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ARENDT La mente imparziale

Hannah Arendt, la più autorevole "teorica della politica" del Novecento, tedesca e ebrea, allieva di Jaspers, amica di Heidegger, moglie di Gunther Anders, testimone e interprete delle tragedie del "secolo breve". Dialogando con il giornalista Gunther Gaus, per la tv della Repubblica Federale tedesca, il 25 ottobre 1964 (la Arendt aveva allora 58 anni), ripercorse la sua formazione culturale, il suo giudizio sul nazismo e sionismo, la sua idea di "verità" nella ricerca storica. Anticipiamo alcuni passi di quell'intervista, che introduce ora il primo volume dell'"Archivio Arendt. 1930-1948", in uscita la prossima settimana da Feltrinelli (pp. 248, L. 55.000, a cura di Simona Forti: vi sono raccolti scritti, in gran parte inediti, politici, letterari e filosofici (da Sant'Agostino a Kierkegaard, da Kafka a Sarte).

Al momento, al centro della sua opera vi è l’interesse per la teoria politica, l’azione e il comportamento politico. Tenuto conto di ciò, mi sembra particolarmente interessante un passo del suo scambio epistolare col professor Scholem, dove lei scrive che "in gioventù non provava alcun interesse per la politica o la storia". Signora Arendt, nel 1933, a ventisei anni, lei ha dovuto lasciare la Germania perché ebrea. Vi è forse un nesso tra questi eventi e il suo interesse per la politica, o meglio la fine della sua indifferenza verso la politica e la storia?

"Ovviamente, sì. Nel 1933 l’indifferenza non era più possibile. A ben vedere, non era possibile neanche prima".
Anche per lei?
"Ovviamente, sì. Leggevo i giornali con attenzione, avevo delle opinioni, ma non appartenevo a un partito, né ne sentivo il bisogno. Sin dal 1931 ero certa che i nazisti avrebbero preso il potere. Discutevo in continuazione di questi problemi, ma non mi sono occupata in maniera sistematica di queste cose finché non ho deciso di emigrare".
Visto che lei era certa che i nazisti avrebbero fatto di tutto per conquistare il potere, non sentì l’impulso di fare qualcosa per impedirlo - per esempio aderire a un partito - o riteneva che non avesse più alcun senso?
"Personalmente pensavo non avesse senso. Altrimenti - anche se è difficile stabilirlo con certezza a distanza di anni - avrei probabilmente fatto qualcosa. Pensavo che la situazione fosse disperata".
Si ricorda di un particolare evento cui può essere fatto risalire il suo cambiamento d’atteggiamento nei confronti della politica?
"Direi il 27 febbraio 1933, l’incendio del Reichstag, e gli arresti illegali che ne seguirono la notte stessa: la cosiddetta custodia preventiva. Come lei sa, gli arrestati finivano nelle celle della Gestapo o nei campi di concentramento. Ciò che accadde era mostruoso, anche se ora appare nulla in confronto alle cose avvenute in seguito. Per me fu un vero trauma, e da allora mi sentii responsabile, non pensavo più, cioè, che si potesse rimanere degli osservatori, e così ho cercato di rendermi utile in molti modi. Intendevo emigrare in ogni caso. Avevo capito fin dall’inizio che gli ebrei non potevano restare. Non era mia intenzione vagare per la Germania come una cittadina di seconda classe, se posso esprimermi così. Per di più, ero certa che le cose sarebbero andate sempre peggio. Comunque, alla fine, non me ne sono andata così pacificamente. E devo riconoscere che ne vado orgogliosa. Venni arrestata e dovetti lasciare il Paese illegalmente e fu per me una grande soddisfazione. Pensavo: almeno ho fatto qualcosa! Almeno non sono "innocente". Nessuno avrebbe potuto dirlo di me!".
Lei è nata a Hannover nel 1906, suo padre era un ingegnere, ed è cresciuta a Königsberg. Ricorda che cosa significava per una bambina appartenere a una famiglia ebrea nella Germania prebellica?
"Per quanto mi riguarda, non ho preso coscienza in famiglia della mia identità ebraica. Mia madre non era affatto religiosa".
Suo padre è morto giovane.
"Sì, mio padre è morto quand’era ancora giovane. Suona tutto molto strano. Mio nonno era il presidente della comunità liberale ebraica e consigliere comunale a Königsberg. Vengo da una vecchia famiglia ebrea. Comunque, la parola "ebreo" non veniva usata quando ero bambina. Mi ci sono imbattuta per la prima volta ascoltando le battute antisemite - che è meglio non ripetere - dei bambini per le strade. Da quel momento ho avuto, per così dire, un’"illuminazione"".
Le manca l’Europa del periodo prehitleriano, una realtà scomparsa per sempre?. Quando torna in Europa che cosa le pare sopravvissuto e che cosa irrimediabilmente perduto?
"L’Europa del periodo prehitleriano? Non mi manca affatto. Posso assicurarglielo. Che cosa resta? Resta la lingua".
E ciò significa molto per lei?
" Moltissimo. Mi sono sempre deliberatamente rifiutata di perdere la mia lingua madre. La lingua tedesca è la cosa essenziale che è rimasta e che ho sempre volutamente conservato".
Anche nei momenti più amari?
"Sempre. Mi dicevo: che cosa posso farci? Non è stata la lingua tedesca a impazzire e, d’altro canto, la lingua madre non ha eguali. E’ vero, le persone possono dimenticare la lingua madre, l’ho visto coi miei stessi occhi...".
Questa dimenticanza è il prodotto di una rimozione?
"In molti casi sì. L’ho visto accadere ad alcuni come conseguenza di un trauma. Vede, decisivo non fu l’anno 1933, quantomeno non per me; decisivo fu il giorno in cui venimmo a sapere di Auschwitz".
E quando avvenne?
"Nel 1943. All’inizio non riuscivamo a crederci, anche se io e mio marito abbiamo sempre detto che ci si poteva aspettare qualsiasi cosa da quella marmaglia. Non riuscivamo a crederci perché, militarmente non era né necessario né utile. Mio marito (Gunther Anders n. d. r.) Se ne intende un po’ di queste cose, perché in passato si è occupato di storia militare, e mi ripeteva: non farti ingannare, non prendere sul serio queste storie, non possono arrivare a tanto! E, poi, dopo pochi mesi dovemmo ricrederci, perché avevamo le prove. Quello fu un vero trauma. Prima di allora ci dicevamo: be’, ognuno ha i suoi nemici, è naturale. Perché un popolo non dovrebbe avere dei nemici? Ma questo era diverso. Era proprio come se si fosse spalancato un abisso sotto i nostri piedi, perché prima pensavamo che a tutto si potesse porre rimedio, come in un modo o nell’altro accade per quasi tutto in politica. Ma questo non sarebbe dovuto accadere. E non mi riferisco solo al numero delle vittime, mi riferisco al metodo, lo sterminio su base industriale ecc.. Questo non doveva accadere. Era accaduto qualcosa con cui era impossibile venire a patti. Nessuno di noi potrà mai farlo. Tutto il resto - la povertà, l’essere inseguiti, la fuga - è stato sì difficile, ma in un modo o nell’altro, volenti o nolenti, lo abbiamo dovuto affrontare. Così stavano le cose. Ma eravamo giovani. Un po’ mi divertiva, persino - non posso negarlo. Ma non questo. Questo era qualcosa di completamente diverso. Personalmente potevo accettare tutto, ma non questo".
Lei ha detto: "nella mia vita non ho mai "amato" nessun popolo o collettività, né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la classe operaia, né nulla di questo genere. In effetti io amo solo i miei amici, e la sola specie d’amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone. Inoltre, questo "amore per gli ebrei" mi sembrerebbe, essendo io stessa ebrea, qualcosa di piuttosto sospetto". In quanto essere attivo politicamente, l’uomo non ha forse bisogno di sentire un vincolo con un gruppo, un legame che in una certa misura può essere definito amore? Non teme che il suo atteggiamento possa rivelarsi politicamente sterile?
"No, secondo me è l’altro atteggiamento a essere politicamente sterile. Innanzitutto, l’appartenenza a un gruppo è una condizione naturale. Si appartiene a un gruppo per nascita, sempre. Ma appartenere a un gruppo nel senso da lei inteso, diverso da questo primo significato, cioè aderire o formare un gruppo organizzato, è qualcosa di completamente diverso. Questo genere di organizzazione si costituisce sempre in relazione al mondo: ciò che accomuna gli uomini che si organizzano sono quelli che in genere vengono chiamati interessi. La relazione personale diretta, rispetto alla quale si può legittimamente parlare d’amore, esiste ovviamente anzitutto nell’amore e anche, in un certo senso, nell’amicizia. Qui una persona viene chiamata in causa direttamente, indipendentemente dalla sua relazione col mondo. Di conseguenza, persone delle organizzazioni più diverse possono essere anche amici personali, ma se si confondono questi piani, se, per parlar schietto, si porta l’amore al tavolo del negoziato si commette secondo me un errore fatale".
Signora Arendt, ritiene sia suo dovere pubblicare tutto ciò di cui viene a conoscenza attraverso la riflessione politico-filosofica o l’analisi sociologica? O ci sono motivi validi per tacere su alcune cose che sa?
"Be’, vede, questo è un problema molto complesso e sta al centro della sola questione che mi abbia davvero interessato nell’intera controversia sorta intorno al libro su Eichmann ( La banalità del male n. d. r.). E non sarebbe sorta se non l’avessi suscitata. E’ la sola questione seria, tutto il resto è mera propaganda. Allora fiat veritas et pereat mundus ? Ma il libro su Eichmann, de facto , non verte su queste cose; in realtà non mette a rischio gli interessi legittimi di nessuno; così lo hanno dipinto, ma le cose non stavano affatto così".
E’ lecito tacere di fronte a una verità certa?
"Mi è stato chiesto: se avesse previsto questa o quella reazione, avrebbe scritto il libro su Eichmann in maniera diversa? E la mia risposta è stata: no. Avrei soppesato le alternative: scrivere o non scrivere. Perché si può sempre tenere a freno la lingua. Non si deve sempre parlare. Ma così incappiamo nel problema di quelle che nel XVIII secolo venivano chiamate le "verità di fatto". E qui ci troviamo di fronte proprio a una questione di verità di fatto, non di opinioni. Nelle università le scienze storiche sono le custodi delle verità di fatto".
Benché non siano sempre state le migliori custodi.
"No, talvolta capitolano e si mettono al servizio dello stato. Mi hanno raccontato di uno storico che posto di fronte a un libro sulle origini della Prima guerra mondiale ha esclamato: "Non lascerò che si rovini così la memoria di un evento tanto esaltante! ". Ecco un uomo che non sa proprio chi è. Ma non è questo il punto. De facto egli è il custode della verità storica, della verità dei fatti, e quanto questi custodi siano importanti ce lo dimostra, per esempio, la storia bolscevica in cui la storia viene riscritta da capo ogni quattro cinque anni e i fatti - per esempio il fatto che sia esistito un signore di nome Trotzkij - rimangono ai più sconosciuti. E’ questo ciò che vogliamo? Ciò a cui sono interessati i governi?".
Forse hanno un interesse del genere, ma ne hanno anche il diritto?
"Ne hanno il diritto? Nemmeno loro paiono crederlo, altrimenti non tollererebbero l’esistenza delle università. Pertanto, anche gli stati sono interessati alla verità. Non mi riferisco qui ai segreti militari; quella è tutta un’altra faccenda. Ma gli eventi di cui stiamo parlando risalgono più o meno a vent’anni fa. Perché non si dovrebbe dire la verità?".
Forse perché vent’anni sono ancora troppo pochi?
"Sono in molti a sostenerlo; altri dicono che dopo vent’anni è impossibile stabilire la verità. In ogni caso, vi è un interesse a sbarazzarsi dei panni sporchi. Ma questo non è un interesse legittimo".
Nel dubbio, lei privilegerebbe la verità.
"Preferirei dire imparzialità, che fece la sua prima comparsa con Omero..."
Anche per i vinti...
"Esatto! "Se le voci del canto tacciono/Davanti all’uomo sconfitto/Sarò io a testimoniare per Ettore". Giusto? Così Omero. E poi è venuto Erodoto, che parlò delle "grandi gesta dei Greci e dei barbari". Tutta la scienza trae origine da questo spirito, anche la scienza moderna, e anche le scienze storiche. Se uno è incapace di una simile imparzialità, perché sostiene di amare il proprio popolo a tal punto che gli è impossibile non ossequiarlo a ogni pie’ sospinto, allora non c’è niente da fare. Non credo che individui del genere siano dei veri patrioti.