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Claudio Risé, IL NOME DEL MARITO, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 22 gennaio 2007

Una delle domande che terapeuti e titolari di rubriche di posta coi lettori ricevono più frequentemente dalle donne è: “perché lui non mi sposa?” Oppure : “perché non si mette con me?” Una risposta incisiva l’ha data un romanziere, affermando che “oggi essere uomini è già abbastanza difficile, per potersi occupare anche delle donne”. Provocatorio, ma acuto. Insufficiente però a liquidare il fenomeno. Quest’angoscia femminile, infatti, è fondata su un fatto reale: i giovani maschi sono sempre più riluttanti ad impegnarsi stabilmente con una donna. Una situazione psicologica, ma anche sociale, che non spiega con le risposte, di maniera, più usate : lunghe dissertazioni sulla debolezza del maschio oggi, sulla sua fatica a progettare, ad assumersi delle responsabilità. Ci si avvicina forse di più al problema rovesciando la domanda: “perché un giovane maschio, oggi, dovrebbe mettersi con una donna?” Le ragioni che tradizionalmente spingevano l’uomo a questo passo partivano sempre, naturalmente, da un moto di amore e di desiderio verso l’altra. Un sentimento complesso, che dava luogo alla spinta a sottoporsi ad una prova: quella di essere capaci di conquistare una donna. Una conquista non solo sessuale (che è sempre stata più facile, anche se meno di oggi), ma personale. Riuscire insomma ad ottenere che una donna affidasse a te non solo il suo corpo per un momento breve, ma la sua persona per un periodo lungo, la vita addirittura, se possibile.
Per la donna, del resto, era lo stesso: il matrimonio segnava la sua capacità di conquistare un uomo, come persona, e di averlo accanto a sé come compagno, affrontando insieme le altre prove della vita. Questa conquista era sigillata da un fatto, giuridico, ma anche fortemente simbolico: il cognome del marito. Che segnava per la donna, contemporaneamente, l’affrancamento dall’autorità dei genitori, e l’assunzione dell’identità di centro femminile di una nuova famiglia. La dipendenza, non solo affettiva ma anche operativa, dalla madre, che come riconosce la psicologia del profondo è il vero problema dello sviluppo umano, veniva così superata nell’incontro con l’uomo, e nella condivisione del suo nome. La donna doveva morire come figlia, per diventare, a sua volta, sposa e madre. Per questo, nel mito, Eros esige che Psiche venga messa nella bara da madre e sorelle, per prenderla come sposa. A sigillare questa nuova autonomia femminile era il nome del marito, segno della nuova famiglia, e della sua progettualità, diversa da quella d’origine. In Francia, paese dove l’autonomia femminile è forte, già da due secoli, questo significato di affermazione dell’identità della donna attraverso il marito è così marcata che nelle comunicazioni sociali la donna viene presentata non solo col cognome, ma anche col nome del marito. La moglie di Valery Giscard d’Estaing (ad esempio) è indicata come “madame Valery Giscard d’Estaing”, il marito viene totalmente incorporato nella sua identità.
Ora questo “segno di conquista” per l’uomo e per la donna, che è il cognome del marito, viene, in Italia (contrariamente a quanto accade nella maggior parte dei paesi europei, dove la donna è libera o no di assumerlo e di usarlo)
del tutto abolita. Il che significa che la donna non viene più “conquistata” dal marito. Ma anche che non lo “conquista” più. Ognuno rimane quello di prima, più dipendente dai genitori, più mammone, più timoroso di accasarsi. Per crescere, infatti, occorrono segni, simboli, che scandiscano le tappe dello sviluppo. Abolendoli, si ha solo una stagnazione. Lei da mammà. E lui anche.