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"Dov'è
dunque Dio", in Elie Wiesel, La notte, Giuntina, Firenze 2000,
p. 65-67 (ricordato in una lettera di don Pierluigi Sambuceti, parroco d Rupinaro - Chiavari, ad Eugenio Scalfari, in Espresso 14 novembre 2002) Ho
visto altre impiccagioni, ma non ho mai visto un condannato piangere, perché già
da molto tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle
lacrime. Tranne
che una volta. L'Oberkapo del 52° commando dei cavi era un olandese: un
gigante di più di due metri. Settecento detenuti lavoravano ai suoi ordini e
tutti l'amavano come un fratello. Mai nessuno aveva ricevuto uno schiaffo dalla
sua mano, un'ingiuria dalla sua bocca. Aveva
al suo servizio un ragazzino un pipel, come lo chiamavamo noi. Un bambino
dal volto fine e bello, incredibile in quel campo. (A
Buna i pipel erano odiati: spesso si mostravano più crudeli degli
adulti. Ho visto un giorno uno di loro, di tredici anni, picchiare il padre
perché non aveva fatto bene il letto. Mentre il vecchio piangeva sommessamente
l'altro urlava: «Se non smetti subito di piangere non ti porterò più il pane.
Capito?». Ma il piccolo servitore dell'olandese era adorato da tutti. Aveva il
volto di un angelo infelice). Un
giorno la centrale elettrica di Buna saltò. Chiamata sul posto la Gestapo
concluse trattarsi di sabotaggio. Si scoprì una traccia: portava al blocco
dell'Oberkapo olandese. E lì, dopo una perquisizione, fu trovata una
notevole quantità di armi. L'Oberkapo
fu arrestato subito. Fu torturato per settimane, ma inutilmente: non fece
alcun nome. Venne trasferito ad Auschwitz e di lui non si senti più parlare. Ma
il suo piccolo pipel era rimasto nel campo, in prigione. Messo alla
tortura restò anche lui muto. Allora le S.S. lo condannarono a morte, insieme a
due detenuti presso i quali erano state scoperte altre armi. Un
giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale
dell'appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le
mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e
fra loro il piccolo pipel, l'angelo dagli occhi tristi. Le
S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo
davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Il capo del campo
lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi
calmo, e si mordeva le labbra. L'ombra della forca lo copriva. Il
Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia. Tre
S.S. lo sostituirono. I
tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero
introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. -
Viva la libertà! - gridarono i due adulti. Il
piccolo, lui, taceva. -
Dov'è il Buon Dio? Dov'e? - domandò qualcuno dietro di me. A
un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. Silenzio
assoluto. All'orizzonte il sole tramontava. Scopritevi!
- urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo. -
Copritevi! Poi
cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula,
ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il
bambino viveva ancora... Più
di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando
sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo
quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora
spenti. Dietro
di me udii il solito uomo domandare: -
Dov'è dunque Dio? E
io sentivo in me una voce che gli rispondeva: -
Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca... Quella
sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.
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