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E' morto Eugenio Garin, reinventò l'Umanesimo
FIRENZE -
Con la morte di Eugenio Garin scompare uno dei più grandi studiosi
italiani del Novecento, uno storico e un curatore di testi che per quasi una
settantina d’anni ha insegnato il perenne valore di Umanesimo e
Rinascimento. Un uomo che non riuscì a invecchiare, sempre attuale con i
suoi studi che spaziavano dalla filosofia inglese a quella francese; inoltre
ci ha lasciato una Storia della filosofia italiana che è diventata un punto
di riferimento indiscutibile. Garin ha fatto apprezzare al nostro tempo
figure come Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, Coluccio Salutati, ha
spiegato il valore culturale dell’astrologia come nessun altro, ha
soprattutto insegnato che nella vita vale sempre la pena leggere le opere
fondamentali. Se sommassimo quanto ha fatto direttamente e quello che ha
ispirato, dovremmo convenire che Garin ha dato alla cultura italiana
qualcosa che non muore. Non a caso, il primo volume delle Opere mnemoniche
di Giordano Bruno , uscito in questi giorni da Adelphi, è dedicato a lui,
maestro riconosciuto di questo genere di edizioni.
Garin in una foto d'archivio
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EUGENIO GARIN di Claudio Cesa
(su segnalazione di Giancarlo Conti, sito http://www.arifs.it
Ai primi di gennaio del 2004 è morto Norberto Bobbio; agli ultimi di dicembre se ne è andato Eugenio Garin. Se l'accostamento si impone quasi da solo, non è, soltanto per le coincidenze cronologiche, anche dell'anno di nascita (1909), quanto perché entrambi, per almeno un quarto di secolo, furono gli esponenti più illustri - diciamo pure i "maestri" - nel settore, amplissimo, degli studi da ciascuno coltivato; e lo furono per l'incisività, il ritmo, la mole del loro lavoro scientifico, la ricchezza di idee che ne fece ascoltati consiglieri delle più vive case editrici, la capacità di far fiducia a chiunque sembrasse loro capace di studi seri. Nel 1984, al convegno torinese per i 75 anni di Bobbio, Garin tenne una relazione che si apriva e si chiudeva con il nome di Aldo Capitini, quasi a ricordare la vicinanza delle loro posizioni morali alla fine degli anni trenta. Fu il ricordo di quegli anni, e della tensione, del primo decennio del dopoguerra, per un rinnovamento sociale e culturale del paese a mantenere vivo, nel mezzo secolo successivo, il loro impegno pubblico, non sempre nella stessa direzione, ma meno divergente di quanto, talvolta, allora, poté sembrare.
E un’altra analogia va rilevata: il loro (se è lecita questa espressione) radicamento territoriale: entrambi fecero i loro studi, e poi insegnarono per gran parte della loro carriera, nella stessa università: Bobbio voleva dire Torino, e Garin Firenze. Non c'è quasi istituzione culturale fiorentina della quale Garin non sia stato gran parte, la Biblioteca filosofica (finché sussistette), l'Istituto del Rinascimento, la Colombaria; ma il centro fu sempre la Facoltà di lettere, per un certo torno di anni la migliore d'Italia, ove Garin insegnò prima come incaricato, poi, dal 1949, come cattedratico, nella ormai mitica sede di S. Marco, poi, dal 1964, in quella di piazza Brunelleschi; in quanto delegato alla biblioteca, Garin vi aveva curato il trasferimento dei libri, e aveva costruito una splendida sala di consultazione per l'allora Istituto di filosofia. L’aula delle sue lezioni era sempre colma, e anche quando non aveva obblighi didattici non c’era quasi giorno che non venisse in facoltà; lo si vedeva in crocchio, con professori e studenti; lo si vedeva alle sedute di laurea, e alle commissioni di esami, ove non di rado impartiva, a uso del candidato, e magari dei colleghi più giovani che lo assistevano, un piccolo supplemento di lezione. L’alluvione del 1966 sommerse il deposito librario, e nei mesi successivi quell'uomo dall'aspetto fragile fu tra i più attivi nell'impegno per il salvataggio del materiale bibliografico. Dopo l'alluvione, vennero le agitazioni studentesche, di cui Garin vedeva bene i motivi; a turbarlo, non furono esse, ma il loro trasformarsi in permanente "contestazione", il loro degenerare in brutti episodi di violenza (ricordo soltanto l’aggressione a Ernesto Ragionieri), la furbesca acquiescenza di taluni professori. Nel 1960, commemorando il centenario della fondazione dell'Istituto di studi superiori, aveva rievocato le parole di gratitudine che P. Villani aveva rivolto ai giovani, sessant'anni prima; e aveva aggiunto, a conclusione: «Firenze, in questa sua scuola, lungo un secolo. ha favorito un lavoro raccolto e un po' schivo, ma serio, fondato sulla collaborazione reale dei membri dell'Università, alimentato da legami saldi fra insegnanti e allievi, fra generazioni e generazioni». Ora questo legame gli pareva essersi infranto, e fu non senza esitazioni, e con intima sofferenza, che accettò, nel 1974, la chiamata alla Scuola Normale di Pisa; qui esercitò a lungo, anche dopo essere stato nominato emerito, il ruolo, a lui così congeniale, di consigliere degli studi dei più giovani.
Non è questa l'occasione per parlare del Garin straordinario esploratore della cultura dell'Umanesimo e del Rinascimento, che tanti percorsi di ricerca ha aperto, né, più in generale, di lui come storico delle filosofia; tanto più che quest'ultima formula rischierebbe di essere riduttiva rispetto alle sue intenzioni; il titolo di un suo libro, quasi programmatico, La filosofia come sapere storico, segnala, a prima vista, che scopo di esso non era tanto stabilire i canoni per una corretta storiografia filosofica, bensì prender posizione sul tema dei compiti e del significato della filosofia. Sull'argomento, egli non si stancò mai di intervenire, e la sua tesi si può compendiare con una frase di Benedetto Croce, da lui ripresa proprio dal saggio da cui aveva ricavato anche il titolo del volume: «La consapevolezza dell'unità, cioè del vivo ricambio che corre tra filosofia ed esperienza, tra metodologia e storia, rende necessaria la formazione di un nuovo tipo di studioso di filosofia, che partecipi alle indagini della storia e della scienza, e soprattutto al travaglio della vita del suo tempo, politica e morale». Quali modelli di questo tipo di impegno intellettuale, Garin evocava, accanto a tanti altri, Villari, Labriola e Gramsci, che pure «non era un professore»; e proponeva così un profilo del pensiero italiano tra Ottocento e Novecento che rettificava, o sostituiva, quello di ascendenza crociana e gentiliana. Ma non pretendeva di dare un quadro definitivo, perché, con le sue parole, «l’indagine storica è di continuo sollecitata a riesaminare le scelte già operate in funzione di certi modi di agire, per saggiarne la validità, respingerne l’insufficienza, risolverne la parzialità»; sapeva benissimo, e lo disse più volte, che questo criterio valeva anche per lui stesso: a conclusione della lunga discussione suscitata dal libro che si è sopra citato, scriveva di preferire «al filosofo che ha per sé l'eterno, chi combatte negli anni suoi ed è distrutto dalla sua lotta». Non è la battuta di un fine conoscitore dell'arte retorica, quale pure Garin era, perché, finché le forze gli ressero, egli continuò a lavorare, sulle fonti e sulla letteratura secondaria, senza preoccuparsi troppo se i suoi nuovi risultati non concordavano perfettamente con quelli precedenti, perché «le revisioni non devono impressionare nessuno, ed attestano, anzi, la serietà di un lavoro legato a una concreta realtà in movimento».
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