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«RESISTENZA NEL GULAG»
Marta Craveri
una detective
della storia
Corrado
Ocone
Resistenza nel Gulag, il libro di Marta Craveri che Rubbettino manda in questi
giorni in libreria (pagg. 361, euro 22) non è solo «un capitolo inedito della
destalinizzazione in Unione Sovietica», come recita il sottotitolo. «Man mano
che proseguivo nella ricerca - dice l’autrice - mi rendevo conto che non si
poteva parlare della resistenza dei prigionieri nei campi di lavoro
nell’immediato dopoguerra, senza offrire al lettore un quadro di riferimento
preciso su come si era sviluppato il lavoro forzato e quali categorie di persone
erano state represse nel ventennio staliniano». La bibliografia sul tema è, a
tutt’oggi, carente e mancano, non solo in Italia, opere di sintesi o
d’insieme. Fu Gustav Herling che, nel 1991, incoraggiò l’autrice ad
occuparsi della questione. E in effetti la Craveri (nella foto con Evgheni S.
Gricak, uno degli organizzatori nell’estate del ’53 dello sciopero nel
Gorlag) partì subito per Mosca, ove fu la seconda persona occidentale a mettere
mano agli immensi fondi d’archivio del Gulag, l’amministrazione centrale dei
campi e delle colonie di lavoro, che allora si aprivano.
«Mi resi subito conto che la pratica dei lavori forzati non era stata
marginale: si trattava di un elemento strutturale di cui Stalin aveva bisogno
per mantenere il consenso. Il dittatore georgiano, al contrario di Hitler o
Mussolini, ebbe sempre un problema di consenso interno e per questa ragione il
terrore diventò progressivamente e a fasi alterne uno dei principali strumenti
di governo del paese». Dopo le prime repressioni bolsceviche durante la guerra
civile e le repressioni contro i contadini restii alla collettivizzazione, negli
anni Trenta cominciarono le repressioni di massa. «In un primo tempo furono i
dirigenti comunisti e i quadri di partito ad essere arrestati poi, in un
crescendo spaventoso, furono intere componenti sociali e politiche della società
ad essere condannate ai lavori forzati sia per reati politici che per reati
comuni».
Fino alla seconda guerra mondiale, i prigionieri erano soprattutto russi,
asiatici e ceceni. Poi, man mano che l’Unione Sovietica annetteva a sé nuovi
territori ad Occidente, cominciarono ad arrivare i polacchi, gli ucraini, i
baltici, i bielorussi...». E le cose cambiarono? «Sì, perché era la
composizione sociale e nazionale della popolazione dei campi a cambiare: i nuovi
prigionieri, che avevano un’esperienza della guerra e della lotta clandestina
sia contro i tedeschi che contro i sovietici iniziarono a tessere alleanze, reti
di rapporti, fra di loro e a volte anche con gli esterni, ad organizzarsi contro
le amministrazioni locali e a dar vita a diversi episodi di resistenza, che sono
un po’ il tema da cui era partita la mia ricerca e che, pertanto, sono
ampiamente descritti nel volume».
Come una vera e propria detective Marta Craveri, proseguendo i suoi studi negli
archivi, compiva anche vere e proprie missioni alla ricerca di ex detenuti che
avevano partecipato agli scioperi e alle rivolte nei campi. Raccoglieva
testimonianze, faceva interviste (molte sono riportate in appendice al volume).
«Il Gulag - continua l’autrice - era nato sì per una volontà politica, per
contenere cioè i flussi continui di diverse categorie di persone represse, ma
costituiva una realtà anche economica, anzi, possiamo dire un’anomalia
economica, poiché con Stalin in Urss il ministero degli Interni era uno dei
dicasteri economici più influenti e potenti. Quest’anomalia costituì
senz’altro un freno allo sviluppo del paese, perché se da una parte, grazie
al lavoro forzato si colonizzarono nuove terre sconfinate, si aprirono centinaia
di miniere, pozzi e cantieri, si edificarono migliaia di città, e centinaia di
migliaia di km di strade e ferrovie, dall’altra tutto questo ebbe dei costi
umani, sociali, politici ed economici troppo alti perché una società potesse
svilupparsi in maniera positiva».