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Alberto Vigevani
11 agosto del 1919-23 febbraio del 1999
11 novembre 2006, ore 16.30, Castello di Pomerio, Erba (Como)
"La Brianza di Alberto Vigevani ". L'attore Carlo Rivolta leggerà brani di Alberto Vigevani, scrittore milanese (1919-1999), in rapporto di amicizia con Gadda, che fece costruire una villa a Corneno, presso Eupilio.
Durante l'evento interverranno anche P. Franci, P. Minonzio, F. Panzeri, E. Freyrie per ricordare le opere dello scrittore.
di Carlo Fruttero 20 aprile 2005
L’impressione è talvolta che chez Sellerio
qualcuno si sia fatta l’idea, senza mai esplicitarla, codificarla, ammanettarla
in una teoria, che la letteratura italiana consista in una serie di eccezioni.
Non avremo avuto questo e nemmeno quest’altro, d’accordo; e ci è mancato
indubbiamente quello, nonché quell’altro. Eppure, percorrendo con occhio attento
i corridoi laterali dietro le quinte, sbirciando nelle botole e alzando gli
occhi lassù verso le funi e le carrucole del grande teatro, un personaggio di
rilievo può a un tratto lasciare la sua penombra e presentarsi a noi. Non uno,
ma due.
E poi altri due, e altri due, e altri quattro ancora. Alcuni indossano un
dimesso saio, altri sfolgorano di sete e damaschi, ma messi tutti in fila e in
piena luce si vede che reggono benissimo la scena, interpretano benissimo
ciascuno la sua parte e che così riuniti fanno più che un catalogo, farebbero,
per un adeguato accademico, una storia letteraria. Non si tratta di recuperi,
ripescaggi, rivalutazioni, orribili termini di provenienza industrial-borsistica.
Sono scoperte, allora? Neppure, o lo sono semmai nel senso di certi astri su cui
non ci si è curati di puntare il telescopio ma che stavano lì da sempre, in
orbite più lontane o più vicine ma necessari quanto la luna, si può constatare,
ora che sono in vista.
Così va letto (ho letto) Alberto Vigevani, un’altra eccezione. Benché lui stesso
confessi di aver avuto un’educazione musicale pari alla mia, cioè nulla,
suggerirei di «ascoltare» i tre libri pubblicati finora da questo editore come i
movimenti di una sinfonia in tre tempi. Estate al lago, La febbre
dei libri e ora la Lettera al signor Alzheryan. Direi: un
«largo», seguito da un «allegretto» e chiuso da un «andante maestoso e agitato».
Un adolescente alle prese coi primi tormenti, entusiasmi, struggimenti, vortici
emotivi della sua età passa un’estate in una villa sul Lago di Como. C’è la
famiglia, ci sono i compagni di giochi, le biciclette, i gelati, le barche a
vela, ma ogni cosa è evocata attraverso una specie di tremolio acquatico,
instabile e scintillante, e tuttavia con una precisione al tempo stesso
intensissima ed effimera. La mutevolezza incessante del lago è specchio perfetto
agli slanci e alle ritrosie del giovane protagonista, sole e nuvolaglia, subdole
correnti e immobilità estatica si alternano dentro e fuori di lui.
Ma tutto avviene in superficie, in definitiva. Il lago è lì fermo, chiuso tra i
monti, non potrà straripare, far danni irreparabili. Resta, come ogni lago
almeno in Europa, un luogo elegante, di languide rifrazioni, di civiltà squisita
e un po’ esausta.
Ben altri ritmi percorre La febbre dei libri, che si muove anch’esso,
come il precedente, su uno sfondo essenzialmente mitteleuropeo; ma qui si tratta
di un’Europa settecentesca, avventurosa, quella di Alfieri e Casanova, sempre
lanciati al galoppo tra le varie capitali per amor di conquista.
L’amore per il dettaglio
Conquista di libri, in questo caso, anche se Vigevani, che non ho mai
conosciuto, doveva essere un amante della buona tavola e ammirava le belle
donne. Divenuto mercante di libri antichi e aperta a Milano una famosa libreria
del ramo, lo vediamo farsi ritrattista (mirabile, spiritosissimo) di una
aristocrazia di appassionati, da Luigi Einaudi a Mattioli, da Contini a Montale,
a lui affini, fraterni, nell’amore per rilegature e margini e incisioni e
rarissime tirature e volumetti unici. Sono vere e proprie avventure negli antri
spesso cavernosi di altri mercanti internazionali, viaggi di esplorazioni e
scoperte, affari fortunati, inganni, tradimenti, rivalità accesissime, mortali
rancori, su cui Vigevani passa con briosi, fulminanti colpi d’ala, da
memorialista che ha venerato Saint-Simon. Un narratore infallibile nel dettaglio
(un interno, un mento, un bicchiere, un vicolo), che lascia in noi profani una
colpevole stupefazione.
Com’è possibile estrarre tanta verve, tanta energia, tanta umanità da quel
cumulo polveroso di vecchi fogli maculati? Ma appunto, ancora una volta: se c’è
lo scrittore, anche una collezione di blocchi di calcestruzzo diventa aereo
divertimento.
Mentre nel terzo tempo, «andante, maestoso e agitato», l’autore finge di tentare
la ricostruzione (in verità riuscitissima) di un personaggio leggendario ai suoi
occhi infantili, quasi un eroe biblico.
Va detto che Vigevani è ebreo, che suo padre era un avvocato ebreo milanese
e che di quel mondo colto, benestante (ma senza ostentazione) a proprio agio
con le lingue straniere e gli affari internazionali, ci resta che io sappia
quest’unica testimonianza letteraria. Bassani era in provincia, Moravia non era
interessato a questo particolare filone della borghesia. Ma a Milano, negli
Anni Venti e Trenta, operò con naturalezza, discrezione, somma capacità una
élite ebraica oggi impensabile e comunque spazzata via dai noti eventi (vale la
pena notare di passaggio che Vigevani, quando parla di un parente o un amico
finito a Auschwitz, non usa mezzi termini - scomparso, deportato, morto - ma
precisa sempre «assassinato»; a ciascuno il suo mot juste).
Questo signor Alzheryan è padrino dell’autore e alla sua nascita gli ha regalato
un medaglione in crescita favolosa nel ricordo: «d’oro massiccio tempestato di
perle, che recava, cesellato in lettere ebraiche, l’attributo di Dio -
“Onnipotente” - al posto del Suo Nome che la Torà vieta di
pronunciare». L’autore non l’ha mai visto perché è stato rubato con altri
preziosi quando aveva un anno o due. Ma dai racconti di famiglia la medaglia
acquista via via il peso fantastico, il sacro sfolgorio, l’unicità di un tesoro.
Di questo tesoro perduto, immaginato, sognato, la lettera chiede conto al signor
Alzheryan, che in un certo senso lo incarna.
Sono passati molti anni, i ricordi dell’infanzia e poi della giovinezza
ritornano a frange sfumate, un’immagine qui, un episodio là, un breve dialogo di
affari col padre, una telefonata da Londra o Vienna, il sontuoso giardino di
Villa d’Este. Anche l’aspetto del signor Alzheryan è tremulo nella sua
precisione. «Il genere, vagamente, è quello in cui possono rientrare il Chaplin
di Monsieur Verdoux, o persino Mischa Auer. E’ meglio tentare il
dettaglio dunque: volto ovale, senza spigoli. Incarnato scuro, non abbronzato,
però - d’un pallore appena olivastro... bocca piccola, labbra un po’ grosse;
naso sensitivo, con una tenue gobba. Sopracciglia un po’ brizzolate come i
baffetti.
Capelli folti, di un bianco latteo, mollemente ondulati. Le mani, i piedi,
piccoli. Il suo sarto era il suo corpo: i vestiti non aggiungevano né levavano
nulla. Poteva sembrare, a un occhio esperto, un sefardita purificato da ogni
fragranza orientale con una lunga dimora in temperate serre europee; o un
suddito asburgico di origine levantina emigrato a Parigi, che avesse giocato da
fanciullo, come Proust, dietro le cancellate nere ed oro del Parc Monceau».
Questa ammirata figura è un finanziere internazionale cui il padre avvocato del
narratore fa da consigliere e guida. Compare ogni tanto a Milano, scende al
Cavour o al Grand Hôtel et de Milan, ma non ha presumibilmente una dimora fissa,
vive (così immagina il bambino) da un grande albergo all’altro, il Crillon, il
Savoy, l’Hôtel de Russie, o su quelle fiabesche vetture pullman della compagnia
Cook’s. Luxe calme volupté, è la triade che il narratore associa
esplicitamente al suo sporadico, balenante padrino. Un’idea di che cosa dev’essere
la ricchezza sedimentata, l’opulenza come normale costume di vita, la facilità
di muoversi nel mondo (ma il suo sobrio padre: «inutili spese di
rappresentanza»).
A Milano il finanziere ha una sorella, una donna enorme, acida, lamentosa,
memorabile personaggio anche lei. E un cognato, un ometto spento, perdente,
disprezzato, cui il signor Alzheryan ha procurato una rappresentanza di
automobili americane, Chevrolet, Buick, Pontiac, tra cui il bambino si aggira
rapito: «Ci si poteva specchiare, sul coperchio bombé del baule o sopra i
fianchi dei cofani altezzosi. Le pesanti portiere si muovevano un po’ lugubri,
tanto silenziose, sui massicci cardini lubrificati. La pelle odorosa e imbottita
dei sedili scricchiolava piacevolmente, come un paio di scarpe nuove».
Né consigli né soldi
Una visione ormai da Mille e una notte anche per noi, plebe delle targhe
alterne.
Oltre al prezioso medaglione perduto il padrino sembra aver dato ben poco al
figlioccio. Né libri, né consigli, né spettacoli, né confidenze illuminanti (né
soldi). E’ un uomo di poche parole, che l’autore estrae a fatica da quel passato
fatto di fotogrammi di un vecchio film disperso. Un grave scandalo finanziario,
un tentato suicidio, una scenata penosa, una cerimonia alla sinagoga, la lettura
di un testamento: anno dopo anno, quasi scusandosi per le tante omissioni,
Vigevani ci offre un saggio esemplare di quali altezze possa raggiungere l’arte
tortuosa dell’approssimazione.
Con quel poco che gli resta in mano, correggendosi, esitando, congetturando,
lavorando a piccoli colpi di scalpello, dati come a caso, su quel grumo di
nebbia, ci presenta alla fine una figura di maestosità marmorea. Il suo
misterioso e ricchissimo eroe raccoglie tutti i suoi beni, le sue innumerevoli
proprietà sparse per l’Europa, ne fa un unico, straripante lascito e lo destina
alla comunità ebraica di Berlino poco prima che Hitler vada al potere.
Il sorriso di Vigevani, più indulgente che ironico, non lascia le sue labbra
mentre sdipana questo finale paradossale e beffardo: lo stile è lo stile. Ma
nell’ultima pagina trapela una commozione alta, una concentrata partecipazione
al patire millenario di tutto un popolo, una visionaria sfilata nel deserto
delle figlie di Labano, Giuseppe e i suoi fratelli, Ruth la spigolatrice, il
grasso Booz. «Non lasciavano ombre ma tracce di un pallido azzurro, come i corsi
dei fiumi in una vecchia mappa». E lassù, in cima a una bianca scalinata,
qualcuno chiama. E’ Alzheryan che chiama il mittente della lettera e gli indica
il fiammeggiante medaglione che ora reca il nome che la Torà vieta di
pronunciare.
tratto da: http://www.bnnonline.it/percorsi/vigevani.htm
Alberto Vigevani
La febbre dei libri: memorie di un libraio bibliofilo
Palermo, Sellerio, 2000
Quello che si coglie
scorrendo le pagine di questo bel libro di memorie di Alberto Vigevani è
innanzitutto un sapore di cose perdute. Egli descrive cose, atmosfere, vive
appena ieri ma che a noi immersi nel caos della società dell’informazione
sembrano ormai appartenere ad un passato lontano. Ma chi era Alberto Vigevani?
Libraio antiquario, editore, scrittore, ma soprattutto secondo Lalla Romano un
poeta, e noi non possiamo non essere d’accordo. Chi, infatti, se non un poeta
avrebbe potuto avvicinarsi con tanto amore e rispetto al mondo spesso misterioso
dei libri? Che cosa se non una smisurata passione lo avrebbe sospinto in mille
viaggi in tanti paesi alla caccia di libri rari a volte ritenuti perduti, quasi
novello Achab nel mare bibliofilo? Attraverso le descrizioni, rese con un
linguaggio fresco, talvolta umoristico, di incontri meravigliosi, spesso
fortunosi, con i libri, Vigevani ci ammalia. Ecco l’incontro con il Polifilo
(Hypnerotomachia Poliphili) - stampato da Aldo Manuzio nel 1499 e
ritenuto il più bello mai dato alle stampe dall’editoria italiana -
nell’immediato dopoguerra e l’amarezza per l’impossibilità a poterlo acquistare
viste le rovinose condizioni economiche.
Proprio durante la guerra comunque egli apre, con notevoli sforzi, la sua prima libreria antiquaria, ed essendo ebreo la intesta alla moglie non potendo fare altrimenti per le vergognose leggi razziali, chiamandola “Il Polifilo”. Ben presto questa diventa punto di riferimento culturale nell’operosa Milano degli anni ’50. L’attività di libraio antiquario dà modo a Vigevani di venire in contatto con numerose personalità che movimentano la scena culturale e politica italiana in quegli anni e di cui egli ci restituisce inediti ritratti, tra gli altri Contini, Isella, Montale, Einaudi, Dalla Piccola, Rota e Mattioli. Nelle sue sapienti mani passano vere rarità bibliofile: le 127 vedute romane del Piranesi, la Bibbia appartenuta al Savonarola, la prima edizione illustrata del Boccaccio del 1492. Per soddisfare le richieste della sua numerosa e composita clientela Vigevani si avventura anche in campi a lui sconosciuti come quello della medicina ed anche qui approda a scoperte di libri leggendari come le prime edizioni del Vesalio De humani corporis fabrica (Basilea 1543) o il bellissimo Guidi (Vidi) “De anatome” con le illustrazioni del Primaticcio. Il passo successivo non può essere altro se non quello della fondazione di una casa editrice che Vigevani chiama ancora una volta “Il Polifilo”, sicuramente il libro da lui più amato, e con la quale dà alle stampe prestigiose edizioni.
Ma è forse attraverso un episodio, quello dell’acquisto di un’opera che Vigevani fece dal libraio Banzi di Milano, che possiamo trovare la misura di questo suo straordinario viaggio nell’universo bibliofilo: “Proprio da Banzi comprai il libro più emozionante della mia carriera. Il libraio l’aveva messo insieme ad altri scarti sul bancone vicino all’ingresso. Era un bell’esemplare, con legatura in mezzo marocchino assai semplice, ma coeva dei tre tomi delle Considération sur les principaux evenéments de la Révolution francaise di Madame de Stael. Ero un cultore della letteratura francese se non di Madame de Stael e il prezzo era assai modesto: millecinquecento lire. Così presi il primo volume e lo aprii, giusto per vedere che portava quasi ad ogni pagina note contemporanee a matita. E lo richiusi immediatamente perché essendo un appassionato di Stendhal, lessi, sul foglio di guardia, a penna, questa nota: '1818, nicht mehr Neapolis'. Stendhal in quel periodo attendeva la nomina a console di Francia a Trieste, ma l’Austria, ritenendolo una spia, rifiutò il necessario gradimento, e nemmeno ebbe la nomina a Napoli. Dovette accontentarsi di Civitavecchia. E il fatto che l’annotazione fosse in tedesco, confermava l’appartenenza del volume e, sperai, delle note alle pagine, al milanese Beyle che aveva poi l’abitudine di scrivere di sé sotto altri nomi, come ad esempio 'Dominique', come delle amanti e degli amici, e di usare spesso, per cose che voleva segrete, altre lingue come il tedesco o l’inglese. Mi affrettai in preda ad una sorta di febbre, a chiudere il libro e a pagarne il lievissimo importo. Jacques Felix-Faure, noto stendhaliano, discendente di Felix Faure, intimo amico di Stendhal, e Victor Del Litto confermarono la mia scoperta e ne scrissero un libretto. I tre tomi erano annotati, con centinaia e centinaia di righe autografe, da Stendhal, e costituivano il primo getto della sua Vie de Napoléon.” (pg.134-135)
Un sapore di cose perdute, si diceva all’inizio di questa breve recensione, ed infatti esperienze di questo tipo sono oggi quasi impossibili per noi che affoghiamo in un mare di bit e di immaterialità ed abbiamo irrimediabilmente perduto quella che Berenson chiamava la coscienza tattile.
Luigi D'Amato