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Anziani e flessibilità
SE IL
NONNO TORNA AL LAVORO
di
PIETRO ICHINO
Chi, come Jeremy Rifkin, parla di «fine del lavoro» esprime un’angoscia diffusa
di fronte a un mercato del lavoro difficile, talvolta addirittura ostile ai
lavoratori. Ma se intende dire che corriamo un rischio di esaurimento del lavoro
da fare, si sbaglia di grosso: il bisogno di lavoro umano è sconfinato. Il
problema è che la società ha bisogno di regolarlo; e le regole in certi casi
hanno anche l’effetto di rendere più difficile l’incontro tra l’offerta e la
domanda di questa «merce» particolare. Qualche esempio di quanto sia sconfinato
il bisogno di lavoro. Pensiamo al bisogno di aumento delle conoscenze e quindi
della ricerca. Ma anche al bisogno di diffusione dell’istruzione e dei servizi
per colmare il deficit che affligge i meno fortunati; all’assistenza di cui
avrebbero bisogno milioni di disabili o anziani non autosufficienti, i figli
piccoli di genitori che lavorano; oppure al bisogno di informatizzazione della
vita quotidiana con relativa assistenza alle persone incapaci di usare lo
strumento informatico e la rete; oppure al bisogno di protezione della città dal
vandalismo notturno (i graffiti!); e l’elenco potrebbe continuare ancora a
lungo. Questa è tutta domanda di lavoro, che potrebbe emergere anche domani
stesso; e non basterebbero a soddisfarla, anche se avessero le capacità
necessarie, tutti i nostri disoccupati, i nostri cinquantenni e sessantenni
prematuramente espulsi dal tessuto produttivo, i nostri settantenni pensionati
ma ancora desiderosi di rendersi utili.
La prima obiezione è ovvia e immediata: quella domanda di lavoro potrebbe anche
manifestarsi, ma soltanto se il lavoro costasse di meno e se il relativo
contratto fosse meno impegnativo per l’azienda.
Per esempio, ci sarebbe, sì, una grande domanda di assistenza agli anziani, ma
essa potrebbe esprimersi soltanto se il servizio costasse mille euro al mese;
oggi, invece, se si rispettano gli standard collettivi e si calcolano ferie,
tredicesima, malattia, accantonamenti, contributi previdenziali, il costo minimo
non può scendere sotto i 2.000 euro al mese. Né i Comuni né le famiglie possono
permettersi questa spesa. Così tanti disoccupati, anziani e disabili restano
senza assistenza; e altrettante persone che potrebbero aiutarli, disponibili a
farlo anche per mille euro secchi al mese, restano a casa propria.
Qui scatta la seconda obiezione, ovvia anch’essa e non meno fondata della prima:
se eliminassimo gli standard minimi di trattamento, consentiremmo la concorrenza
tra i lavoratori al ribasso, una grande guerra tra poveri.
È vero. In qualche caso, però, siamo tutti d’accordo (sindacati compresi)
sull’opportunità di disapplicare gli standard generali. Per esempio, una legge
consente che le università utilizzino i propri studenti, ciascuno entro un certo
limite di ore annue, ovviamente senza alcuna garanzia di stabilità, pagandoli 8
euro all’ora senza contributi e persino senza imposizione fiscale: in questo
modo gli atenei possono attivare una gran quantità di servizi aggiuntivi e gli
studenti ingaggiati possono pagarsi i libri, le tasse di frequenza e anche
qualche cosa di più, senza alcun danno per i lavoratori «regolari» del settore.
Forme analoghe di incontro «fuori standard» fra domanda e offerta potrebbero
essere sperimentate anche in altri casi, quando ci sia consenso generale sulla
non pericolosità sociale della deroga e si possa escludere che ne venga
intaccata l’area del lavoro regolare. Così, per esempio, molti pensionati
sessantenni potrebbero essere ingaggiati come co.co.co. da un ente locale (cui
la legge ancora consente, senza alcuna formalità, questo tipo di contratto) e
pagati 8 euro l’ora come fanno gli atenei con gli studenti, per trasmettere le
proprie capacità, affinate in una vita di lavoro, a disoccupati in difficoltà,
oppure per insegnare l’uso del computer e di Internet a persone anziane e
disabili; altri potrebbero essere ingaggiati, in joint venture con le famiglie
interessate, per assistere anziani in difficoltà. Le mamme di bimbi piccoli
disposte a prendersi in casa durante la giornata uno o due altri bimbi
consentirebbero di andare a lavorare in azienda a tante altre mamme che oggi non
riescono a farlo: basterebbe che il Comune si facesse carico di un breve
addestramento, una parte del sobrio corrispettivo, un minimo di controllo e un
servizio di assistenza per le emergenze.
Lo stesso Comune potrebbe sperimentare pattuglie notturne di volonterosi
pensionati per la protezione della città dai vandali e dai bruti. E se qualche
rappresentante dei vigili urbani protesterà che in questo modo si invade un
terreno di loro competenza, basterà chiedergli: ma quanti vigili urbani sono
disponibili per i turni di notte, in giro per le strade della città?
Pietro Ichino