La sentenza con la quale ieri la Corte d´Assise di Vienna ha condannato lo
storico "negazionista" David Irving dice una parola definitiva
sull´Olocausto, lo sterminio degli ebrei scientificamente attuato nel corso
della II Guerra Mondiale nel cuore della civilissima Europa.
L´Olocausto è una verità accertata ed è colpevole chi tenti di
ridimensionare o negare l´evento. La sentenza di Vienna dice una parola
definitiva su una vicenda, che ha insanguinato la Germania e l´Europa, ha
distrutto fisicamente milioni di uomini donne e bambini ebrei che avevano
vissuto vicino a noi per secoli, distruggendo con loro una gran parte della
nostra cultura, modificando il profilo fisico e culturale di molti paesi
europei dalla Germania alla Polonia all´Ungheria alla stessa Austria. Su
questa tragedia la sentenza di Vienna ha detto una parola definitiva. La
maggior parte di noi non ne aveva bisogno. Molti tra noi hanno visto con i
propri occhi le baracche e i forni crematori di Auschwitz, molti di noi si
piegano ancora emozionati sulle pagine scritte dai pochi testimoni
sopravvissuti e trovano ancora oggi insostenibili le immagini degli
scheletri ambulanti che uscivano barcollando dalle baracche dei campi quando
ne furono aperti i cancelli.
Questa sentenza dice però qualcosa di molto importante a quanti oggi, anche
nel nostro paese, esibiscono i simboli e le bandiere dei responsabili di
quei crimini. E dice qualcosa di importante anche a coloro che quei crimini
negano o sottovalutano.
Non si tratta tuttavia, in questo caso, di una pura controversia storica
(sulla quale è discutibile che possano essere i Tribunali a dire l´ultima
parola). La legge austriaca applicata ieri dal Tribunale di Vienna a David
Irving fa riferimento infatti anche a un pericolo, quello della
"riattivazione della politica nazionalsocialista" come possibile conseguenza
dell´affermarsi e del diffondersi, specie tra i più giovani, delle tesi "negazioniste".
Il pericolo è presente in Germania, dove si vanno diffondendo, recentemente,
con la negazione dell´Olocausto, aggressioni e violenze di tipo nazista nei
confronti degli immigrati e, tra i giovani, il consumo di musiche e bande
che si definiscono "nazirock" incoraggiate dalla Npd, un partito
dell´ultradestra. Il pericolo è presente anche in Austria, non solo per il
successo, sia pure recentemente ridimensionato, dei populisti alla Heider
(che ha sempre minimizzato i crimini nazisti) ma anche per la presenza di
una rete di ex criminali nazisti, mai pentiti e mai incriminati, che godono
di oscuri sostegni e complicità.
Con questa sentenza Vienna, che ha oggi la presidenza dell´Unione Europea, e
che, anche in un recente passato è sembrata restia a fare fino in fondo i
conti con la sua storia, vuol dire a tutti noi la sua decisione a condannare
le complicità e le debolezze e le ambiguità che le sono state attribuite,
nel passato, nei confronti del nazismo e della sua stessa storia in quel
periodo. Diceva ieri il politologo Plasser: «Il processo contro Irving avrà
per noi un forte valore simbolico. Potremo finalmente dimostrare di non
voler più chiudere gli occhi sul passato».
Sull´Olocausto, su un dramma che ha coinvolto milioni di uomini, e sulla
responsabilità dei carnefici (dovunque siano, anche se non sono stati ancora
raggiunti dalla giustizia e, probabilmente mai più lo saranno) questa
sentenza dice una parola definitiva. Con Vienna è la stessa Europa che
proclama questa verità. Indiscutibile, definitiva. Una sentenza che può
dunque essere letta anche come un ammonimento a quanti (valga per tutti il
caso del presidente iraniano) mettono in dubbio la veridicità dell´Olocausto
per mettere in dubbio, insieme, il diritto di Israele a vivere su quel pezzo
di terra che le è stato assegnato. Una sentenza che, se la si legga così,
non intende solo risolvere una controversia storica, ma riaffermare, in sede
europea, la volontà di impedire ogni rinascita delle destre di tipo nazista
e, in sede internazionale, la volontà di riaffermare la intangibilità dello
Stato d´Israele.
Irving, il
negazionismo e la galera
Nicola Tranfaglia
da
l'Unità
- 21
febbraio
2006
La condanna dell’inglese David Irving da parte di un tribunale austriaco a
una pena detentiva di tre anni per le tesi che negano i crimini del
nazionalsocialismo, primo tra i quali il massacro di sei milioni di ebrei,
zingari e omosessuali suscita in chi scrive sensazioni contrastanti.
Da una parte le tesi che Irving ha più volte sostenuto nei suoi libri anche
recenti pubblicati con clamore pubblicitario sono del tutto infondate sul
piano scientifico e documentario e appaiono oggettivamente pericolose
soprattutto per le nuove generazioni che non hanno nessun ricordo di quello
che è avvenuto in Europa prima e durante la seconda guerra mondiale e che
possono dunque credere che quelle tesi «negazioniste» corrispondono al vero
che almeno abbiano possibilità di essere confortate da successive ricerche.
C’è in questo senso una indubbia responsabilità morale per Irving e c’è la
prova che egli tradisce di fatto quella scienza storica che è fatta sul
piano metodologico di accostamento serio e consapevole a tutte le fonti
disponibili, di confronto attento e raffinato di quel che emerge da fonti
diverse, di scelte infine di un criterio di interpretazione che deve nascere
da un’approfondita conoscenza dell’intero contesto storico.
Irving nei suoi libri non fa nulla di tutto questo ma sembra in quello che
ho letto badare prima di tutto a negare senza ragioni attendibili il valore
di un numero assai alto di documenti ufficiali e non di testimonianze che
inducono a confermare le caratteristiche di fondo dell’universo
concentrazionario come pianificazione sistematica e di massa
dell’eliminazione con il ZYKLON B o con altri sistemi di milioni di donne di
bambini e di uomini nei campi di sterminio e nei Paesi occupati dalle Ss e
dalla Wermacht.
In questo senso la responsabilità intellettuale e morale di Irving come di
altri storici in passato è stata assai grande e va denunciata da chi ha
dedicato gran parte della propria vita al mestiere dello storico ritenendo
sempre che tradire quelle regole di metodo fu un errore di cui dover rendere
conto agli altri uomini.
E tuttavia chiariti questi aspetti che sono centrali nella vicenda di Irving,
bisogna ancora aggiungere che la condanna a una pena detentiva per le idee
espresse non ci sembra la reazione più matura da parte di una società
democratica.
Tanto meno da parte dell’Austria che per molti decenni dopo la fine della
guerra non ha fatto un esame adeguato né dal punto di vista del lavoro
storico né dal punto di vista della classe politica sui comportamenti tenuti
dalla maggioranza degli austriaci di fronte al fenomeno nazista.
L’Austria del 1938 vide gran parte della borghesia schierarsi apertamente
con il nazismo e sostenerlo senza incertezze fino alla disfatta finale.
Ma, ripeto, quel che è più grave è l’assenza di un esame critico di quell’esperienza
nei decenni successivi.
Sicché la severità giudiziaria appare per molti versi oggi come una sorta di
tentativo di oscurare quel che è stato proprio nel periodo precedente.
Più che condannare e mandare in galera i negazionisti occorrerebbe invece
che essi fossero isolati e sbugiardati in tutte le sedi scientifiche di una
società democratica che si è liberata di quello scomodo passato, come in
gran parte per altro è avvenuto in altri Paesi europei, a cominciare dalla
Germania.
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