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Nella testa di una madre che
uccide suo figlio
di UMBERTO GALIMBERTI
LECCO come Cogne? In un certo senso sì. Cogne è diventato un paesaggio
dell'anima a cui fare riferimento per collocare episodi che il sentimento umano
fatica ad accettare come suoi. E anche se Cogne non ha ancora una soluzione
giudiziaria e quindi una definizione di come i fatti sono andati, anche a Lecco,
come a Cogne, la famiglia, e in un primo tempo anche i vicini di casa, si
schierano a difesa della madre, perché è difficile ammettere che il terribile
possa accadere tra noi, quando nessun segno lo lascia presagire.
Ma è proprio così? O la disattenzione che riserviamo a chi vive con noi o
accanto a noi porta a non accorgerci di quanto avviene nel chiuso della nostra
anima, che non si fida neppure della comunicazione, perché teme che le sue
parole possano non essere raccolte o addirittura svilite. E quando la
comunicazione collassa, quando la parola si sente vana, non resta che il gesto,
per chiudere il discorso con una disperazione da cui non si sa come uscire.
Qui gli psichiatri parlano di "depressione post partum". Vero. Ma questa
diagnosi rivela solo un sintomo non di una malattia, ma della condizione della
maternità, di ogni maternità, dove l'amore per il figlio non è mai disgiunto
dall'odio per il figlio, perché il figlio, ogni figlio, vive e si nutre del
sacrificio della madre: sacrificio del suo corpo, del suo tempo, del suo spazio,
del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi
affetti e anche amori, altri dall'amore per il figlio.
Se poi la madre, come sembra sia il caso della madre di Mirko, ha aspirazioni di
autorealizzazione nel mondo dell'apparire (televisivo), in una cultura che ci ha
insegnato che l'apparire è l'unica condizione per essere, per ottenere quel
riconoscimento che è il fondamento della nostra identità, allora l'ambivalenza
amore/odio, comune a tutte le madri, si potenzia e chiede una soluzione:
l'accettazione della propria maternità o la sua soppressione. Accettare la
realtà quando questa è troppo distante dal proprio desiderio è per chiunque di
noi il lavoro che ci affatica ogni giorno. Quando questa fatica supera
oggettivamente o soggettivamente i nostri limiti, si affaccia come via di uscita
il più terribile degli eventi: l'evento della morte.
La morte propria o quella dell'altro, o entrambe. Qui siamo in presenza della
morte dell'altro, che avviene in quella tragicità spaesante quando l'altro è
carne della nostra carne, e quindi non propriamente e per davvero un altro, ma
io stesso nel corpo dell'altro.
Nel nostro caso il gesto omicida della madre lascia la madre viva e bene
indaffarata a mettere in scena la finzione della rapina e a sostenere con
ostinazione e lucidità la sequenza dei fatti che danno corpo alla finzione, allo
scopo di salvare la propria vita e le proprie aspirazioni che erano già viste
compromesse dalla maternità.
I familiari fanno cerchio perché Cogne insegna. I membri della famiglia e i
vicini di casa hanno una capacità sorprendente di ignorare o fingere di ignorare
che cosa accade davanti ai loro occhi, come spesso succede con gli abusi
sessuali, la violenza, l'alcolismo, la follia o la semplice infelicità. Esiste
un livello sotterraneo dove tutti sanno quello che sta succedendo, ma in
superficie si mantiene un atteggiamento di assoluta normalità, quasi una regola
di gruppo che impegna tutti a negare ciò che esiste e si percepisce.
Siamo al diniego che è il primo adattamento della famiglia alla devastazione
causata da un membro, sia esso alcolista, o drogato, o pedofilo, o violento, o
folle, o infanticida. La sua presenza deve essere negata, ignorata, sfuggita o
spiegata come qualcos'altro, altrimenti si rischia di tradire la famiglia. Qui
scatta quella che potremmo definire la "morale della vicinanza", che è quanto di
più pernicioso ci sia per la coscienza privata, e a maggior ragione per quella
pubblica. Infatti, la morale della vicinanza tende a difendere il gruppo
(familiare, comunitario) e a ignorare tutto il resto. E così finisce col
sostituire alla responsabilità, alla sensibilità morale, alla compassione, al
senso civico, al coraggio, all'altruismo, al sentimento della comunità,
l'indifferenza, l'ottundimento emotivo, la desensibilizzazione, la freddezza,
l'alienazione, l'apatia, l'anomia e alla fine la solitudine di tutti nella vita
della città.
Non nascondiamoci l'ambivalenza dell'amore e dell'odio che sempre accompagna la
condizione della maternità. Non ci sarebbero tanti disperati nella vita se
tutti, da bambini, fossero stati davvero amati e solo amati. Ma non
nascondiamoci neppure dietro il diniego di fronte a ciò che accade. A colpi di
negazione non c'è evoluzione e neppure speranza per chi ha drammaticamente
deragliato dal più comune dei sentimenti umani.
(27 maggio 2005)