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Nel numero 3-4 del 1972 del «Giornale dei genitori», Laura Conti scriveva una nuova «difesa del Gatto con gli stivali», che qui riporto quasi per intero:

... Voglio raccontare come l'ho vissuta io, da bambina e cioè mezzo secolo fa, la storia del Gatto con gli stivali.

Anzitutto il Gatto, come il suo padroncino e come me, era Piccolo in un mondo di Grandi; ma i suoi stivali lo mettevano in grado di fare dei passi lunghissimi, cioè di uscire dal suo stato di piccolezza pur rimanendovi, di fare grandi passi pur continuando a essere un piccolo gatto. Anch'io, volevo restare piccola ma fare cose da grande, anzi battere i grandi sul loro stesso terreno, la grandezza (la lunghezza dei passi)... Il rapporto piccolo-grande usciva poi dal senso proprio, delle dimensioni, per proiettarsi in un senso figurato. Il Gatto, oltre a essere piccolo, è anche sottovalutato, giudicato inutile: la sua presenza in casa veniva giudicata un mio capriccetto fastidioso. Perciò mi piaceva molto che l’animaletto inutile diventasse un potente alleato. Che cosa il Gatto facesse non m'importava nulla, tanto che l'ho completamente dimenticato: c'è voluto il «Giornale dei Genitori» per ricordarmi le sue furbizie diplomatiche e riconosco che si tratta di diplomazia volgare. Ma a me le azioni del Gatto non importavano, mi importavano i risultati: mi importava che si potesse vincere giocando sul perdente, se posso esprimere con linguaggio adulto una sensazione infantile (infatti il bambino che ereditava il Gatto veniva, sul principio, compianto per l'insignificante eredità). Dunque mi affascinava il doppio rovesciamento, da piccolo in grande e da perdente in vincente. Non m'interessava la vittoria in sé: mi interessava la vittoria improbabile.

La duplice natura del Gatto (piccolo-grande, perdente-vincente) soddisfaceva non solo il desiderio paradossale di essere grande pur mentre ero piccola, ma anche l'altro desiderio paradossale, di veder vincere una creatura che continuava a rimanere un piccolo, debole, morbido gattino. Io detestavo i forti, nelle fiabesche lotte tra forti e deboli, e parteggiavo per i deboli; ma se i deboli vincono, c'è il rischio che si debba considerarli forti, e cioè odiarli. La storia del Gatto con gli stivali mi sottraeva a questo rischio, perché il Gatto, anche vincendo la partita contro il Re, con­tinuava a rimanere un Gatto. Si trattava cioè della situazione Davide-Golia, ma con un Davide che continuava a rimanere un pastorello, e non diventava mai il Potente Re Davide; non è che faccia questo paragone a posteriori: alla stessa età in cui mi si raccontava la storia del Gatto mi si raccontava anche la Storia Sacra, e il fatto che il pastorello diventasse Re non mi piaceva affatto, a me piaceva soltanto che con la sua piccola fionda abbattesse il gigante. A differenza di Davide, il Gatto vinceva il Re ma non diventava Re, restava Gatto.

Sicché, se penso alla mia esperienza personale, posso confermare pienamente quel che dici tu: non il «contenuto» ma il «movimento» era l'essenziale della fiaba. Il contenuto poteva anche essere conformista, reazionario; ma il movimento era ben diverso, poiché dimostrava che nella vita quel che conta non è l'amicizia dei Re ma l'amicizia dei Gatti, cioè delle piccole creature sottovalutate e deboli, che sanno imporsi ai potenti.

in: Gianni Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all'arte di inventare storie, Einaudi 1973, p. 192-193