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È il nuovo populismo la malattia della democrazia
GIULIANO AMATO

 

da Repubblica - 11 aprile 2002


Oggi si parla tanto, in Europa e soprattutto in Italia, di populismo. Vale la pena, perciò, aprire una piccola parentesi per chiarire cosa significa oggi populismo. Quali sono le forze politiche che hanno le caratteristiche per essere considerate tali? Quali sono queste caratteristiche? Forse è populista chi sa usare la televisione meglio di altri? Oppure chi usa slogan popolari? Sarebbe ben riduttivo pensarla così. Questo in fondo lo fanno tutti. Che cos´è allora che connota specificatamente il populismo?
Da parte di chi ne ha scritto, c´è la tendenza a identificare il populismo in forze politiche specifiche, quasi storicamente determinate. Populisti erano i movimenti che in America come in Europa sceglievano una figura sociale che si sentiva discriminata, in essa identificavano il popolo, e ne esaltavano l´autoidentificazione e la tutela contro i potenti. Forze in genere, ma non sempre, di destra. Che raccoglievano il malcontento del contadino americano o del piccolo produttore vittime via via delle grandi industrie, dei monopoli, di un governo centralista, e ne diventavano i protettori ora con politiche estremamente liberiste, ora con l´iperprotezionismo. Se non era il contadino, magari, a essere aggregato dal populismo era il combattente che rientrava dopo una guerra, il veterano, i cui meriti non sono riconosciuti, a cui la società non è grata.
Più di recente sono stati identificati come partiti populisti quelli che, legandosi ai conflitti etnici o ai tanti egoismi territoriali, hanno fatto valere le ragioni delle comunità locali che si sentono minacciate dallo straniero, dall´extracomunitario, dal diverso.
In questa accezione si confina il populismo entro argini relativamente ristretti. Il fenomeno finisce per riguardare poche forze politiche: il lepenismo in Francia, l´haiderismo in Austria, il bossismo in Italia. Ma in un libro recente di Meny e Surel, intitolato Populismo e democrazia, c´è una lettura nuova del populismo. E credo che sia una chiave più adatta a interpretare molti dei fenomeni che stanno caratterizzando la politica d´oggi.
Secondo questa visione il populismo è una malattia della democrazia.

SEGUE A PAGINA 15

È il nuovo populismo la malattia della democrazia
Basta sollevare la gente contro qualcuno e fare una promessa in cambio del voto
Il meccanismo è semplice: si usano i mass media per cavalcare l´antipolitica

E può quindi manifestarsi nella sua sintomatologia anche attraverso forze politiche che non sono integralmente assimilabili ai primi modelli storici di partiti populisti. Più che di populismo, allora, si può parlare di attitudini populiste. E certamente è un´attitudine populista cavalcare, come oggi accade così diffusamente, l´indistinto sentimento di una fantomatica società civile contro l´élite che si arricchirebbe alle sue spalle sfruttando le risorse pubbliche. Un´élite che, mentre nel primo populismo americano era identificata nei ricchi che sul mercato succhiavano il sangue del piccolo commerciante, oggi viene fatta coincidere essenzialmente con il sistema politico.
Agli occhi del populista - e di coloro su cui egli fa presa - la pensione di un parlamentare è ben più grave della super-stock option del grande manager che si porta via i miei risparmi sul mercato. Perché lo si vede in televisione e ce lo si immagina con macchine bellissime che sfrecciano mentre il cittadino è fermo lì al semaforo. Perché «lui si paga i suoi lussi con le mie tasse, magari con i contributi della mia pensione». E poi: «Vogliono decidere tutto loro» , «mettono mille divieti», «mi costringono a fare la coda alle poste».
Ecco che l´avversione per la politica cresce. E allora spunta qualcuno che si candida a essere rappresentante di questi sentimenti anti-establishment, il professionista dell´anti-politica che tanto bene abbiamo conosciuto in Italia in questi anni. Quante carriere, nel nostro paese, sono passate proprio attraverso la politica dell´anti-politica.
Ma il fenomeno è più generale. Il diffondersi di questi sentimenti è legato al crescere, nel corso del secolo, del ruolo dello Stato nell´economia e alla progressiva degenerazione dell´intervento pubblico. È lì che vanno rintracciate le origini dell´ostilità diffusasi nelle coscienze individuali verso lo Stato, verso le burocrazie, verso i politici. Nella recente pubblicistica anglosassone ha avuto grande successo il concetto di «outside leader». Una definizione che si applicava a quei grandi leader che, anche quando ricoprivano ormai ruoli istituzionali chiave, continuavano ad avvalersi della armi dell´anti-politica, dell´outside leader, appunto: «Io non rappresento quelli di Washington, quelli di Roma, quelli di Bruxelles, io rappresento voi, io sono contro quelle sanguisughe». Ronald Reagan è stato il più grande degli outside leaders: usando questi moduli populisti ha raggiunto la presidenza degli Stati Uniti.
Ecco, l´anti-politica è un tipico modulo populista, che viene fuori come il sintomo di una patologia che colpisce la democrazia. In un sistema istituzionale funzionante ed equilibrato, infatti, c´è un elemento che gli studiosi chiamano fideistico e un elemento pragmatico. Senza di essi la democrazia non funziona. Ci si lega a una realtà istituzionale se ci sono ragioni di fiducia che vanno al di là del calcolo razionale, se c´è quella che Bagehot chiamava «the dignified part of institutions»: che può essere la regina, la bandiera, l´inno nazionale. Ma deve esserci anche la parte efficiente, quella che in inglese viene indicata col termine «delivery», che significa essenzialmente dare servizi.
Fascismo e nazismo sono regimi che giocano tutto sulla parte fideistica. E sappiamo che sono modelli non democratici. Ma anche laddove i sistemi istituzionali perdono del tutto la parte fideistica, affidandosi esclusivamente al calcolo razionale, la democrazia non è poi tanto in buona salute. Perché l´efficienza è sempre relativa e, inevitabilmente, si finisce con il dare troppo spazio agli individualismi, ai patti, ai mercanteggiamenti, che sono utili solo per chi partecipa allo scambio e non per la collettività nel suo insieme.
È qui che viene fuori il populismo. Purtroppo in una società come quella del nostro tempo siamo particolarmente esposti al modulo populista. Questo, infatti, ha gioco facile in una realtà che è fatta di individualità che non vengono facilmente composte dal proprio ruolo economico-sociale. Ma che sono alla ricerca di altri terreni di identità comune, in un mondo dominato da mass media che tendono a semplificare i messaggi, facendo leva più sull´emotività che sulla razionalità.
Il vantaggio competitivo è enorme. È facilissimo, infatti, lanciare messaggi semplificati contro l´establishment. Così come è facile usare i mass media per evidenziare problemi, insicurezze, paure e poi dire: qualcuno è contro di te, ma io sto dalla tua parte e risolverò i tuoi problemi. È un gioco da ragazzi. Ma quando poi si va al governo, e le responsabilità si hanno sul serio, il modulo funziona molto meno.
Forza Italia è un partito che innegabilmente sta mettendo radici ma, altrettanto innegabilmente, si è molto aiutato nel farlo con l´uso accentuato di richiami populisti. Il partito fondato da Silvio Berlusconi ha due caratteristiche fondamentali. La prima è che non ha una storia politica: quindi non è intralciato da un passato, da una tradizione, da valori che lo condizionano, è assolutamente libero di posizionarsi senza remore (salvo quella anti-comunista) in funzione della maggioranza. La seconda è che il suo leader, venendo dal mondo della comunicazione e della pubblicità, è bravissimo nel raggiungere il «consumatore», nel lanciare messaggi accattivanti al suo pubblico, nel far nascere comunità attorno a un prodotto, a una squadra di calcio, a un inno. Berlusconi è un maestro nel creare, attraverso le emozioni, un «io» collettivo. Uno dei suoi slogan è stato: ho guidato il Milan alla vittoria, posso guidare l´Italia alla vittoria. E a livello emozionale questo funziona. Ma la parte razionale ed efficiente, necessaria in ogni democrazia funzionante, almeno qui non c´è.
Lo stesso avviene quando il leader di Forza Italia si appella alla lotta santa contro i comunisti. Questo è un tipico modulo populista. Che in Berlusconi, tra l´altro, si unisce alla lotta contro l´establishment, perché lui fa coincidere l´establishment con il comunismo, o perlomeno con il post-comunismo. un messaggio, quest´ultimo, che è passato su una larga parte dell´opinione pubblica italiana: i comunisti che traggono vantaggio dalle loro cariche pubbliche, che occupano le case degli enti, che «campano» senza lavorare sulle spalle dello Stato. Il meccanismo è sempre lo stesso: sollevare i sentimenti della gente comune contro qualcuno o contro qualcosa. E naturalmente, poi, uno si domanda anche quanto è candida, a dir poco, una sinistra che offre appigli ad una critica del genere.
Ecco, dunque, il populista: c´è il nemico comune e c´è una volontà popolare che io interpreto. Firmo un contratto con te, come fece Berlusconi in diretta tv poco prima delle ultime elezioni, e se vinco che farò? Risolverò i problemi che ti metto sotto il naso, ti enfatizzo e ti estremizzo mentre ancora stanno governando gli altri.
Ricordo bene l´uso che fu fatto dall´opposizione durante il mio governo, del mezzo televisivo per diffondere tra i cittadini un forte senso di inquietudine nei confronti della criminalità. Sembrava che vivessimo nel paese degli orchi. I telegiornali si soffermavano, magari come prima notizia, su atti di criminalità, e la paura si diffondeva. A nulla servivano i dati del ministero degli Interni che indicavano la riduzione intervenuta del tasso di criminalità. Il messaggio passava con grande efficacia, giovando a chi intendeva strumentalizzarlo, ma provocando in realtà effetti devastanti sulle nostre comunità.
Il problema è anche che i mass media si prestano enormemente a questo gioco. Perciò capisco Sartori che, con quel suo fare cattivo, da fiorentino senza pietà, mette sotto accusa la televisione e l´uso che se ne fa. Tenendo conto di questa attitudine dei mass media alla semplificazione emotiva, allora, una politica volutamente populista può avere gioco facile su qualunque concorrente. Anche un sondaggio può diventare un´arma letale. Si è parlato di democrazia dei sondaggi. E in effetti quante volte abbiamo avuto l´impressione che attraverso di essi si provasse a condizionare l´opinione pubblica: si intervistano le solite 1500 persone e a queste si fa dire ciò che gli altri devono pensare. E ciò che più inquieta e che quegli altri, dopo un po´, magari, davvero la pensano in quel modo.
Ecco perché oggi il populista ha grandi vantaggi sul mercato della politica. Ma poi il populista va al governo. E qui i nodi vengono al pettine. Perché il populismo i problemi li fa vedere e li strumentalizza, ma difficilmente li sa anche risolvere. Per un po´ può ancora conservare il suo potere attribuendo ad altri la responsabilità del suo fallimento. Può inventarsi buchi nei conti pubblici, complotti dei magistrati, ostruzionismi sindacali, ma i problemi restano lì e alla fine la gente ne chiederà il conto.

(Il brano che pubblichiamo è tratto dal libro di Tornare al futuro, la sinistra e il mondo che ci aspetta che esce in questi giorni edito da Laterza)