torna a: TRACCE SENTIERIArthur Koestler, Buio a mezzogiorno: il romanzo della passione rivoluzionaria e del disincanto, scritto da tra il 1938 e il 1940, a ridosso delle purghe staliniane, in qualche misura tutta la grandezza e tutta la miseria della militanza comunista novecentesca.
"Rubasciov scese; i tassì di quella cittadina non avevano ancora tassametro. ‘Quant'è’, chiese. ‘Nulla’, rispose l'autista. La sua faccia era vecchia e rugosa; egli si trasse un lurido cencio dalla tasca del giubbone di cuoio e si soffiò il naso senza troppe cerimonie. Rubasciov lo guardò attentamente attraverso le lenti del pince-nez. Era certo di non avere mai visto quella faccia prima d'ora. L'autista ripose il fazzoletto. ‘Per la gente come voi, signore, la corsa è sempre gratis’, disse e si chinò ad allentare il freno. Poi bruscamente porse la mano. Era la mano di un vecchio, dalle grosse vene in rilievo e dalle unghie nere. ‘Buona fortuna, signore’, disse, con un sorriso quasi timido. ‘Se il vostro giovane amico dovesse aver bisogno di qualche cosa… la mia stazione è davanti al museo. Potete mandargli il mio numero, signore.’". C'è in queste poche righe di Buio a mezzogiorno, il romanzo della passione rivoluzionaria e del disincanto, scritto da Arthur Koestler tra il 1938 e il 1940, a ridosso delle purghe staliniane, in qualche misura tutta la grandezza e tutta la miseria della militanza comunista novecentesca. Rubasciov è un alto dirigente della Terza Internazionale (una figura che Koestler conosceva direttamente per averla impersonata nella prima parte della propria vita). La scena si svolge in una cittadina tedesca, alla metà degli anni trenta, in piena dittatura nazista, in un clima di terrore e di sospetto. Il tassista è, evidentemente, un simpatizzante comunista che aveva intuito da una parola sfuggita nel commiato (un "compagno" bisbigliato in fretta) l'identità politica del proprio cliente, il quale, proprio per quell'"errore", aveva sospettato di lui e meditato di cambiare tassì per evitare il rischio di una denuncia. La "gente come voi" cui accenna il tassista sono i militanti comunisti che ancora resistevano nella clandestinità, braccati dalla polizia segreta, arrestati, torturati. Il giovane cui si riferisce il brav'uomo è il responsabile della cellula comunista del posto. Quello che egli non sa è che nel colloquio segreto appena svoltosi in una sala del museo cittadino, Rubasciov gli ha comunicato l'espulsione dal partito, per "disfattismo" e "deviazionismo" (s'intestardiva ad affermare che in Germania il Partito aveva subìto una dura sconfitta, e non una semplice "ritirata strategica" come sosteneva il "Centro"). E che lo stesso Rubasciov, che il giovane aveva rispettato e amato come un padre, poche ore più tardi l'avrebbe denunciato in forma anonima alla polizia politica hitleriana, com'era prassi, in quei tempi, nei confronti dei militanti caduti in disgrazia. Proprio lui, che aveva sospettato un possibile delatore nel bravo tassista (il sospetto era un dovere professionale per quelli come lui), si preparava a tradire un compagno che il Partito aveva giudicato traditore. Il punto d'osservazione è certamente parziale e forse troppo estremo: il luogo geometrico posto tra due dittature e tra due guerre mondiali, il cuore di tenebra dell'Europa, quando tutti i suoi angeli si mutarono in demoni. E tuttavia si presta a rivelare in filigrana i tratti genetici più netti di quella figura a suo modo inedita ed essa stessa estrema che fu il "militante" della tradizione rivoluzionaria novecentesca, per metà eroe popolare e per metà gelido funzionario. Simbolo, all'esterno, dell'emancipazione e della liberazione, della capacità di resistenza e di opposizione alla tirannide; di più, protagonista e condizione della lotta alla tirannide. E portatore, all'interno, nello spazio esclusivo e sacralizzato che era, appunto, il Partito, di una pratica esemplare di subordinazione monacale e di rinuncia a ogni autonomia individuale di fronte alla volontà tirannica del "Centro". Talvolta, addirittura, di fedeltà ad esso spinta fino all'abiezione, alla dissoluzione di ogni fedeltà e di ogni morale che non fossero quelle dell'"apparato", della macchina (organizzativa) fattasi dio. Questo nuovo "tipo umano" - nato col secolo, e forse con il secolo destinato a morire - era il prodotto di almeno tre grandi "eventi storici". Di tre "cesure" temporali. In primo luogo della guerra, della prima guerra mondiale, l'evento che farà da levatrice al nuovo secolo annunciando che "le temps des assassins" (come l'aveva chiamato Rimbaud) era giunto: il primo massacro di massa, che vedrà le masse protagoniste e vittime. Il "militante" rivoluzionario novecentesco nasce come "soldato", avendo la "guerra" come orizzonte, con la stessa "disciplina" del soldato, la stessa volontà di vittoria, lo stesso spirito di "mobilitazione totale". Soldato di un esercito senza frontiere, universale, ma con uno stato maggiore ben identificato e delimitato da confini stretti, da un'identità ideologica nettissima. Il suo linguaggio è militare. Le sue gerarchie sono militari. Persino la sua morale è militare, sempre sul filo delle questioni di vita o di morte. Sempre dominata dai demoni della logica "amico/nemico". In secondo luogo la Rivoluzione, la rivoluzione russa, la prima figlia illegittima della guerra, quella in cui, di colpo, la rivolta delle masse si fece Stato. Si condensò e congelò nelle forme rigide dello Stato nazionale sovietico e fece della grande rete dei militanti comunisti, d'improvviso, un grande corpo di "uomini di stato", titolari essi stessi degli "arcana imperii" che connotano, appunto, la sovranità statale, portatori della stessa "etica della responsabilità" che caratterizza gli uomini di governo, ognuno con l'anima spaccata tra sovversione e ordine, tra rivolta e comando, tra Piazza e Caserma. Ognuno un po' ribelle e un po' poliziotto, un po' apolide e un po' diplomatico. Infine i fascismi, il vero evento che prolungò la Guerra nella Politica. Che fece della politica un campo di battaglia feroce, spietato, e della clandestinità, della separazione dalla sfera pubblica, una condizione di sopravvivenza, elevando, appunto, le "tecniche di sopravvivenza" (del singolo, ma soprattutto del collettivo, dell'organizzazione, dell'"apparato") a presupposto ed essenza dell'azione politica. Ma aldilà di questi tre aspetti "evenemenziali", pur decisivi, ce n'è un altro, più profondo, più direttamente implicato con lo spirito del tempo, che rende questa nuova "figura" tipicamente "novecentesca"; che l'impasta e l'identifica con uno dei tratti più propri dell'essenza sociale e culturale del secolo. Ed è il rapporto con l'Organizzazione. Con l'"organizzazione scientifica" come chiave della trasformazione sociale. E' l'idea, interpretata in forma esemplare da Lenin e da Trotzky, che esista una "macchina per fare la storia", capace di mettere al lavoro le leggi profonde della società trasformandole in energia rivoluzionaria. Idea, d'altra parte, del tutto simile a quella di Taylor e Ford che esista una macchina per fare la materialità quotidiana, capace di sfruttare in modo scientifico le leggi dell'ergonomia per trasformarle in energia produttiva. Essa si basava sulla convinzione che il mondo possa trovare una propria sintesi, un proprio punto di condensazione, in un "sistema organizzato" e gerarchizzato (il Partito, per gli uni, la Fabbrica per gli altri) dal quale la complessità dei processi potesse essere governata e diretta verso un fine condiviso, secondo sequenze prevedibili e predeterminabili. Il Comitato Centrale, la Direzione, la Segreteria (talvolta la parola del Segretario generale) diventavano così i luoghi in cui l'opacità della Storia si dissolve e si disvelano le sue leggi di movimento, la sua direzione e il suo senso (un po' come nell'ufficio tempi e metodi della fabbrica tayloristica l'opacità del lavoro, i suoi misteri, la sua soggettività si sciolgono e vengono ridotti alle geometrie formalizzate dell'one best way). E il militante, fattosi "uomo dell'organizzazione", diventa, nell'eseguire le direttive del vertice, l'esecutore del corso storico. Il Demiurgo che favorisce la nascita del tempo nuovo, dotato d'infinita potenza fintantoché si sottomette alla volontà collettiva dell'organismo in cui è parte, ma destinato al nulla se, per una qualche ragione, se ne dovesse staccare, o divergere. Si spiega così la grande forza che sembrava emanare da quegli uomini, e insieme la loro disciplinata dipendenza: il tenace rifiuto ad abbandonare il ceppo del Partito anche se convinti dei suoi errori (ed orrori), perché uscire da esso avrebbe significato uscire dalla storia. Rinunciare a "quella" organizzazione avrebbe significato rinunciare all'azione (ad ogni azione). Così come si spiega, d'altra parte, l'assoluta prevalenza del "noi" sull'"io" che segna a fondo quell'universo di valori; il potere di quell'identità collettiva di assorbire e dissolvere in sé l'autonomia individuale mettendola a tacere con la forza delle cose grandi e "di tutti" di contro alla piccolezza delle "questioni personali" (dei "singoli"). A quella figura di "militante" appartiene per intero la dimensione epica e insieme tragica della vicenda del movimento operaio novecentesco. Finché essa durò. O meglio finché durò la carica escatologica di quell'esperienza: la proiezione nel futuro storico della promessa d'emancipazione. Poi, sopito il grande fuoco, caduto l'orizzonte della trasformazione radicale, esaurita anche la carica eroica degli "anni duri", finì per lasciare dietro di sé, come residuo solido, solo le scorie di quel modello umano: funzionari ammalati di machiavellismo, di realismo fine a se stesso, di organizzativismo, di "cultura del sospetto"; tecnici del potere, talvolta intelligenti e preparati, talaltra cinici e disincantati; nella migliore delle ipotesi onesti amministratori sensibili alle istanze di una democrazia gestionale. Oppure naufraghi consapevoli della necessità di una dura palingenesi da realizzarsi attraverso un lungo attraversamento del deserto. Neppure la nouvelle vague del '68 saprà rinnovare veramente quel modello: quando si sforzò di imitarlo, di dar luogo a una nuova generazione di "militanti", non fece che riprodurne in forma caricaturale i vizi pubblici (senza poterne imitare le private virtù). "La militanza mi portava alla morte. Ero una macchina per ammazzare e per morire, tu mi hai mostrato la vita" confessa, alla donna di cui si è innamorato perdutamente, Santiago, il protagonista dell'ultimo romanzo di Manuel Scorza, La danza immobile, pubblicato nel 1983, pochi mesi prima della morte del suo autore, quando anche gli ultimi fuochi di guerriglia in America Latina andavano spegnendosi, e nel mondo dilagava il grande freddo della restaurazione neoliberista. La "vita" come mondo privato degli affetti, come amore ma anche amicizia non segnata dal sospetto, curiosità non spenta dal dovere, relazione non mediata dall'organizzazione, "io" non fagocitato dal "noi", tempo vissuto e non "investito" per un fine lontano. E si direbbe finalmente approdato, l'antico guerrigliero: l'uomo che si era legato ai propri compagni con un patto di sofferenza nel presente in nome del futuro, e si era educato a una spietata disciplina per poter sognare un giorno un mondo di esseri liberi. Si direbbe acquietato nella pienezza di un "qui ed ora" non rimandabile, se non dovesse scoprire, poche pagine più avanti, svanito il sogno d'amore, che si era perso nel nulla. E non dovesse invidiare l'amico Nicolàs, il militante coerente che aveva accettato il proprio destino ed era tornato a morire in armi nel proprio paese ("Fra l'amore e la rivoluzione Nicolàs aveva scelto l'amore e la rivoluzione; in qualsiasi posto fosse caduto, Nicolàs era caduto verso l'alto salendo in pace; lui, invece, fra l'amore e la rivoluzione aveva scelto niente…"). "Scegliere il nulla" è il rischio di chi vive questa nuova fine di secolo, ora che l'antico modello della militanza (la chiave della storia, per viverla e per mutarla) si è irrigidito. Si è fatto, appunto, danza immobile. E' sprofondato tra i mille fili spezzati di una realtà non sintetizzabile né condensabile in un "sistema organizzato". Inventarne un nuovo modello, meno tragico, meno drammaticamente scisso tra mezzi e fini, tra "interno" ed "esterno", tra "io" e "noi", tra presente e futuro, è la condizione per ritornare a danzare. Ma forse, per farlo, occorrerà aspettare la musica del Pianista di Montalbàn, e lo strepito della folla variopinta di Seattle.
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