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INCIDENTE IN AULA
Quel gesto di stizza del Cavaliere
di GIAN ANTONIO
STELLA
«Ma va...». Biiiip. Se
Silvio Berlusconi abbia o non abbia detto proprio «quelle parole lì»
sbuffando verso Oscar Luigi Scalfaro lo stabilirà (forse) la moviola. Il gesto
però, immortalato dalle telecamere che riprendevano il dibattito al Senato
sull’intervento in Iraq, è stato inequivocabile. Polso fermo, mano aperta,
ceffone all’aria: ma va a spasso! «Un gesto oltraggioso e volgare», hanno
dichiarato quelli della Margherita. «A spasso anche voi! », hanno risposto
quelli del Polo. Certo è che, nel pieno della discussione sulle scelte, le
responsabilità, i rischi e le paure di una nuova guerra, l’episodio è
scoppiato come un petardo, segnalando il riacutizzarsi, nel cortile della
politica nostrana, di una guerretta. Quella fra il Cavaliere e l’ex presidente
della Repubblica. Che va avanti, insanabile, ormai da otto anni.
Come sia andata ieri lo possono ricostruire, almeno in parte, i resoconti
stenografici e le immagini televisive. A Palazzo Madama, dopo il discorso del
capo del Governo e alcuni altri interventi, sta parlando Scalfaro. In aula non
sono rimasti in molti. Alcuni leggono il giornale, altri sonnecchiano, altri
ancora sfogliano la rassegna stampa. Berlusconi è girato con la testa a
parlottare con un senatore di Forza Italia, Salvatore Lauro. L'ex capo dello
Stato se ne accorge. E fulmina Berlusconi facendo finta di rivolgersi al suo
interlocutore: «I parlamentari che impediscono al Presidente del Consiglio di
ascoltare un dialogo non svolgono un compito né educato, né intelligente».
La sinistra applaude, Marcello Pera raccoglie e bacchetta: «Senatore Lauro, la
prego di non disturbare il Presidente del Consiglio».
Scalfaro sibila: «Capita perché qui siamo eletti a suffragio universale, e
qualcuno pare più di suffragio che di universale!». Ancora Pera: «Senatore
Lauro, la prego». Il premier, che si era voltato spazientito, si gira di nuovo
dall'altra parte, ostentando il suo disinteresse. Scalfaro... Ancora... Uffa...
Ed è qui che leva la mano: ma va... Al che salta su il senatore ulivista Paolo
Giaretta: «Presidente, impari l'educazione!».
Bagarre. Applausi ironici. Urla.
Mai andati d'accordo, quei due. Certo, rivendicano entrambi d'essere stati
democristiani, di avere avuto una parte (uno come giovane deputato destrorso,
l'altro come attacchino di manifesti) nella campagna elettorale del 18 aprile
'48, d'aver vissuto con passione le prediche («Misureremo insieme l'altezza
vertiginosa dell'Uomo Bianco che vive in Vaticano al di sopra degli spazi e dei
millenni?») di padre Lombardi e di conservare una venerazione per Alcide De
Gasperi. Fine.
Diversi gli interessi culturali, diversi i gusti estetici, diversi gli stili di
vita, le letture, i vestiti, i panciotti, le sciarpe.
Diverso il rapporto con la religione e più ancora diversa la visione del
corretto equilibrio tra Stato e Chiesa.
Abissalmente lontano, infine, il linguaggio. Con l'uno convinto della bontà
dello spot televisivo, del sorriso panoramico, delle immagini pastello, delle
barzellette, delle battute e perfino del gesto delle corna che «creano uno
spirito amichevole» e l'altro che, preferendo alle convention le conferenze su
«Santa Brigida profeta dei tempi nuovi», è capace di dire cose tipo: «Io
sono un broccolo, ma è meglio essere un broccolo nel campo del Signore che un
fiore piantato fuori dal campo». Come giudicasse il berlusconismo lo spiegò a
un convegno elogiando Ferruccio Parri: «Non è mai stato in vetrina. Non ha mai
avuto clamore dinanzi. Non ha mai i fari concentrati su di sé come si fa per un
prodotto».
Erano destinati a scontrarsi. E si scontrarono. Era il 1994. Oscar Luigi,
andando a smentire la campagna elettorale azzurra che paventava l'iradiddio nel
caso avesse vinto la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto, disse:
«La democrazia e le libertà non corrono alcun rischio». Silvio saltò su: «Ho
letto con stupore ciò che dice il Quirinale. E' un'opinione schiettamente
politica che una delle parti in gioco, il cartello delle sinistre, saluta con
soddisfazione e una punta di strumentalismo. E' un'opinione che mi permetto di
non condividere affatto. Sono poi certo che, sino a quando non decideranno di
darsi un presidente eletto dal popolo, gli italiani abbiano diritto di chiedere
al Capo dello Stato di astenersi da giudizi che sono smaccatamente di parte».
Era l'inizio. Da quel momento, Berlusconi ha accusato Scalfaro di tutto: di aver
cercato di imporgli questo ministro invece di quell'altro, di essere intervenuto
su Di Pietro per dissuaderlo dall'accettare il Viminale, di aver saputo in
anteprima da Borrelli del famoso avviso di garanzia che avrebbe tagliato le
gambe al primo governo polista, di aver fatto da sponda a Bossi nel ribaltone,
di averlo imbrogliato promettendogli allora le elezioni, di aver confidato a
Cossutta che non poteva sciogliere le Camere perché sarebbe stata probabile la
vittoria della destra più pericolosa che fa capo a Berlusconi. Fino a sbottare
velenoso, rimestando nel passato del suo nemico: «Che razza di uomo è uno che
come magistrato ha chiesto la pena di morte invocando insieme il perdono
cristiano?».
Sull'altro fronte, Scalfaro ha risposto colpo su colpo. Basti ricordare la
battuta su quella che era stata la più contestata e combattuta delle leggi
uliviste: «Ho firmato il decreto sulla par condicio con entusiasmo». Né,
tornato al Senato dopo il tramonto di un secondo mandato al Quirinale («se
candidano lui è una provocazione«, spiegò Berlusconi) ha cessato di dire come
la pensa.
Fino a guadagnarsi, incredibile ma vero, un applauso perfino dei girotondini di
piazza San Giovanni. Ai quali aveva lanciato un messaggio borrelliano: «Vi
ringrazio, vi ringrazio, vi ringrazio». Scommettiamo? Non è ancora finita.
Gian Antonio Stella