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L' ultimo sguardo prima dell' ADDIO

 

 

 

L' attenzione di Monet ai colori nel ritratto di Camille, la moglie appena morta. Il calco della bellissima sconosciuta ripescata nella Senna ispirò tanti artisti

 

Magris Claudio

Una celebre frase di Epicuro dice che non si deve temere la morte, perché finché noi esistiamo lei non c' è e quando è arrivata noi non ci siamo più e dunque non può mai farci del male, perché non abbiamo mai a che fare con lei. Questa sentenza del d ivino Epicuro dice, senza accorgersene, una tremenda verità, che tuttavia non conforta, come vorrebbe, bensì sbigottisce: l' assoluta alterità della morte, il suo niente, il suo vuoto che la mente non può rappresentarsi né concepire. Freud ha visto a fondo questo abisso e i meccanismi con i quali si cerca di addomesticarlo: parliamo della nostra morte, la pensiamo e pensiamo il mondo che continua a vivere senza di noi, ma ci raffiguriamo tutto questo come se, anche da defunti, potessimo vederlo, giacendo sotto la terra mentre gli altri passeggiano e si ricordano e parlano di noi, così come dormiamo nel nostro letto mentre altri sono svegli. Ma non riusciamo a pensare il non-essere, a immaginare che, dopo la morte, nemmeno il ricordo di noi nel cuore e nella mente degli altri ci riguarda, perché, per noi, è come se non fossimo mai stati; come se fossimo solo creature immaginarie e mai esistite. I vivi, nella cui mente esistono sia Alessandro Manzoni sia Renzo Tramaglino, conoscono la di fferenza fra i due, ma per quei due ora tale differenza non sussiste. La morte è veramente ciò che non siamo, ma proprio questo, con buona pace di Epicuro, è il suo orrore. Solo le grandi religioni fanno veramente i conti con questa radicale negazion e, con questo nulla che riesce quasi ad annientare nella disperazione perfino Cristo, e cercano di spuntare il suo pugnale con la speranza di vita di tutte le cose, anche le più effimere e carnali della nostra realtà, che secondo la fede - un' ardua fede - non saranno distrutte bensì trasformate, sicché nessun gioco d' infanzia, nessun bacio, nessuna risata fraterna sono destinati a sparire. A parte la credibilità o meno di simili annunci, rimane l' incontestabile irrappresentabilità della morte , del niente, di ciò che non c' è più e soprattutto di noi che non siamo più. Non si può raffigurare la morte, ma tuttalpiù il morire, ossia la vita sia pure al suo limite estremo, oppure i morti, i corpi materiali e le personalità morali di chi è pa ssato dall' altra parte ma che continuiamo a immaginare vivo davanti a noi; si può disegnare e narrare la decomposizione fisica o l' oblio spirituale, comunque sempre qualcosa, non il nulla. Anche i funerali riguardano i vivi, dai congiunti afflitti ai soddisfatti impresari di pompe funebri. La mostra L' ultimo ritratto - Le dernier portrait - allestita in queste settimane al Museo d' Orsay a Parigi mette incisivamente in scena il rituale, artistico e sociale, della rappresentazione della morte o meglio della vita che si spegne o si è appena spenta e quasi simula ancora di essere viva, come una bocca che abbia appena esalato l' ultimo respiro. Maschere mortuarie, quadri e fotografie colgono le diverse fasi del morire, i progressi del decadi mento e dell' agonia, il volto composto nell' immobilità del decesso sopravvenuto. Maschere di Goethe e Pascal, Napoleone e Beethoven; immagini di persone illustri e famose sul letto di morte, da Victor Hugo a Pio IX, da Edith Piaf a Géricault o a Pr oust, ma anche di anonimi sconosciuti - specialmente vecchi e bambini - che le famiglie hanno commissionato a ben avviati studi fotografici, specializzati in tale settore e lucrosamente fiorenti grazie alla morte, fidata procacciatrice di affari redd itizi. La parte del leone la fanno i grandi uomini politici - da Thiers a Gambetta a Léon Blum - i nuovi «santi» della religione laica e repubblicana francese, monumenti delle virtù e degli ideali di una nazione e di una cultura. A poco a poco - per ragioni di rapidità, efficienza e costi - la fotografia sostituisce la pittura; aumentano, da parte delle famiglie, le richieste di ritratti di bambini, languenti tra i guanciali o trapassati. Tecnica e organizzazione commerciale si sviluppano di par i passo; se i pittori e all' inizio pure i fotografi lavorano a lungo per realizzare un' immagine, le cose si fanno sempre più svelte e la Kodak invita i parenti ad acquistare una macchina e a premere un tasto, «al resto pensiamo noi». Per maggiore p raticità, il cadavere viene talora portato nello studio professionale, fotografato e riportato a casa nella camera ardente; nel 1895 un decreto proibisce, in Austria, tali trasporti - evidentemente frequenti - per timore di contagi e infezioni. Non m ancano, come in ogni attività umana, le falsificazioni, dalle maschere fasulle di Napoleone ai manichini cui il fotografo Buguet applicava dei ritratti già pronti della testa del defunto, proponendo ai suoi clienti di farsi fotografare in compagnia d el caro estinto, tanti anni dopo la sua dipartita. In certi casi il falso si innalza alla poesia, come del calco della bellissima Sconosciuta annegata nella Senna, che ha ispirato tanta letteratura, da Rilke a von Horváth ad Aragon. Vi sono immagini ributtanti, che indugiano sul disfacimento appena iniziato ma già visibile, su lividi gonfiori e pallori violacei, e immagini di un gusto necrofilo ancor più repellente, come le ali che un' ex amante di uno dei fratelli Goncourt applicava alle spalle dei bambini deceduti per eternarli come angeli. Esistono anche una pornografia e un kitsch della morte, la quale - diceva Goethe, seccato del culto delle maschere funerarie - è un artista assai mediocre. Talvolta, come nel caso dei neonati scomparsi poco dopo la nascita, la fotografia è l' unico attestato che essi sono esistiti; ribadisce che anch' essi, così facilmente e ingiustamente cancellati, son degli individui non meno significativi degli altri, che come tutti sono entrati - poco importa se per ore o per decenni, comunque per un breve attimo - e usciti dallo scalcagnato teatro del Mondo. L' atteggiamento davanti alla morte, cui s' intitola un famoso libro di Philippe Ariès, è una chiave di volta per capire l' essenziale di un indivi duo, di un' epoca o di una civiltà. Esistono la rimozione e la paura, il culto donchisciottesco o morboso, la sfida sprezzante, la familiarità e la pietas. Certo, senza fare i conti con la morte, senza guardarla in faccia ed assumerla consapevolmente nel proprio destino, al di là di compiacimenti e di repressioni, non è possibile vivere pienamente l' esistenza ed il suo significato. Come ha scritto in una grande pagina Karl Rahner, il teologo gesuita, in una vita vissuta a fondo la morte non è l a sua accidentale interruzione, ma il suo compimento alla meta del viaggio. «L' ultimo ritratto» cui è dedicata la mostra parigina riguarda tuttavia sempre la morte degli altri; amici e parenti, artisti appassionati o professionisti ingaggiati ritrag gono il morire di altre persone, teneramente amate o estranee, comunque altre. Sono i sani, i vivi, i sopravvissuti che scrutano e riproducono, con precisione implacabile, il deperire dei malati, l' agonia dei morenti, la rigidità dei deceduti. In qu esta registrazione della sofferenza spesso dolorosamente condivisa ma pur sempre altrui, in questo protocollo dell' annientamento di una persona è difficile, talora impossibile, separare l' amorosa partecipazione dalla gelida osservazione, la fratern a comunione dall' abuso indecente, la carità dall' avida indiscrezione e dall' oscena violazione. Il pittore svizzero Ferninand Hodler ritrae giorno per giorno, in più di duecento opere, l' agonia della sua compagna, Valentine Godé-Darel, i progressi del cancro che la devasta. Le fotografie dei bambini moribondi o già spenti, composti nel loro lettino o in braccio a genitori dall' aria insopportabilmente compunta ed imbarazzata dinanzi all' obiettivo, hanno qualcosa d' intollerabile, l' intoller abilità della loro sorte e del vizioso curiosare nel loro strazio. Gli artisti sono particolarmente insidiati dall' aridità di cuore ed inclini a dimenticare, per amore della tecnica del ritrarre, l' amore per la persona ritratta: il grande Monet, di pingendo la moglie Camille appena morta, s' accorge con orrore che l' interesse per i colori e le sfumature luminose del quadro cui è intento prende il sopravvento sul dolore per la persona amata che sta ritraendo. Ma in quest' indiscrezione che viol a il pudore c' è anche amore, vicinanza alla carne che soffre e muore. Il pudore, la distanza e la discrezione sono grandi virtù, ma bisogna pure esser capaci di spogliarsi, di stringersi all' altro; l' amore è rispetto, ma anche superamento della di stanza. Essere una sola carne - come la Scrittura definisce il matrimonio - significa anche trascendere pudori schifiltosi, imbarazzi puritani, riguardose cautele; significa confidenza con i trionfi del corpo e con le sue sconfitte, capacità di abbra cciare una persona amata anche quando invecchia, s' ammala e muore. Se il kitsch di certe fotografie di bambini morti ha una violenza rivoltante, la tenerezza di alcuni genitori, commossi di avere almeno quelle fotografie, cancella quel kitsch. Ma la vera resistenza alla morte non si affida ad alcun ritratto, bensì alla fedeltà che sfida il tempo, molto meno potente di quanto si creda; al sentimento della presenza forte, concreta, delle persone amate in noi e con noi, anche dopo la loro dipartit a. Appartenere all' umanità significa essere consapevoli del legame che ci stringe anche a coloro che se ne sono andati e a coloro che verranno, verso i quali siamo egualmente responsabili. La morte ha poco potere sulle persone amate; vive o morte, e sse sono incorporate in noi, ha detto Ernesto Sàbato, e ce le portiamo sempre dietro. La mostra: «Le dernier portrait» al Musée d' Orsay fino al 26 maggio. Ingresso: 7 euro. Tel. 01 40494814