Oggi si parla tanto, in Europa e soprattutto in Italia, di populismo. Vale
la pena, perciò, aprire una piccola parentesi per chiarire cosa significa
oggi populismo. Quali sono le forze politiche che hanno le caratteristiche
per essere considerate tali? Quali sono queste caratteristiche? Forse è
populista chi sa usare la televisione meglio di altri? Oppure chi usa
slogan popolari? Sarebbe ben riduttivo pensarla così. Questo in fondo lo
fanno tutti. Che cos´è allora che connota specificatamente il populismo?
Da parte di chi ne ha scritto, c´è la tendenza a identificare il
populismo in forze politiche specifiche, quasi storicamente determinate.
Populisti erano i movimenti che in America come in Europa sceglievano una
figura sociale che si sentiva discriminata, in essa identificavano il
popolo, e ne esaltavano l´autoidentificazione e la tutela contro i
potenti. Forze in genere, ma non sempre, di destra. Che raccoglievano il
malcontento del contadino americano o del piccolo produttore vittime via
via delle grandi industrie, dei monopoli, di un governo centralista, e ne
diventavano i protettori ora con politiche estremamente liberiste, ora con
l´iperprotezionismo. Se non era il contadino, magari, a essere aggregato
dal populismo era il combattente che rientrava dopo una guerra, il
veterano, i cui meriti non sono riconosciuti, a cui la società non è
grata.
Più di recente sono stati identificati come partiti populisti quelli che,
legandosi ai conflitti etnici o ai tanti egoismi territoriali, hanno fatto
valere le ragioni delle comunità locali che si sentono minacciate dallo
straniero, dall´extracomunitario, dal diverso.
In questa accezione si confina il populismo entro argini relativamente
ristretti. Il fenomeno finisce per riguardare poche forze politiche: il
lepenismo in Francia, l´haiderismo in Austria, il bossismo in Italia. Ma
in un libro recente di Meny e Surel, intitolato Populismo e democrazia, c´è
una lettura nuova del populismo. E credo che sia una chiave più adatta a
interpretare molti dei fenomeni che stanno caratterizzando la politica d´oggi.
Secondo questa visione il populismo è una malattia della democrazia.
SEGUE A PAGINA 15
È il nuovo populismo la malattia della democrazia
Basta sollevare la gente contro qualcuno e fare una promessa in cambio
del voto
Il meccanismo è semplice: si usano i mass media per cavalcare l´antipolitica
E può quindi
manifestarsi nella sua sintomatologia anche attraverso forze politiche che
non sono integralmente assimilabili ai primi modelli storici di partiti
populisti. Più che di populismo, allora, si può parlare di attitudini
populiste. E certamente è un´attitudine populista cavalcare, come oggi
accade così diffusamente, l´indistinto sentimento di una fantomatica
società civile contro l´élite che si arricchirebbe alle sue spalle
sfruttando le risorse pubbliche. Un´élite che, mentre nel primo
populismo americano era identificata nei ricchi che sul mercato
succhiavano il sangue del piccolo commerciante, oggi viene fatta
coincidere essenzialmente con il sistema politico.
Agli occhi del populista - e di coloro su cui egli fa presa - la pensione
di un parlamentare è ben più grave della super-stock option del grande
manager che si porta via i miei risparmi sul mercato. Perché lo si vede
in televisione e ce lo si immagina con macchine bellissime che sfrecciano
mentre il cittadino è fermo lì al semaforo. Perché «lui si paga i suoi
lussi con le mie tasse, magari con i contributi della mia pensione». E
poi: «Vogliono decidere tutto loro» , «mettono mille divieti», «mi
costringono a fare la coda alle poste».
Ecco che l´avversione per la politica cresce. E allora spunta qualcuno
che si candida a essere rappresentante di questi sentimenti
anti-establishment, il professionista dell´anti-politica che tanto bene
abbiamo conosciuto in Italia in questi anni. Quante carriere, nel nostro
paese, sono passate proprio attraverso la politica dell´anti-politica.
Ma il fenomeno è più generale. Il diffondersi di questi sentimenti è
legato al crescere, nel corso del secolo, del ruolo dello Stato nell´economia
e alla progressiva degenerazione dell´intervento pubblico. È lì che
vanno rintracciate le origini dell´ostilità diffusasi nelle coscienze
individuali verso lo Stato, verso le burocrazie, verso i politici. Nella
recente pubblicistica anglosassone ha avuto grande successo il concetto di
«outside leader». Una definizione che si applicava a quei grandi leader
che, anche quando ricoprivano ormai ruoli istituzionali chiave,
continuavano ad avvalersi della armi dell´anti-politica, dell´outside
leader, appunto: «Io non rappresento quelli di Washington, quelli di
Roma, quelli di Bruxelles, io rappresento voi, io sono contro quelle
sanguisughe». Ronald Reagan è stato il più grande degli outside leaders:
usando questi moduli populisti ha raggiunto la presidenza degli Stati
Uniti.
Ecco, l´anti-politica è un tipico modulo populista, che viene fuori come
il sintomo di una patologia che colpisce la democrazia. In un sistema
istituzionale funzionante ed equilibrato, infatti, c´è un elemento che
gli studiosi chiamano fideistico e un elemento pragmatico. Senza di essi
la democrazia non funziona. Ci si lega a una realtà istituzionale se ci
sono ragioni di fiducia che vanno al di là del calcolo razionale, se c´è
quella che Bagehot chiamava «the dignified part of institutions»: che può
essere la regina, la bandiera, l´inno nazionale. Ma deve esserci anche la
parte efficiente, quella che in inglese viene indicata col termine «delivery»,
che significa essenzialmente dare servizi.
Fascismo e nazismo sono regimi che giocano tutto sulla parte fideistica. E
sappiamo che sono modelli non democratici. Ma anche laddove i sistemi
istituzionali perdono del tutto la parte fideistica, affidandosi
esclusivamente al calcolo razionale, la democrazia non è poi tanto in
buona salute. Perché l´efficienza è sempre relativa e, inevitabilmente,
si finisce con il dare troppo spazio agli individualismi, ai patti, ai
mercanteggiamenti, che sono utili solo per chi partecipa allo scambio e
non per la collettività nel suo insieme.
È qui che viene fuori il populismo. Purtroppo in una società come quella
del nostro tempo siamo particolarmente esposti al modulo populista.
Questo, infatti, ha gioco facile in una realtà che è fatta di
individualità che non vengono facilmente composte dal proprio ruolo
economico-sociale. Ma che sono alla ricerca di altri terreni di identità
comune, in un mondo dominato da mass media che tendono a semplificare i
messaggi, facendo leva più sull´emotività che sulla razionalità.
Il vantaggio competitivo è enorme. È facilissimo, infatti, lanciare
messaggi semplificati contro l´establishment. Così come è facile usare
i mass media per evidenziare problemi, insicurezze, paure e poi dire:
qualcuno è contro di te, ma io sto dalla tua parte e risolverò i tuoi
problemi. È un gioco da ragazzi. Ma quando poi si va al governo, e le
responsabilità si hanno sul serio, il modulo funziona molto meno.
Forza Italia è un partito che innegabilmente sta mettendo radici ma,
altrettanto innegabilmente, si è molto aiutato nel farlo con l´uso
accentuato di richiami populisti. Il partito fondato da Silvio Berlusconi
ha due caratteristiche fondamentali. La prima è che non ha una storia
politica: quindi non è intralciato da un passato, da una tradizione, da
valori che lo condizionano, è assolutamente libero di posizionarsi senza
remore (salvo quella anti-comunista) in funzione della maggioranza. La
seconda è che il suo leader, venendo dal mondo della comunicazione e
della pubblicità, è bravissimo nel raggiungere il «consumatore», nel
lanciare messaggi accattivanti al suo pubblico, nel far nascere comunità
attorno a un prodotto, a una squadra di calcio, a un inno. Berlusconi è
un maestro nel creare, attraverso le emozioni, un «io» collettivo. Uno
dei suoi slogan è stato: ho guidato il Milan alla vittoria, posso guidare
l´Italia alla vittoria. E a livello emozionale questo funziona. Ma la
parte razionale ed efficiente, necessaria in ogni democrazia funzionante,
almeno qui non c´è.
Lo stesso avviene quando il leader di Forza Italia si appella alla lotta
santa contro i comunisti. Questo è un tipico modulo populista. Che in
Berlusconi, tra l´altro, si unisce alla lotta contro l´establishment,
perché lui fa coincidere l´establishment con il comunismo, o perlomeno
con il post-comunismo. un messaggio, quest´ultimo, che è passato su una
larga parte dell´opinione pubblica italiana: i comunisti che traggono
vantaggio dalle loro cariche pubbliche, che occupano le case degli enti,
che «campano» senza lavorare sulle spalle dello Stato. Il meccanismo è
sempre lo stesso: sollevare i sentimenti della gente comune contro
qualcuno o contro qualcosa. E naturalmente, poi, uno si domanda anche
quanto è candida, a dir poco, una sinistra che offre appigli ad una
critica del genere.
Ecco, dunque, il populista: c´è il nemico comune e c´è una volontà
popolare che io interpreto. Firmo un contratto con te, come fece
Berlusconi in diretta tv poco prima delle ultime elezioni, e se vinco che
farò? Risolverò i problemi che ti metto sotto il naso, ti enfatizzo e ti
estremizzo mentre ancora stanno governando gli altri.
Ricordo bene l´uso che fu fatto dall´opposizione durante il mio governo,
del mezzo televisivo per diffondere tra i cittadini un forte senso di
inquietudine nei confronti della criminalità. Sembrava che vivessimo nel
paese degli orchi. I telegiornali si soffermavano, magari come prima
notizia, su atti di criminalità, e la paura si diffondeva. A nulla
servivano i dati del ministero degli Interni che indicavano la riduzione
intervenuta del tasso di criminalità. Il messaggio passava con grande
efficacia, giovando a chi intendeva strumentalizzarlo, ma provocando in
realtà effetti devastanti sulle nostre comunità.
Il problema è anche che i mass media si prestano enormemente a questo
gioco. Perciò capisco Sartori che, con quel suo fare cattivo, da
fiorentino senza pietà, mette sotto accusa la televisione e l´uso che se
ne fa. Tenendo conto di questa attitudine dei mass media alla
semplificazione emotiva, allora, una politica volutamente populista può
avere gioco facile su qualunque concorrente. Anche un sondaggio può
diventare un´arma letale. Si è parlato di democrazia dei sondaggi. E in
effetti quante volte abbiamo avuto l´impressione che attraverso di essi
si provasse a condizionare l´opinione pubblica: si intervistano le solite
1500 persone e a queste si fa dire ciò che gli altri devono pensare. E ciò
che più inquieta e che quegli altri, dopo un po´, magari, davvero la
pensano in quel modo.
Ecco perché oggi il populista ha grandi vantaggi sul mercato della
politica. Ma poi il populista va al governo. E qui i nodi vengono al
pettine. Perché il populismo i problemi li fa vedere e li strumentalizza,
ma difficilmente li sa anche risolvere. Per un po´ può ancora conservare
il suo potere attribuendo ad altri la responsabilità del suo fallimento.
Può inventarsi buchi nei conti pubblici, complotti dei magistrati,
ostruzionismi sindacali, ma i problemi restano lì e alla fine la gente ne
chiederà il conto.
(Il brano che
pubblichiamo è tratto dal libro di Tornare al futuro, la sinistra e il
mondo che ci aspetta che esce in questi giorni edito da Laterza)
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