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Finanziaria
2003: le politiche per la famiglia |
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L’impianto della Legge Finanziaria
è ormai definito e ci si può quindi chiedere quale sarà il suo
impatto sulle famiglie degli italiani. La riforma dell’Irpef, il piatto
forte, è in realtà deludente sotto molti profili (si vedano BALDINI-BOSI
del 30.9.02 e MATTEUZZI).
Quali altri aspetti della Finanziaria
possono interessare le politiche familiari? E con quali effetti? Le tariffe e le imposte a livello
locale Gli effetti più significativi, ma
anche più pericolosi, sono quelli che potranno derivare dalle norme sul
Patto di Stabilità interno. Agli enti locali non resta che scegliere
tra maggiori tasse (Ici, Tarsu e tariffe) o minori servizi. Non è
possibile avanzare valutazioni quantitative attendibili: sono troppe le
variabili in gioco, anche se è evidente l’obiettivo di lasciare le
"gatte da pelare" agli enti decentrati. Immaginiamo che i Comuni decidano di
aumentare le tariffe dei servizi del 15 per cento, e l’aliquota Ici
sulla prima casa dello 0,5 per mille; consideriamo anche l’aumento del
30 per cento della Tarsu, già in programma a causa di modifiche nella
sua struttura (passaggio da tassa a tariffa). Si tratta di aumenti che,
sulla base di prime valutazioni compiute a livello locale,
nell’ipotesi che i margini di recuperi della produttività interna
siano modesti, sembrano coerenti con il mantenimento dei servizi
esistenti. In assenza di altre informazioni,
consideriamo gli effetti di queste ipotetiche decisioni su quattro
famiglie tipo: tre condividono la stessa composizione (padre madre e
un figlio appena nato), mentre la quarta è costituita da un pensionato
solo, che necessita di assistenza domiciliare. Tutte sono proprietarie
della casa in cui risiedono, e ciò che le differenzia è soprattutto il
reddito, pari rispettivamente a 30.000, 60.000, 20.000 e 9.000 euro.
Nella famiglia con 20.000 euro di reddito imponibile, solo il marito
lavora. Malgrado l’Irpef diminuisca per
tutte le famiglie considerate, il guadagno Irpef risulta per alcune
significativamente ridimensionato dall’incremento dei prelievi locali,
e in un caso il saldo muta di segno. Per la famiglia con un solo
lavoratore dipendente a basso reddito, il guadagno risulta più che
dimezzato, così come per quella del pensionato solo. Se
consideriamo inoltre che per molte famiglie a reddito molto basso la
riduzione dell’Irpef non è di alcun beneficio, perché già oggi esse
risultano esenti, mentre potrebbero dover pagare almeno alcuni dei
maggiori oneri decisi a livello locale, pare ragionevole concludere che una
quota significativa di famiglie potrebbe finire per pagare di più nel
2003. Alcune elaborazioni, qui non mostrate per esteso, ci dicono ad
esempio che, ripetendo su tutte le famiglie del campione Banca
d’Italia la stessa simulazione sopra svolta sulle famiglie tipo, per
il primo 10 per cento delle famiglie circa il 90 per cento
finirebbe per pagare di più nel 2003, una quota che scende al 56 per
cento nel secondo 10 per cento e al 35 per cento nel terzo. Nel
complesso, il saldo sarebbe negativo per circa una famiglia su cinque,
soprattutto tra i gruppi che meno beneficiano della riduzione Irpef
per il 2003, ovvero i molto poveri e i molto ricchi. Gli esempi citati sono costruiti
sull’ipotesi che gli spazi per recuperi di produttività siano
modesti. Ma vi sono buone ragioni per essere poco ottimisti sotto questo
profilo. I Comuni, sotto il pungolo del vincolo di bilancio imposto dal
centro, potrebbero essere indotti non tanto al miglioramento
dell’efficienza interna, ma ad esternalizzare l’offerta dei servizi,
ricercando la soluzione meno costosa anche a scapito della qualità dei
servizi. La riforma dell’assistenza
Su questo terreno la LF appare molto
ambiziosa: il c.3 dell’art.31 sollecita la determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni sociali da garantire su tutto il
territorio nazionale, nei limiti delle risorse disponibili del Fondo
Nazionale per le Politiche Sociali, "tenendo conto delle risorse
ordinarie destinate alla spesa sociale dalle Regioni e dagli enti
locali". Dovranno essere emanati un Dpcm, d’intesa con la
Conferenza unificata, e un regolamento sulle modalità di monitoraggio, verifica
e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dei livelli
essenziali delle prestazioni. La definizione dei livelli essenziali
di prestazioni rappresenta uno degli scogli più duri delle riforme
dello stato sociale, come ci rammenta l’esperienza travagliata dei LEA
in campo sanitario, da poco conclusa. Nel campo della spesa sociale, a
causa della eterogeneità, maggiore che nella sanità, degli interventi
e degli attori istituzionali, il compito è ancora più complesso. E’
ben noto quanto sia difficile avere anche solo una conoscenza delle
risorse attualmente impiegate dalla Pubblica Amministrazione in questo
settore, primo necessario passo per ragionare su questi temi. Appare
quindi molto singolare che tale processo sia avviato senza
l’indicazione di criteri direttivi, di termini e riferimenti per la
sua realizzazione. Il sospetto è che si intenda manifestare una
generica volontà di mettere in moto un processo, senza tuttavia
vincolarsi effettivamente alla sua realizzazione. D’altro canto, una
riforma complessiva della spesa sociale è stata annunciata dal Ministro
del Welfare: la presentazione di un nuovo Libro bianco, che si
affiancherebbe a quello sul mercato del lavoro, è infatti prevista
entro la fine dell’anno, comunque successivamente all’impostazione
della Legge finanziaria. Alla superficialità del modo in cui
si affronta il tema dei livelli essenziali, si sommano poche e deludenti
indicazioni in altri campi della spesa sociale, mentre non mancano
omissioni e rinvii. Tra le omissioni il Reddito minimo di
inserimento, di cui è stata avviata una sperimentazione biennale.
Dopo dichiarazioni del Governo che hanno sottolineato lo scarso
interesse per la prosecuzione del programma, il Decreto Legge n. 236 del
25 ottobre 2002 proroga il Rmi
"fino alla conclusione dei processi attuativi della sperimentazione
e comunque non oltre il 31 dicembre 2004, fermi restando gli
stanziamenti già previsti". E’ del tutto chiara la volontà di
chiudere questo esperimento. Tra gli aspetti deludenti si possono
ricordare le disposizioni dell’art.31 riguardanti il Fondo
Nazionale per le Politiche Sociali(1). Esso appare ridotto di circa
il 6 per cento e in omaggio all’autonomia delle Regioni, viene abolito
ogni vincolo di destinazione. Il rispetto dell’autonomia è però
subito tradito riservando il 10 per cento del fondo per il sostegno di
politiche a favore delle famiglie di nuova costituzione, in particolare
per l’acquisto della prima casa e per il sostegno della natalità. La
LF non contiene alcuna indicazione sui soggetti istituzionali che
dovranno svolgere tali politiche. Nell’art.49, si istituisce il Fondo
di rotazione per il finanziamento dei datori di lavoro che realizzano,
nei luoghi di lavoro, servizi di asilo nido e micro-nidi. A tale scopo
è destinata una somma molto modesta, di 10 milioni di euro,
nell’ambito della quota del 10% sopra indicata. Concludendo, nella LF per il 2003 sono
contenute indicazioni di riforma della spesa sociale ambiziose, ma
indeterminate, insieme a misure farraginose e poco incisive, che
lasciano intravedere l’opzione per un sistema di welfare locale
ridimensionato, con incentivi all’offerta privata, senza particolare
attenzione alla qualità dei servizi. Nello sfondo si annunciano, anche
se in modo sempre più evanescente, fasi successive di una riforma
fiscale che dovrà destinare 15 miliardi di euro ai contribuenti più
ricchi. (1) In questo fondo confluivano, come
noto, molteplici fondi settoriali per spese di assistenza (handicap,
infanzia, droga, immigrazione, volontariato, Rmi, assegno per i tre
figli, ecc.). |
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