quell'entità che abbiamo chiamato tempo (so che non è una novità, ne ho parlato così tanto). Ogni volta che apro un libro - di narrativa, di filosofia o di scienza - finisco irrimediabilmente per imbattermi in un capitolo, in un periodo, in una frase o anche solo in una parola che mi riporta a questa malattia mortale che ogni essere umano si porta addosso fin dalla nascita. Non possiamo agire che quando ci sentiamo portati e protetti dagli istanti. Quando ci abbandonano, siamo privi della molla imprescindibile per la produzione di un'azione, sia capitale sia comune. Così Cioran ne La caduta nel tempo. Ed è un buon corollario, non c'è che dire. In fondo è stata questa nostra propensione all'azione ad averci scaraventati giù per la china del tempo. Gli animali non umani non lo conoscono, o se - come asseriscono certi primatologi - lo intuiscono sommariamente, di sicuro non ne sono condizionati. L'uomo invece fa continuamente i conti con il tempo: con quello che non ha, con quello che gli resta e con quello che vorrebbe avere (magari per sprecarne ancora un po'). Ma il suo dare e avere, la sua partita doppia con il tempo è sempre inesorabilmente in perdita. Il tempo è una creatura che è sfuggita di mano al suo creatore. Ora è lui ad averci in pugno, e la sua stretta è forte, soffocante, micidiale. Implorare clemenza è inutile, fuggire impensabile. Non resta che attendere il nulla cui siamo destinati, cioè quell'unica entità (?) che non ha bisogno di spazio e quindi nemmeno di tempo. Nell'eterno di ciò che non sarà si romperà l'illusione di ciò che abbiamo creduto di poter diventare.
In: http://akatalepsia.blogspot.com/2008/01/610.html TEMPO “Perciò, invece di occuparci incessantemente ed esclusivamente di piani e di progetti per l’avvenire, o, viceversa, abbandonarci a rimpiangere il passato, dovremmo non dimenticar mai che il presente solo è reale e certo e, che l’avvenire, al contrario, si presenta quasi sempre ben diverso da quello che pensavamo, come pure fu del passato; ciò che in conclusione fa che avvenire e passato hanno molto minor importanza che non sembri.”
La saggezza della vita. Aforismi, di Arthur Schopenhauer TEMPO ciclo di vita “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Paul Nizan tempo presente Un violinista nella metro
Un uomo si mise a sedere in una stazione della metro a Washington DC ed iniziò a suonare il violino; era un freddo mattino di gennaio. Suonò sei pezzi di Bach per circa 45 minuti. Durante questo tempo, poiché era l'ora di punta, era stato calcolato che migliaia di persone sarebbero passate per la stazione, molte delle quali sulla strada per andare al lavoro. Passarono 3 minuti ed un uomo di mezza età notò che c'era un musicista che suonava. Rallentò il passo e si fermò per alcuni secondi e poi si affrettò per non essere in ritardo sulla tabella di marcia. Alcuni minuti dopo, il violinista ricevette il primo dollaro di mancia: una donna tirò il denaro nella cassettina e senza neanche fermarsi continuò a camminare. Pochi minuti dopo, qualcuno si appoggiò al muro per ascoltarlo, ma l'uomo guardò l'orologio e ricominciò a camminare. Quello che prestò maggior attenzione fu un bambino di 3 anni. Sua madre lo tirava, ma il ragazzino si fermò a guardare il violinista. Finalmente la madre lo tirò con decisione ed il bambino continuò a camminare girando la testa tutto il tempo. Questo comportamento fu ripetuto da diversi altri bambini. Tutti i genitori, senza eccezione, li forzarono a muoversi. Nei 45 minuti in cui il musicista suonò, solo 6 persone si fermarono e rimasero un momento. Circa 20 gli diedero dei soldi, ma continuarono a camminare normalmente. Raccolse 32 dollari. Quando finì di suonare e tornò il silenzio, nessuno se ne accorse. Nessuno applaudì, ne' ci fu alcun riconoscimento. Nessuno lo sapeva ma il violinista era Joshua Bell, uno dei più grandi musicisti al mondo. Suonò uno dei pezzi più complessi mai scritti, con un violino del valore di 3,5 milioni di dollari. Due giorni prima che suonasse nella metro, Joshua Bell fece il tutto esaurito al teatro di Boston e i posti costavano una media di 100 dollari. Questa è una storia vera. L'esecuzione di Joshua Bell in incognito nella stazione della metro fu organizzata dal quotidiano Washington Post come parte di un esperimento sociale sulla percezione, il gusto e le priorità delle persone. La domanda era: "In un ambiente comune ad un'ora inappropriata: percepiamo la bellezza? Ci fermiamo ad apprezzarla? Riconosciamo il talento in un contesto inaspettato?".
Ecco una domanda su cui riflettere mentre iniziamo un nuovo anno: "Se non abbiamo un momento per fermarci ed ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo suonare la miglior musica mai scritta, quante altre cose ci stiamo perdendo?". TEMPO PROGETTO POSSIBILITA' Ho dovuto abituarmi al possibile e perdere di vista il "progettabile". Se un progetto è una forma di ipoteca sul futuro, il possibile è la mia cassetta di sicurezza sul presente. Arricchisce e dilata ogni labile "adesso", lo accompagna come un basso continuo. Eppure l'indeterminata apertura di ogni possibile a volte mi paralizza non meno dello sguardo di Medusa, sarà per via di quella sovrabbondanza che è sempre "fatto" e mai "antefatto"; fatto che affianca e interseca ogni azione, fino a farla diventare storia. Personale quanto si vuole, ma sempre storia. Il possibile anziché fare da sfondo agli atti realmente compiuti, li soppianta; viene esso stesso in primo piano, fino ad occupare l'intero proscenio. Se non fosse così, l'informe presidierebbe la mia vita quotidiana fino a conferirle una tonalità che non mi periterei a definire "preistorica". Convivere con il possibile esige da parte mia un duplice requisito. Per un verso, occorre che io sappia che l'azione in corso non realizza mai la potenza che la origina (in questo modo non chiudo la porta a possibili alternative). Per altro verso, devo riconoscere che il possibile si dà a vedere solo a partire da una mia azione specifica e circoscritta, che è frutto di un "presente in bilico" che si è fatto passato, ma che non per questo è meno immanente.
Nella cassetta di sicurezza del possibile ho messo quanto di me ho potuto salvare, e nel farlo ho rovistato tra le macerie proprio come si fa dopo una catastrofe tellurica. Sono soddisfatta di quanto ho salvato e non mi dispero per tutto quello che è andato perduto. Per sempre. Mi è servito per capire che la vita va avanti per sottrazioni. Le altre tre operazioni non rientrano nella sfera del possibile, e quindi non le frequento più. E così sia. trasformazione della terza età La nostra vita è un continuo susseguirsi di cambiamenti, giorno dopo giorno, e perfino ora dopo ora, le cellule del nostro corpo si trasformano. Per quanto possiamo affannarci per cercare di mantenere le cose come stanno, programmando noi stessi i modo da conservare lo status quo, nella nostra psiche sono sempre in atto dei mutamenti. Talvolta si tratta di cambiamenti talmente sottili e graduali che facciamo fatica ad accorgercene. Altre volte, invece, essi esplodono nella nostra vita con una tale violenza che non possiamo ignorarli. In genere tendiamo a dare er scontati tutti i cambiamenti impercettibili e sottili, ma anche uesti possono alterare il nostro equilibrio, provocando dolore e senso di smarrimento. Ogni nuova integrazione è necessariamente preceduta da un processo di disintegrazione: perché il tutto si ricomponga in un nuovo ordine occorre che il vecchio ordine venga sconvolto. Uno dei cambiamenti più importanti che si verificano nella nostra vita sta cominciando solo da poco a essere oggetto di menzione. Negli anni compresi fra la mezza età e la vecchiaia, i quel periodo della vita in cui non si è più nel fiore degli anni la neppure ancora davvero vecchi, la maggior parte di noi subisce un processo di transizione. Corpo ed anima indugiano alla soglia della vecchiaia. Fra i cinquanta e i settant'anni siamo chiamati ad affrontare una profonda trasformazione. La vita cambia radicalmente e lo stesso succede a noi, al nostro srpo, alla nostra psiche, alla nostra mente e al nostro spirito, questo, anche se è augurabile, è proprio ciò che ci fa paura. …. Le persone che appartengono a questa fascia d'età non sono né di mezza età né vecchie. Sono un gruppo a sé stante. Ma, nonostante ciò, ben poco è stato scritto specificamente per loro o di loro. Al giorno d'oggi, nel mondo occidentale, la durata della vita è in aumento e, man mano che la vita si allunga, cresce l'esigenza di una maggiore saggezza che possa aiutare le persone anziane ad apprezzare, invece di rifiutarle, i cedimenti fisici e psicologici che precedono una fioritura tardiva. I colpi che questo periodo infligge e gli adattamenti che richiede possono annientare. Non è solo la nostra percezione cosciente e abituale di noi stessi, modellatasi nel corso di una vita intera, a essere messa a dura prova, ma anche la psiche e il soma, e spesso in modi che possono rivelarsi estremamente dolorosi. Non siamo sicuri che ci faccia piacere, ma, che ci piaccia o no, siamo in una fase di transizione. La nostra vita sta cambiando, ma nessuno ci dice come porci rispetto a tali cambiamenti. Cerchiamo risposte, ma troviamo scarse informazioni. Come dice un'analista ottantenne, Jane Wheelwright, le persone anziane possono chiedersi "dove sono le linee-guida per noi come individui?" e scoprire che non esistono. … Noi che viviamo ora gli anni che conducono alla vecchiaia, siamo gli esploratori di una fase della vita che è ormai diversa da come l'avevano vissuta le generazioni che ci hanno preceduto. Gli anni che conducono alla vecchiaia rappresentano oggi una nuova sfida e, come molte sfide, portano con sé lo stress della scomparsa dei percorsi che ci erano familiari. Passare attraverso i cambiamenti di questa fase della vita può essere entusiasmante e faticoso come per qualsiasi altro viaggio. Quelli di noi che stanno avvicinandosi ora alla vecchiaia sono dei pionieri e si spera che possano tracciare un sentiero per tutti coloro che li seguiranno.
In Jane R. Prétat, La terza donna. Gli anni d'oro della trasformazione della terza età (Coming to age. The croning Years and Late-Life Transormation, 1994), Zephyro Edizioni, Milano 2000 vecchiaia Per cui un vecchio come me si alza dalla sua sedia senza vacillare e si guarda d'intorno. E s'accorge, senza averne spavento, che il tempo scivola come rena, e che il nuovo è tutto da venire ancora tutto da venire: e sente dire in sé sommessamente, dalla vita: siamo parte dell'humus che prepara il futuro, noi che ce ne andiamo.
Carlo Betocchi , Prime e ultimissime, ed. Mondadori, 1974 VENEZIA Strofe veneziane, 2, VIII ... Scrivo questi versi, seduto all'aperto su una sedia bianca, d'inverno, con la sola giacca addosso, dopo molti bicchieri, allargando gli zigomi con frasi in madrelingua. Nella tazza si raffredda il caffe. Sciaborda la laguna, punendo con cento minimi sprazzi la torbida pupilla con l'ansia di fissare nel ricordo questo paesaggio, capace di fare a meno di me.
1982
Josif Brodskij, Poesie italiane. Milano, Adelphi, 1996. Traduzione di Giovanni Buttafava. VERITA' La verita' - piccola dissertazione filosofica La verita' (che viene dal greco eletheya = svelamento) distingue fra le cose reali e le cose che si assomigliano ma sono finte. E' una distinzione importante, oserei dire fondamentale nella nostra vita. Per affermare che qualcosa e' vero non usiamo semplici parole, ma frasi. Con le frasi noi facciamo delle asserzioni, cioe' diciamo veramente come stanno le cose. La verita' dunque ha a che fare solo con le asserzioni , e non con le domande, i comandi, le esortazioni o le preghiere. Quando diciamo la parola vero noi usiamo le nostre frasi (i nostri enunciati) come vere e proprie asserzioni; dichiariamo che qualcosa e' vero. Siamo sostenuti in questo dalla fiducia, dalla logica e dal fatto (importante) che nella nostra vita "dobbiamo ragionare e spesso". Quando abbiamo a che fare con la verita', con le mille verita' che ci accompagnano, abbiamo a che fare con un bel po' di ragioni e giustificazioni. A costo di sembrare noioso e ripetitivo ribadisco che la verita' e' una cosa molto importante e che va presa sul serio. Non va lasciata a chi non merita la nostra fiducia. La verita' ci deve guidare quando cerchiamo di orientarci in questo difficile mondo e non e' solo una faccenda di parole, ma una faccenda di cose. Se qualcosa e' vero non lo e' solo per noi e' vero per chiunque. La verita' e' il modo giusto (ma non il piu' facile lo riconosco) di rapportarci con gli altri, con il singolo, di coordinarci con il mondo intero. Per farmi perdonare questo "post semi-filosofico" e raffreddare le mie povere cellule cerebrali in fiamme vi dedico, cari bloggers una poesia di Alfonso Gatto che si intitola "Chissa'" e che ha qualche attinenza con questo post.
Una palla e' una palla e non sara' mai quadra. Chi sa se la farfalla sa d'essere farfalla. E la gazza ladra? Chissa' se il mare ha paura dell'onda, chissa' se il vento a furia di chiamare quando nessuno risponde si vede solo e nero come un cimitero. Chissa' se le stelle son belle come dicono tutti, se in mezzo ai flutti o in mezzo alle procelle la barca si sente tremare tutta sola col mare. Chissa' se poi il mondo sapra' di stare sospeso nel cielo senza un filo, senza un gancio nel suo colore d'arancio, strinato e soffuso come un velo di nuvole azzurre e lilla'. Io credo che non lo sa. (da "Il vaporetto" di Alfonso gatto, Mondadori - Milano 2001) Spunto per questo post : "Il giardino delle idee" di Salvatore Veca - Ed.Frassinelli
http://duevite.splinder.com/post/12402871/La+verita%27+-+piccola+dissertazione+filosofica VIAGGI BORGHI Non sarà certo lo scriba che scoprirà che la Toscana è terra di tesori. Ma quello che sorprende è la capacità di questa terra di reinventarsi, scoprirsi e riscoprirsi con evenienze sempre stupefacenti, che metà farebbero la gioia di una mezza nazione. Allora ecco inciampare tra le pur famose San Miniato e San Gimignano in questa inattingibile Montaione, paesello conficcato sulla cima di una collina pressochè isolata. E, certo, con la sua cinta di mura intatta e superfetata nei regolari accidenti edilizi di mille anni di costruzioni in aderenza, con la sua ricerca di una spina nobile nell'Alto Medioevo, con il suo bel palazzo in pietra e laterizio, ora divenuto uno splendido hotel. Certo, in Toscana: millanta che tutta notte canta ve ne sono, e meglio e peggio, ma qui è Montaione, e se lo chiedi al tuo vicino di banco non saprà nemmeno dove. Eppure annesso all'hotel si è deciso di rinverdire questo ristorante con una gestione professionale, un Maitre appassionato e generoso, gran conoscitore di territorii, e uno chef attento e volonteroso. L' ambiente è gradevole, i tavoli distanti. Avrai perciò ottimo pane fatto in casa e una eccellente focaccia per degustare olii d'oliva importanti, una piccola, bella carta di Toscani non certo banali, e un menù che varia sulla stagione. Potrai spaziare in ricchi antipasti, ma non perderti la pasta fresca, fatta al momento, con il gustoso ragù d'anatra, i tagliolini al tartufo, la tagliata ben frollata (e che il fatidico scriba avrebbe visto cotta un mezzo minuto di meno) ed altro dal territorio, elevato da un'attenzione encomiabile. Spazi per il miglioramento e tanta passione. All'addizione avrete un 25/40 secondo gli stomaci, ma sarete coccolati e viziati. E non è male. VIAGGIO CASA Itaca
Se per Itaca volgi il tuo viaggio, fa’ voti che ti sia lunga la via, e colma di vicende e conoscenze. Non temere i Lestrígoni e i Ciclopi o Posidone incollerito: mai troverai tali mostri sulla via, se resta il tuo pensiero alto, e squisita è l’emozione che ti tocca il cuore e il corpo. Né Lestrígoni o Ciclopi né Posidone asprigno incontrerai, se non li rechi dentro, nel tuo cuore, se non li drizza il cuore innanzi a te.
Fa’ voti che ti sia lunga la via. E siano tanti i mattini d’estate che ti vedano entrare (e con che gioia allegra!) in porti sconosciuti prima. Fa’ scalo negli empori dei Fenici per acquistare bella mercanzia, madrepore e coralli, ebani e ambre, voluttuosi aromi d’ogni sorta, quanti piú puoi voluttuosi aromi. Rècati in molte città d’Egitto, a imparare imparare dai sapienti.
Itaca tieni sempre nella mente. La tua sorte ti segna quell’approdo. Ma non precipitare il tuo viaggio. Meglio che duri molti anni, che vecchio tu finalmente attracchi all’isoletta, ricco di quanto guadagnasti in via, senza aspettare che ti dia ricchezze.
Itaca t’ha donato il bel viaggio. Senza di lei non ti mettevi in via. Nulla ha da darti piú.
E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso. Reduce cosí saggio, cosí esperto, avrai capito che vuol dire un’Itaca.
Costantino Kavafis
postata da: http://nonsequitur.splinder.com/post/12948112 vita morte bellezza natura libido Caducità di Sigmund Freud
Non molto tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso e di un poeta già famoso nonostante la sua giovane età, feci una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato o potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato.
Da un simile precipitare nella transitorietà di tutto ciò che è bello e perfetto sappiamo che possono derivare due diversi moti dell’animo. L’uno porta al tedio universale del giovane poeta, l’altro alla rivolta contro il presunto dato di fatto.
No! è impossibile che tutte queste meraviglie della natura e dell’arte, che le delizie della nostra sensibilità e del mondo esterno debbano veramente finire nel nulla. Crederlo sarebbe troppo insensato e troppo nefando. In un modo o nell’altro devono riuscire a perdurare, sottraendosi a ogni forza distruttiva.
Ma questa esigenza di eternità è troppo chiaramente un risultato del nostro desiderio per poter pretendere a un valore di realtà: ciò che è doloroso può pur essere vero. Io non sapevo decidermi a contestare la caducità del tutto e nemmeno a strappare un’eccezione per ciò che è bello e perfetto. Contestai però al poeta pessimista che la caducità del bello implichi un suo svilimento.
Al contrario, ne aumenta il valore! Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio. Era incomprensibile, dissi, che il pensiero della caducità del bello dovesse turbare la nostra gioia al riguardo. Quanto alla bellezza della natura, essa ritorna, dopo la distruzione dell’inverno, nell’anno nuovo, e questo ritorno, in rapporto alla durata della nostra vita, lo si può dire un ritorno eterno. Nel corso della nostra esistenza vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un fiore fiorisce una sola notte, non per ciò la sua fioritura ci appare meno splendida. E così pure non riuscivo a vedere come la bellezza e la perfezione dell’opera d’arte o della creazione intellettuale dovessero essere svilite dalla loro limitazione temporale. Potrà venire un tempo in cui i quadri e le statue che oggi ammiriamo saranno caduti in pezzi, o una razza umana dopo di noi che non comprenderà più le opere dei nostri poeti e dei nostri pensatori, o addirittura un’epoca geologica in cui ogni forma di vita sulla terra sarà scomparsa: il valore di tutta questa bellezza e perfezione è determinato soltanto dal suo significato per la nostra sensibilità viva, non ha bisogno di sopravviverle e per questo è indipendente dalla durata temporale assoluta.
Mi pareva che queste considerazioni fossero incontestabili, ma mi accorsi che non avevo fatto alcuna impressione né sul poeta né sull’amico. Questo insuccesso mi portò a ritenere che un forte fattore affettivo intervenisse a turbare il loro giudizio; e più tardi credetti di aver individuato questo fattore. Doveva essere stata la ribellione psichica contro il lutto a svilire ai loro occhi il godimento del bello. L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la sua fine; e, poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità.
Il lutto per la perdita di qualcosa che abbiamo amato o ammirato sembra talmente naturale che il profano non esita a dichiararlo ovvio. Per lo psicologo invece il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare ma ai quali si riconducono altre cose oscure. Noi reputiamo di possedere una certa quantità di capacità di amare che chiamiamo libido la quale agli inizi del nostro sviluppo è rivolta al nostro stesso Io. In seguito, ma in realtà molto presto, la libido si distoglie dall’Io per dirigersi sugli oggetti, che noi in tal modo accogliamo per così dire nel nostro Io. Se gli oggetti sono distrutti o vanno perduti per noi, la nostra capacità di amare (la libido) torna ad essere libera. Può prendersi altri oggetti come sostituti o tornare provvisoriamente all’Io. Ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per noi un mistero sul quale per il momento non siamo in grado di formulare alcuna ipotesi. Noi vediamo unicamente che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo è dunque il lutto.
La mia conversazione col poeta era avvenuta nell’estate prima della guerra. Un anno dopo la guerra scoppiò e depredò il mondo delle sue bellezze. E non distrusse soltanto la bellezza dei luoghi in cui passò e le opere d’arte che incontrò sul suo cammino; infranse anche il nostro orgoglio per le conquiste della nostra civiltà, il nostro rispetto per moltissimi pensatori ed artisti, le nostre speranze in un definitivo superamento delle differenze tra popoli e razze. Insozzò la sublime imparzialità della nostra scienza, mise brutalmente a nudo la nostra vita pulsionale, scatenò gli spiriti malvagi che albergano in noi e che credevamo di aver debellato per sempre, grazie all’educazione che i nostri spiriti più eletti ci hanno impartito nel corso dei secoli. Rifece piccola la nostra patria e di nuovo lontano e remoto il resto della terra. Ci depredò di tante cose che avevamo amate e ci mostrò quanto siano effimere molte altre cose che consideravamo durevoli.
Non c’è da stupire se la nostra libido, così impoverita di oggetti, ha investito con intensità tanto maggiore ciò che ci è rimasto; se l’amor di patria, la tenera sollecitudine per il nostro prossimo e la fierezza per ciò che ci accomuna sono diventati d’improvviso più forti. Ma quali altri beni, ora perduti, hanno perso davvero per noi il loro valore, perché si sono dimostrati così precari e incapaci di resistere? A molti di noi sembra così, ma anche qui, ritengo, a torto. Io credo che coloro che la pensano così e sembrano preparati a una rinuncia definitiva perché ciò che è prezioso si è dimostrato perituro, si trovano soltanto in uno stato di lutto per ciò che hanno perduto. Noi sappiamo che il lutto, per doloroso che sia, si estingue spontaneamente. Se ha rinunciato a tutto ciò che è perduto, ciò significa che esso stesso si è consunto e allora la nostra libido è di nuovo libera (nella misura in cui siamo ancora giovani e vitali) di rimpiazzare gli oggetti perduti con nuovi oggetti, se possibile altrettanto o più preziosi ancora. C’è da sperare che le cose non vadano diversamente per le perdite provocate da questa guerra. Una volta superato il lutto si scoprità che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non hanno sofferto per l’esperienza della loro precarietà. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima.
1915
(da SIGMUND FREUD, Opere. 1915-1917 Volume 8°, BORINGHIERI 1976) VITA MORTE POLITICA Perché Berlusconi è arrivato fino a questo punto, rompendo deliberatamente quello sforzo di armonia istituzionale che pure aveva sempre ricercato col Quirinale, e proprio su un tema - quello della bioetica - su cui fino a ieri aveva esibito un prudente e accorto disinteresse? C'è chi dice che gliel'abbia ordinato il Vaticano. Non è vero. Il Vaticano non crede ai suoi occhi, non se l'aspettava, anche se ne è felice e critica Napolitano. C'è chi dice che Berlusconi l'abbia fatto perché ha dei sondaggi. Troppo banale; e poi i sondaggi - finora - non sembravano così schierati contro Beppino Englaro. C'è chi dice che l'abbia fatto per buttare giù Napolitano dal Colle e salirci lui. Troppo impolitico, non è nel pieno di una guerra civile istituzionale che Berlusconi potrà mai arrivare al Quirinale. C'è chi dice - lo dicono molti ministri del suo governo - che l'ha fatto per convinzione. Si è convinto cioè che Eluana è viva e che tocca a lui salvarla dal padre.
Ma non credo che il premier abbia aperto una guerra termonucleare nelle istituzioni senza valutarne le conseguenze. Anzi, secondo me l'ha aperta proprio per provocare delle conseguenze. Credo che Berlusconi si sia convinto che l'abito istituzionale attuale gli stia così stretto che può soffocarlo. Dunque vuole cambiare le norme che non gli consentono di comandare. Il presidenzialismo di fatto che lui ha in testa fin dal suo esordio in politica, si scontra col parlamentarismo del sistema attuale. La vicenda di Eluana, così terribile nel suo simbolismo, così eccezionale perché si intreccia su una vita umana, gli è forse sembrata valere uno strappo che su un'altra materia più prosaica non avrebbe potuto rischiare.
07-02-2009 "La prima prova del presidenzialismo alla Berlusconi " di Antonio Polito da "Il Riformista", VITA MORTE POLITICA si possono cogliere almeno tre impressioni fondamentali: la volontà della Chiesa cattolica, meglio del Vaticano, di dimostrare la forza del suo potere sulla classe politica italiana; la mossa irrituale, comprensibile ma forse sbagliata nella valutazione delle conseguenze, da parte del presidente Napolitano, quando ha spedito la lettera con il preventivo «no» al decreto; il pugno di Berlusconi, con un duplice obbiettivo, di mettere in difficoltà il Presidente della Repubblica e di dimostrare la necessità di una riforma costituzionale che rafforzi i poteri del premier.
Questo corrisponde alla prevalenza, ormai evidente nel pontificato di Benedetto XVI, degli aspetti teologici su quelli diplomatici. Un carattere che tende a sottovalutare il ruolo anche di capo di Stato che il Pontefice riveste e, quindi, delle pesanti conseguenze che certe parole e certe accuse possono avere sul rapporto tra Vaticano e presidente di uno Stato laico.
Nella partita a scacchi tra organi dello Stato che si è svolta ieri resta da notare la determinazione del presidente del Consiglio nell’imboccare consapevolmente la via dello scontro col Quirinale. Non tanto e non solo per piegarsi alle volontà del Vaticano, assumendo il ruolo di difensore della fede e della morale cattolica nella politica italiana, in una versione confessionale dell’eredità democristiana. Quanto per assestare, in modo clamoroso, un colpo al prestigio e al ruolo del Capo dello Stato e a chi, come Fini, ne segue troppo pedissequamente i consigli.
LUIGI LA SPINA Lo strapotere della Chiesa lo scivolone del Quirinale il pugno del Cavaliere La Stampa 7 febbraio 2009 vita vivere Sento un gran parlare di vita e di come promuoverla, valorizzarla e difenderla "fino dal concepimento", e allora ripenso al genio di Robert Louis Stevenson che fa dire a James Durie, protagonista del suo bellissimo romanzo The Master of Ballantrae, le seguenti parole:
"La vita in sé non vale niente, mentre conta moltissimo il vivere."
in http://akatalepsia.blogspot.com/2008/06/754.html vivere SINCERITA' CORDOGLIO È sincero il dolore di chi piange in segreto vivere ANIMALI Mangiare carne è digerire le agonie di altri esseri viventi. vivere biografia NEL diciottesimo secolo visse in Francia un uomo, tra le figure più geniali e scellerate di quell'epoca non povera di geniali e scellerate figure. Qui sarà raccontata la sua storia. Si chiamava Jean-Baptiste Grenouille, e se il suo nome, contrariamente al nome di altri mostri geniali quali de Sade, Saint-Just, Fouché, Bonaparte ecc., oggi è caduto nell'oblio, non è certo perché Grenouille stesse indietro a questi più noti figli delle tenebre per spavalderia, disprezzo degli altri, immoralità, empietà insomma, bensì perché il suo genio e unica ambizione rimase in un territorio che nella storia non lascia traccia: nel fugace regno degli odori. Al tempo di cui parliamo, nella città regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le strade puzza-vano di letame, i cortili interni di orina, le trombe delle scale di legno marcio e di stereo di ratti, le cucine di cavolo andato a male e di grasso di montone; le stanze non aerate puzzavano di polvere stantia, le camere da letto di lenzuola bisunte, dell'umido dei piumini e dell'odore pungente e dolciastro di vasi da notte. Dai camini veniva puzzo di zolfo, dalle concerie veniva il puzzo di solventi, dai macelli puzzo di sangue rappreso. La gente puzzava di sudore e di vestiti non lavati; dalle bocche veniva un puzzo di denti guasti, dagli stornaci un puzzo di cipolla e dai corpi, quando non erano più tanto giovani, veniva un puzzo di formaggio vecchio e latte acido e malattie tumorali. Puzzavano i fiumi, puzzavano le piazze, puzzavano le chiese, c'era puzzo sotto i ponti e nei palazzi. Il contadino puzzava come il prete, l'apprendista come la moglie del maestro, puzzava tutta la nobiltà, perfino il re puzzava, puzzava come un animale feroce, e la regina come una vecchia capra, sia d'estate sia d'inverno. Infatti nel diciottesimo secolo non era stato ancora posto alcun limite all'azione disgregante dei batteri, e così non v'era attività umana, sia costruttiva sia distruttiva, o manifestazione di vita in ascesa o in declino, che non fosse accompagnata dal puzzo vivere biografia Sono nato il quattro gennaio 1951, nella prima settimana del primo mese del primo anno della seconda metà del ventesimo secolo. Lo si potrebbe quasi considerare un evento da commemorare ed è per questo che i miei genitori mi hanno chiamato Hajime che significa “inizio”. vivere biografia Si sentirono attratti da quel piccolo uomo angelico. Un turbine di passione emanava da lui, un flusso trascinante, al quale nessuno riusciva a opporsi — tanto più che nessuno avrebbe voluto opporvisi — poiché era quello stesso a smuovere la volontà e a sospingerla verso quell'uomo. Avevano formato un cerchio attorno a lui, venti, trenta persone, e questo cerchio si strìngeva sempre più. Presto il cerchio non riuscì più a contenerle tutte, ed esse cominciarono a premere, a spingere e a incalzare, ognuno voleva essere più vicino al centro. E poi d'un tratto crollò in loro l'ultima inibizione, il cerchio si sfasciò. Si precipitarono su quell'angelo, si avventarono su di lui, lo gettarono a terra. Ognuno voleva, toccarlo, ognuno voleva una parte di lui, una piccola piuma, un'ala, una scintilla della sua fiamma meravigliosa. Gli strapparono dal corpo i vestiti, i capelli, la pelle, lo fecero a brandelli, affondarono unghie e denti nella sua carne, gli si buttarono addosso come iene. Ma il corpo di un uomo è tenace, e non si lascia squartare così facilmente, persine per i cavalli costituisce un'enorme fatica. E così, presto lampeggiarono i pugnali, e affondarono nella carne e la squarciarono, e asce e lame robuste si abbatterono sibilando sulle sue giunture, gli schiantarono le ossa. In brevissimo tempo l'angelo fu smembrato in trenta parti, e ogni membro delk masnada ne afferrò avidamente un pezzo, si tirò indietro in preda a una brama voluttuosa, e lo divorò. Dopo mezz'ora anche la più piccola fibra di Jean-Baptiste Grenouille era sparita dalla terra. Quando i cannibali alla fine del pasto si ritrovarono insieme accanto al fuoco, nessuno disse una parola. Di tanto in tanto qualcuno ruttava leggermente, sputava un ossicino, faceva schioccare pian piano la lingua, spingeva col piede un residuo della giacca blu tra le fiamme: tutti provavano un lieve imbarazzo e non osavano guardarsi. Ognuno di loro, uomo o donna, aveva già commesso una volta un delitto o qualche altro crimine abietto. Ma divorare un uomo intero? Mai e poi mai avrebbero pensato di poter compiere un gesto tanto orribile. E tuttavia si meravigliavano di come fosse stato facile per loro, e di non avvertite neppure un'ombra di rimorso, pur con tutto l'imbarazzo. Al contrario! Nonostante lo stomaco fosse pesante, il cuore era straordinariamente leggero. Nelle loro anime tenebrose si agitava d'un tratto un'ombra di gaiezza. £ sui loro volti aleggiava un tenero, timido barlume di felicità. Per questo forse avevano timore di alzare lo sguardo e di guardarsi negli occhi. Quando poi trovarono il coraggio di farlo, dapprima con circospczione e in seguito senza più riserve, dovettero sorridere. Erano straordinariamente fieri. Per la prima volta avevano compiuto un gesto d'amore. vivere bisogni la mancanza di qualcosa che si desidera è una parte indispensabile della felicità vivere buio Herman Hesse, Nella nebbia -----------------------------------------
E' strano vagare nella nebbia!
Solo è ogni cespuglio e pietra,
Nessun albero vede l'altro,
Ognuno è solo.
Pieno di amici era per me il mondo,
Quando la mia vita era ancora luminosa;
Adesso, che la nebbia cala,
Nessuno si vede più.
In verità, nessuno è saggio
Se non conosce il buio,
Che piano ed inesorabilmente
Da tutti lo separa.
Strano, vagare nella nebbia!
Vivere è essere soli .
Nessuno uomo conosce l'altro,
Ognuno è solo.
di Guglielmo, in http://ineziessenziali.blogspot.com/2008/06/meme-poeticotre.html vivere ciclo di vita E' diverso. Quando si chiudeva un ciclo della mia vita se ne apriva un altro, spesso più complesso, comunque attivo.
Adesso, a novanta anni, perdo la vista, non leggo quasi più, sto malamente in piedi da solo, peso tutto su Sesa. Il nuovo secolo potrebbe presentarsi poco attraente. Ma non posso cedere alla tentazione di guardare il soffitto e lasciarmi vivere finché dura. Quando si è vissuti cosi a lungo e cosi bene non si può abbandonare. Devo darmi un progetto. (1999) vivere ciclo di vita Fino a poco tempo fa si moriva molto presto e si raggiungeva la fama in giovanissima età. Il potere non era in mano ai vecchi, bensì ai giovani. Nel nostro secolo sono invece al potere uomini tra i 70 e i 90. I nostri giovani, se gli va bene, arrivano al potere all'età in cui imperatori, pensatori, artisti e santi del passato erano già morti... Mundus senescit, dicevano gli antichi, e morivano a 40 anni.' Oggi i mass media ricordano a tutti, vegliardi compresi, quanto è bella giovinezza, e i giovani incominciano ad apprezzare la loro lunga attesa. Juventus senescit. vivere ciclo di vita l'uomo raggiunge novizio la soglia d'ogni età della vita vivere ciclo di vita Nell'ambito della guerra civile americana Rossella O'Hara sposa tre uomini amandone per quasi tutta la vita un quarto. Quando si accorge che era tutto un abbaglio, forse è troppo tardi. Si tratta del film più famoso e più visto di tutti i tempi. E tutto un record: il numero di settimane di lavorazione, l'investimento, la cura dei particolari, il prezzo pagato per i diritti del romanzo di Margaret Mitchell, la ricerca della protagonista, che coinvolse tutte le grandi dive di Hollywood. Presentato nel dicembre del '3 9 ad Atlanta, il film mantiene, a tanti anni di distanza, tutta la sua credibilità. Per la sua natura e per la filosofia di produzione, Via col vento non ha mai avuto il consenso della critica, tuttavia nell'insieme dei valori e dei sentimenti, alla fine, non c'è un altro film che lo equivalga.
Rossella ha cercato di riconquistare Rhett, che però non è caduto nella rete, se n'è andato tristissimo e deluso. Rossella parla alla propria coscienza. Farà di tutto per ritrovare l'amore del marito. E sicura che ce la farà.
ROSSELLA: Tara, a casa, a casa mia, e troverò un modo per riconquistarlo. Dopotutto, domani è un altro giorno!
(tratto da: Daniela Farinotti, Domani è un altro giorno: sessanta finali di sessanta film leggendari …, La Tartaruga Edizioni, Milano 1995) vivere ciclo di vita Sono davanti all'edificio del collegio. Due donne siedono su una panchina. Le salutai con un cenno del capo. Non risposero. Aprii la porta. Una donna seduta a un tavolo. Un'altra in piedi. Mi domanda cosa voglio. Chiesi del collegio. Scandii il nome. Non l'ha mai sentito. Qui a Teufen, sind Sie sicher? Mi guarda con occhi indagatori e malevoli. Certo, ero sicura. Vi avevo vissuto. Per un momento la mia risposta mi parve futile. Mi consiglia di andare a St. Gallen. Là ci sono molte scuole. Ripetei ancora il nome del collegio. Mi sbagliavo, disse. Mi scusai. Questa, disse, è una cllnica per ciechi. Adesso è così. Una cllnica per ciechi. vivere ciclo di vita Ho aperto gli occhi.
La gamba mi faceva male. Non era la gamba di prima. L'altra. Il dolore era una pianta rampicante. Un filo spinato che si attorciglia alle budella. Una cosa travolgente. Rossa. Una diga che si è rotta. Niente può arginare una diga che si è rotta. Un rombo montava. Un rombo metallico che cresceva e copriva tutto. Mi pulsava nelle orecchie. Ero bagnato. Mi sono toccato la gamba. Una cosa densa e calda mi impiastricciava tutto. Non voglio morire. Non voglio. Ho aperto gli occhi. Ero in un vortice di paglia e luci. C'era un elicottero. E c'era papa. Mi teneva tra le braccia. Mi parlava ma non sentivo. I capelli gli brillavano mossi dal vento. Luci mi accecavano. Dalle tenebre spuntavano esseri neri e cani. Venivano verso di noi. I signori della collina. Papa, stanno arrivando. Scappa. Scappa. Sotto il rombo il cuore mi marciava nel petto. Ho vomitato. Ho aperto gli occhi di nuovo. Papa piangeva. Mi carezzava. Le mani rosse. Una figura scura si è avvicinata. Papa lo ha guardato. Papa, devi scappare. Nel rombo papa ha detto: - Non l'ho riconosciuto. Aiutatemi, vi prego, è mio figlio. E ferito. Non l'ho... Ora era di nuovo buio. E c'era papa. E c'ero io. vivere ciclo di vita Siamo tutti dilettanti. La vita è così breve che non consente di meglio vivere complessità ... La vita, e le circostanze stesse, sono un po' più complicate di quanto non si dica. C'è una pressante necessità di mostrare questa complessità..." vivere comunità Nel nostro mondo sempre più globalizzato viviamo tutti in una condizione di interdipendenza e, di conseguenza, nessuno di noi può essere padrone del proprio destino. Ci sono compiti con cui ogni singolo individuo si confronta, ma che non possono essere affrontati e superati individualmente. Tutto ciò che ci separa e ci istiga a mantenere le distanze dagli altri, a tracciare confini ed erigere barricate, rende sempre più ardua la gestione di tali compiti. Tutti noi abbiamo la necessità di acquisire il controllo sulle condizioni nelle quali affrontiamo le sfide della vita, ma per la gran parte di noi tale controllo può essere ottenuto solo collettivamente. Proprio qui, nell'espletamento di tali compiti, l'assenza di comunità è maggiormente avvertita e sofferta, ma sempre qui, una volta tanto, la comunità ha l'occasione di smettere di essere assente. Se mai può esistere una comunità nel mondo degli individui, può essere (ed è necessario che sia) soltanto una comunità intessuta di comune e reciproco interesse; una comunità responsabile, volta a garantire il pari diritto di essere considerati esseri umani e la pari capacità di agire in base a tale diritto. vivere convivialità "Se dovessi apporre una figura di "congedo" a questa trattazione, sarebbe un richiamo alla vita monastica conventuale (san Benedetto per esempio). Il timing monastico è serrato, a un tempo nell'arco dell'anno [...] e nel ciclo delle ventiquattro ore: mattutino al primo albeggiare, lodi, al levar del sole; vespri: alla fine del giorno; compieta: entrando nella notte. L'idea di compieta: bella. La comunità si arma di coraggio per affrontare la notte (bisogna pensare a una campagna remota, senza luci, ove il cadere della notte è veramente minaccia di totale oscurità)? il "Vivere-insieme", anche solo, forse, per affrontare insieme la tristezza della sera. Essere estranei, è inevitabile, necessario, ma non quando si fa sera"
I "riti di comunione", la "convivialità come incontro" secondo Roland Barthes, Cours et séminaires au Collège de France, 1976--'78: vivere famiglie Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo vivere famiglie Erano seduti nel soggiorno che ambedue detestavano e tuttavia in un certo senso amavano, e non avevano proprio niente da fare. Erano sposati, avevano messo al mondo due bambini, prima il maschietto e poi la bambina, e ora finalmente i bambini dormivano, o perlomeno erano a letto. vivere famiglie Eravamo già in quattro quando una notte d'estate insolitamente fredda nacque Ida. Grazie alla luna quasi piena, alle due era ancora così chiaro che potevamo contarci le lentiggini sul naso. Avevamo deciso di restare svegli fino a quando avremmo sentito il suo primo grido. Ci eravamo portati palatine e Coca nella nostra stanza nel sottotetto e avevamo indossato i nostri pigiami di flanella più caldi. vivere famiglie divorzio la causa principale dei divorzi è il matrimonio vivere famiglie familismo amorale "I familiari fanno cerchio perché Cogne insegna. I membri della famiglia e i vicini di casa hanno una capacità sorprendente di ignorare o fingere di ignorare che cosa accade davanti ai loro occhi, come spesso succede con gli abusi sessuali, la violenza, l'alcolismo, la follia o la semplice infelicità. Esiste un livello sotterraneo dove tutti sanno quello che sta succedendo, ma in superficie si mantiene un atteggiamento di assoluta normalità, quasi una regola di gruppo che impegna tutti a negare ciò che esiste e si percepisce. Siamo al diniego che è il primo adattamento della famiglia alla devastazione causata da un membro, sia esso alcolista, o drogato, o pedofilo, o violento, o folle, o infanticida. La sua presenza deve essere negata, ignorata, sfuggita o spiegata come qualcos'altro, altrimenti si rischia di tradire la famiglia. Qui scatta quella che potremmo definire la "morale della vicinanza", che è quanto di più pernicioso ci sia per la coscienza privata, e a maggior ragione per quella pubblica. Infatti, la morale della vicinanza tende a difendere il gruppo (familiare, comunitario) e a ignorare tutto il resto. E così finisce col sostituire alla responsabilità, alla sensibilità morale, alla compassione, al senso civico, al coraggio, all'altruismo, al sentimento della comunità, l'indifferenza, l'ottundimento emotivo, la desensibilizzazione, la freddezza, l'alienazione, l'apatia, l'anomia e alla fine la solitudine di tutti nella vita della città".
Umberto Galimberti, in La Repubblica 27 maggio 2005 vivere famiglie madri Era incastonata così profondamente nella mia coscienza che penso di aver creduto, durante tutto il primo anno di scuola, che ognuna delle insegnanti fosse mia madre sotto mentite spoglie. vivere invecchiare FAMIGLIE Un uomo sa quando sta diventando vecchio perché comincia ad assomigliare a suo padre. vivere limiti Mancanza di integrità, invalidità, danni alle funzioni fìsiche, psichiche e spirituali ci hanno sempre accompagnato; ogni essere vivente e, in senso stretto, ogni essere umano nasce con alcune imperfezioni - siano esse causate da un patrimonio genetico sfavorevole, da malattie contratte in gravidanza o da danni legati al parto; nel corso della loro esistenza gli esseri umani subiscono di continuo danni maggiori o minori. Incidenti, malattie e vecchiaia lasciano in eredità danni permanenti. Più si invecchia, più aumenta il grado di invalidità; in qualche modo o in qualche loro parte tutte le nostre capacità fisiche, psichiche e spirituali subiscono danni e perdono efficienza. L'esperienza e il confronto con i difetti ineliminabili è senza dubbio una condizione caratteristica e peculiare dell'essere umano -addirittura una condizione tipica di ogni essere vivente. […] Nella vita dell'essere umano è molto importante e talmente tipico fare esperienza di questi danni permanenti arrecati alle nostre funzioni psichiche e spirituali che in questo caso, in via sperimentale, si potrebbe parlare di reazioni archetipiche. Ipotizziamo che esista un "archetipo dell'invalido". vivere NORMALITA' Io mi accontento di essere normale vivere ottimismo pessimismo Un pessimista vede la difficoltà in ogni opportunità; un ottimista vede l'opportunità in ogni difficoltà vivere relazione uomo donna La vita è la pienezza. La vita sono un uomo e una donna che si incontrano perché sono fatti l'uno per l'altro, perché sono l'uno per l'altro ciò che la pioggia è per il mare: l'uno torna sempre a cadere nell'altro, si generano a vicenda, l'uno è la condizione dell'altro vivere RELAZIONI Le persone cambiano e si dimenticano di avvisare gli altri vivere RELAZIONI MORTE CICLO DI VITA Così noi viviamo, per sempre prendendo congedo. vivere RELAZIONI SOCIALI ASPETTATIVE Beato chi non si aspetta nulla, perchè non sarà mai deluso VIVERE RELAZIONI SORRIDERE Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida scorta per avventura tra le petraie d’un greto, esiguo specchio in cui guardi un’ellera i suoi corimbi; e su tutto l’abbraccio di un bianco cielo quieto.
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano, se dal tuo volto si esprime libera un’anima ingenua, o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua e recano il loro soffrire con sé come un talismano.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma, e che il tuo aspetto s’insinua nella memoria grigia schietto come la cima di una giovinetta palma…
eugenio montale
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