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(Elie Wiesel, traduzione di
Anna Bissanti, da «la Repubblica», 27 gennaio 2004)
Nella foto, il Premio Nobel Elie Wiesel, di cui Garzanti ha pubblicato di recente il nuovo romanzo, Dopo la notte. |
Senza storie non esiste nulla. Le storie sono la memoria del mondo. Senza storie
il passato viene cancellato.
(Chaim Potok)
Undici aprile 1945: un ragazzino ebreo si svegliò e si rese conto d´esser vivo.
11 aprile 1945: era un giorno particolare per tutta quella gente - in gran parte
ebrei, ma non solo - che si trovava a Buchenwald, un campo vicino Weimar. Weimar
è una città famosa grazie a Goethe - e a causa di coloro che nel campo erano
stati condannati a morte. A partire dal 5 aprile, quando l'esercito americano
aveva iniziato l'avvicinamento al campo, il comando delle SS iniziò, giorno dopo
giorno, a eliminare migliaia di persone. Di 80mila che erano, ne erano rimasti
20mila circa, e questi dovevano essere fatti fuori proprio quell'11 aprile.
Quella mattina, quando si svegliarono, quei 20mila erano convinti d'esser
rimasti gli ultimi esseri umani viventi di Buchenwald. I cancelli furono
spalancati. Stava per avere inizio la marcia della morte. L'Angelo della Morte
stava aspettando. All'improvviso accadde qualcosa. Ancora oggi non so di preciso
cosa. Alcuni membri dei gruppi della resistenza interna al campo comparirono,
imbracciando delle armi, e attaccarono i tedeschi. Due ore più tardi arrivò
l'esercito americano.
Quando furono lì mi domandai chi, tra loro e me, fosse più reale. Mi domandai
chi, tra loro e me, fosse più umano. Mi domandai al sogno di chi io stessi
assistendo, se al loro o al mio. Il ragazzino ebreo di quell'11 aprile da quel
momento in poi ha dedicato la propria vita a scrivere storie, a raccontare
fatti, cercando di trovare le parole opportune per descrivere ciò che le parole
non possono dire, cercando di mettere a frutto quel che sapeva e quel che
ricordava.
Non ha cercato di destare pietà - è troppo tardi per la pietà. Non tentato di
provocare commozione - è troppo tardi anche per quella. Ha cercato, cosa ancor
più importante, di appellarsi a un qualche senso di giustizia, per il passato e,
soprattutto, per il futuro.
Credo che accadde verso mezzogiorno, o forse l'una. Ricordo con precisione che
cosa feci. Ricordo chi mi trovai accanto. Ricordo le parole che avrei voluto
proferire, ma che non proferii. Ricordo che alcuni prigionieri di guerra russi
rinchiusi a Buchenwald non vollero attendere oltre, impugnarono delle armi,
saltarono sulle jeep americane e si precipitarono a Weimar, la città della
cultura, la città dello spirito, a cercare vendetta.
Io ero troppo giovane ed ero troppo ebreo. Tutto ciò che i miei amici ed io
finimmo col fare fu radunarci nelle nostre baracche e organizzare un minjan, una
funzione religiosa. Che altro potevamo fare? Recitammo il Kaddish, la preghiera
per i defunti. La recitammo in un modo che non potrò mai dimenticare. La
recitammo nel modo in cui soltanto la gente squilibrata la sa declamare. Lì,
sulle rovine della speranza umana, sulle rovine della civiltà, giovani e vecchi
- esseri umani senza più età, spogliati di tutto ciò che dall'uomo è stato dato
all'uomo - ci riunimmo per santificare e glorificare il nome del Signore eterno.
Lì. In quel momento. Questo è ciò che facemmo.
Ora cerco di rievocare, cerco di richiamare alla memoria i fatti per capire come
questa storia conduca a me, che sono un insegnante, sono uno scrittore e cerco
di raccontare storie e di capire le storie che racconto. Che cosa provai quel
giorno? Che cosa provammo tutti noi quel giorno? Può sembrare sconcertante, ma è
la verità: in noi non ci fu assolutamente amarezza. Non esecrammo nemmeno i
nostri aguzzini. Fummo sopraffatti da un'indicibile tristezza - non solo per le
persone care che ci eravamo lasciati alle spalle, o che si erano lasciate noi
alle spalle, ma in un certo qual senso anche per il futuro, perché
istintivamente, intuitivamente, avevamo già percepito la verità. Una verità che
avrebbe aggiunto molte dimensioni alla nostra tragedia.
Ci rendemmo conto che per tutto quel tempo ci eravamo sbagliati. Avevamo
ritenuto che il mondo non sapesse. Il mondo sapeva. Inoltre comprendemmo anche -
ma soltanto molto più avanti - che gli assassini avevano messo in piedi un vero
e proprio apparato. Non fu semplicemente questione di uccidere, come in un
pogrom. L'ebreo è sempre stato abituato ai pogrom. Per molti secoli ha dovuto
conviverci, qualche volta sopravvivendo, altre volte perendo in essi. Questa
volta, invece, era stata messa in moto una vera e propria macchina e - Dio ce ne
scampi! - il sistema funzionava! Più tardi ancora scoprimmo anche che gli
assassini non rappresentavano la feccia della società, bensì si trattava di
gente che aveva studiato, molti dei quali laureati...
Ne abbiamo apprese di cose, da quell'11 aprile! I pochi di noi che
sopravvissero, sopravvissero soltanto per puro caso. E tuttavia proprio perché
sopravvissuti, ritenemmo che ogni minuto delle nostre vite dovesse essere
consacrato ad una sorta di missione impossibile - una vocazione, una
responsabilità, un obbligo. Dovevamo fare qualcosa dei nostri ricordi, di tutto
quello che sapevamo. Dovevamo farne qualcosa non tanto per amore dei nostri
morti, quanto per amore dei bambini che ancora dovevano nascere, ebrei e
cristiani, musulmani e buddisti, bambini di ogni dove.
Si presentò un problema. Non ne avevamo gli strumenti. Come scrivere, quali
parole utilizzare quando tutte le parole sono state ormai contaminate? Come
restituire loro l'originale bellezza, la loro purezza? Come esprimersi a parole,
quando si avverte che ognuna di esse è inadeguata, minimizza l'esperienza
vissuta, più che trasmetterla? Come si può comunicare qualcosa che per sua
stessa natura, se non per la sua portata, travalica ogni comprensione,
immaginazione, percezione umana?
In un primo tempo i sopravvissuti dell'apparato nazista furono altresì vittime
della società civile. Centinaia di migliaia di sopravvissuti, liberati nel 1945,
furono obbligati a rimanere con le loro famiglie negli stessi campi dai quali
erano stati liberati. Vi rimasero cinque anni, perché nessun paese volle
accoglierli.
A quel tempo nessuno poteva più dire "Non sapevamo". Tutti sapevano. Dopo la
liberazione i cancelli continuarono a rimanere sbarrati e, ciò nonostante, noi
non provammo indignazione. Persino allora continuammo soltanto a provare
tristezza.
Eravamo tristi perché la nostra storia non bastava come testimonianza; nessuno
voleva recepire le nostre parole. Per molti anni i sopravvissuti furono
considerati alla stregua di reietti... eppure ancora adesso credo che la storia
che essi cercarono di raccontare, la loro storia grondante d'angoscia, non è
circoscritta alla nostra sola vita. Riguarda me. Riguarda tutti noi...
E ora, abbiamo forse imparato a raccontarla quella storia? No, non ancora. Le
parole sono tuttora troppo elusive, le immagini troppo sfocate. Non vogliamo
raccontare storie tristi. Non vogliamo che vi rattristiate. Che cosa vogliamo da
voi? Che siate più consapevoli, più schietti, più sensibili. Ecco, questa è la
chiave giusta: maggiore sensibilità. Quando rievoco il passato, cercando di
capire e di soppesare gli eventi che condussero a quel genocidio, ricordo
insensibilità, indifferenza. Noi ebrei morimmo perché il mondo fu indifferente.
Abbiamo appreso che l'indifferenza per il male è essa stessa male. Abbiamo
appreso che se il male colpisce un popolo e gli altri non reagiscono, il male
esacerba le proprie dinamiche. Vorrei che potessimo fermarlo.
Quell'11 aprile 1945 un ragazzino ebreo cercò lì a Buchenwald di capire che
sogno stesse facendo. Ancora adesso sto tentando di capire se i miei sogni mi
appartengono davvero. Tutti i libri che ho scritto sono in realtà il mio modo di
parlare a quel ragazzino. Sento il suo sguardo fisso sul mio volto. Lo sento
chiedermi: "Che cosa ne hai fatto della tua vita?". Io scrivo. Scrivo. Scrivo.
Cercando di spiegarvi ciò che ho fatto della mia vita. Non lo so. La risposta
non verrà da me. Verrà dai nostri figli.
Libri Garzanti
per non dimenticare
Wiesel Elie DOPO LA NOTTE
€ 14.00
Fondendo memoria e invenzione, Dopo la notte approfondisce i temi chiave
della narrativa dello scrittore e Premio Nobel per la Pace: l’assenza e la
ricerca di una patria, l’imperativo e il fascino del nomadismo, la lotta
incessante tra l’oblio e la memoria, tra il dubbio e la fede. Senza smettere di
interrogarsi sulla terribile domanda che ossessiona la nostra epoca: come
ricominciare, dopo aver attraversato l’orrore, dopo averlo subito sulla propria
pelle?