di Patrizia Taccani -
Psicologa e formatrice, Milano
Scrive Sandrine Barciet nel presentare il suo lavoro
teatrale :
“Dal 1992 al 1998 ho
lavorato come badante a domicilio presso le persone anziane,
non più autonome, e ho tenuto un diario, per il piacere o il
bisogno di scrivere, per l'abitudine di annotare le cose, le
impressioni, le emozioni...
Mi rammarico che nella nostra epoca tutto sia organizzato al
fine di nascondere, di dissimulare questa tappa della vita,
perché si tratta dell’ultima tappa conosciuta prima della
morte, dell’Ignoto. Mi sembra che il rifiutare così questo
stato di declino, di trasformazione, di preparazione
all’abbandono definitivo di sé, sia negare alla vita il suo
sbocco naturale, il suo reale valore. Tutto ce ne distoglie,
e l’evitare o il mascherare, mi dà l’angosciante e odiosa
impressione che ciò mi privi della mia essenza. Ho bisogno
delle persone anziane, della loro presenza, della dolce
ironia, dell'incosciente saggezza, dello sguardo sul
passato, del loro distacco dal presente.”
Confesso che non sono state esattamente queste parole ad
attrarmi e a farmi decidere a uscire di casa, alla fine di
una giornata abbastanza faticosa, in una sera fredda e
ventosissima di fine gennaio, per andare a vedere
“Vieillesse, Vieillesse”. L’attrice scrive parole belle e
importanti, ma già lette, già ascoltate, anche già vissute.
Che cosa è stato, allora, a farmi decidere di vedere questo
lavoro? Sono stata colpita da ciò che ha portato l’attrice a
quelle riflessioni, cioè dai fatti, anzi dal fatto di quei
sei anni di lavoro come badante. Sono stata presa dal
desiderio di vedere in faccia questa donna francese con la
passione del teatro che, nel suo paese, per sei lunghi anni
svolge uno dei lavori meno ambiti e meno riconosciuti:
prendersi cura di vecchi giunti al termine della vita.
Prima che lo spettacolo iniziasse mi immaginavo che si
svolgesse come un lungo monologo, o forse un dialogo con
l’altro attore indicato sul programma.[1]
Niente di tutto ciò. O meglio, il dialogo avviene ma è tra
Sandrine Berciet badante e Sandrine Berciet di volta in
volta vecchia signora o vecchio signore affidato alle sue
mani. Straordinario il risultato. Con il tono della voce,il
ritmo delle parole, le posture diversissime, lo sguardo e
gli sguardi, i gesti del capo e quelli delle mani, la
camminata, i cambi di posto, la vicinanza e la distanza
giocate nello scambio dei ruoli, ecco che questi vecchi
entrano in carne ed ossa sulla scena: sono malati e sani,
vivaci e spenti, dolci e terribili, colmi di vita e morenti
e continuamente interagiscono con lei, badante, ognuno per
come è fatto. Incontriamo la vecchia signora che lascia la
sua badante fuori dalla porta che bussa, bussa e tutte le
mattine è la stessa storia, finalmente riesce a entrare
nella casa simile a una discarica; il vecchio militare che
minuziosamente e sempre le racconta della guerra in trincea,
passo dopo passo, si sentono i rombi del cannone; sentiamo
la voce stridula e alterata di chi la strapazza per un
nonnulla e quella dolce di chi la abbraccia come la figlia
mai avuta mandata dal buon Dio; riconosciamo nel malato di
Alzheimer il balbettio delle parole e lo sguardo che si
perde lontano. O ancora vediamo i passi frettolosi della
sollecita badante che va al mercato a cercare le primizie
per ingolosire l’anziana difficile, che non vuole più
mangiare; e la vediamo quando si siede in fondo al letto del
vecchio signore a massaggiargli i piedi con leggerezza mista
a vigore: le mani che si muovono nell’aria disegnano agli
occhi dello spettatore due estremità nodose, rattrappite,
doloranti che poco a poco si distendono e anche noi sentiamo
le fitte attenuarsi.
Questo gioco delle parti non è un gioco: sulla scena succede
qualcosa di molto serio che lascia toccati, commossi,
ammirati. Mi sono domandata se i vecchi che ho visto
parlare, raccontarsi, piangere, ridere, lamentarsi,
chiedere, ringraziare, sbattere la porta, farsi aiutare,
rifiutare l’aiuto, ripetere ossessivamente una frase,
insultare, sorridere e ridere allegramente, siano davvero i
vecchi che Sandrine Berciet ha incontrato nei suoi sei anni
di lavoro come badante o siano stati trasfigurati nella
trasposizione scenica. Non è importante, credo. Un lavoro
come questo è invece importante perché riesce a comunicare
chiaramente - più di quanto riescano a fare le tante
riflessioni tecniche, metodologiche, professionali - di come
lo sguardo di chi si prende cura debba posarsi, ogni volta,
diversamente, sulle persone, perché sono diverse. E di come
questo mestiere del prendersi cura proprio per una ragione
come questa – fosse anche la sola – è un mestiere difficile.
Immagino che tra gli spettatori in Italia, in Francia e
altrove – là dove “Vieillesse, Vieillesse” è stato
portato – si siano trovate persone che hanno avuto a che
fare con la figura della badante: per il proprio vecchio
genitore, la nonna vedova nella grande casa di un tempo,
l’anziana zia nubile difficile da gestire, la suocera
rimasta sola in una città lontana, e, forse, anche gomito a
gomito, nella propria casa, a dividere la cura per il
coniuge colpito da demenza. Sono convinta che lo sguardo
posato da Sandrine-badante sui “suoi” vecchi abbia potuto
sollecitare molti a ri-posare uno sguardo diverso sulla
badante di casa propria. E, forse, a scoprire significati
nuovi nel lavoro di cura che queste donne – e i pochi
uomini – svolgono giorno dopo giorno.
Verso la fine dello spettacolo l’attrice raccoglie tutte le
pagine di giornale che di volta in volta, nel presentarci
una nuova casa con il suo abitante – la ricca signora
isterica, il militare logorroico, la dolce anziana, il
fragile ammalato, la nonna demente – aveva steso sul
pavimento ad indicare, credo, la vita-casa-territorio di
quel vecchio, di quella vecchia che stava per far vivere
sulla scena. Fogli di giornali già letti, stazzonati, pronti
per essere gettati nell’apposito cassonetto: una metafora
per suggerire il valore che oggi si dà alla vecchiaia?
Sempre Sandrine Barciet scrive :
“Considerando la vecchiaia
come una risultante della vita, trovo negli anziani una
lezione di vita, una linea di condotta, un’occasione di
conoscenza, una guida per crescere, per scegliere.
La vecchiaia è per me una chiave di volta tra la vita e la
morte.
Ogni persona anziana mi appare come parte di un mondo
sconosciuto e meraviglioso. Meraviglioso perché
sconosciuto.”
Dicevo che l’attrice, alla fine dello spettacolo, raccoglie
con cura, ad uno ad uno, questi fogli di giornale e, con la
stessa cura, ne infila un lembo sotto la cintura, uno dopo
l’altro, sino a formare un’ampia gonna. Rivestita di questa
gonna ricca e fluttuante, minutamente intessuta ai nostri
occhi con la vita e la morte, la gioia e il dolore, la
speranza e la cupezza, la casa e gli oggetti di tutti i suoi
“vecchi”, la giovane badante inizia a danzare, e danza a
lungo, leggera e ridente.
Uscendo dal teatro, la notte è
ancora ventosa, un po’si parla tra amiche, ma sento più
adatto il silenzio.
* Lavoro
teatrale
scritto, diretto e interpretato da Sandrine
Barciet e
con Constantin Cojocaru - Compagnia
GROGNON Frères di Montpellier. A Milano al
Teatro della Contraddizione, gennaio 2008.
[1] Constantin Cojacaru
è uno straordinario mimo che si muove sulla scena
indossando qualche particolare – uno scialle, il
bastone, una sontuosa vestaglia - evocatore dei
vecchi con cui Sandrine dialoga.