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Paola Tettamanzi, “Questa casa non è una caserma” “Autoritarismo o tolleranza: come affrontare i comportamenti ribelli dei figli adolescenti? C’è una terza via: la famiglia affettiva. Che educa e si lascia educare, che punisce (con misura) e perdona.” Lo riporto. in Blog: Prisma
“Il genitore-padrone era severo e inflessibile. Non si preoccupava di generare sensi di colpa o inibizioni psicologiche. Puniva con rigore e pesantezza. Talvolta con violenza. Tramontò il genitore-padrone e venne il genitore-comprensivo che decise di fare il contrario. Nessuna punizione per non umiliare o ferire il figlio. Mai alzare la voce, mai mostrarsi contrariati o alterati. Scapaccioni? Neppure a parlarne. Era il genitore che non voleva “sgridare mai”. Tramontò anche quello e arrivò il genitore-disorientato, quello che, di fronte al crollo di tutte le certezze educative, vaga oggi nell’incertezza più assoluta. Cedere al revival della durezza pedagogica, accostandosi alle nuove tendenze in arrivo dai Paesi anglosassoni che predicano “tolleranza zero” anche in famiglia? O ascoltare i suggerimenti di chi propone di alleggerire i figli dal peso di troppe responsabilità per non scatenare reazioni distruttive? Insomma, le regole della caserma o quelle del “mulino bianco”? Il dilemma è angosciante per tutti i genitori che oggi viaggiano sulla quarantina e che non sono ancora riusciti a sganciarsi del tutto dalle scelte educative sopportate nella loro infanzia. Spesso la disponibilità ad accettare comportamenti di aperta ribellione, soprattutto da parte dei figli adolescenti, nasce come reazione forse inconsapevole a modelli considerati esagerati. Non si vorrebbe cioè infliggere ai figli gli stessi atteggiamenti sopportati dai propri genitori. Eppure nessuno si nasconde che lo sforzo di comprendere sempre al di là di ogni evidenza, non può tradursi in tolleranza illimitata. Agli occhi di un ragazzo adolescente i confini della libertà sono qualcosa di elastico, indefinito, assolutamente vago. Spetta quindi ai genitori dettare le regole per impedire che la libertà si trasformi in trasgressione, in abuso, in mancanza assoluta di senso della realtà. Aiutare a comprendere che le regole non sono un vincolo alla propria libertà d’espressione, ma un contributo alla crescita – anche se talvolta per i ragazzi risultano incomprensibili o maltollerate – è un passaggio indispensabile. E qui nasce il problema: quale strada seguire per formare i nostri ragazzi secondo coscienza e verità, accompagnandoli verso il traguardo dell’età adulta? Comprendere o punire? Capire o rimproverare? Colpevolizzare o lasciar correre? Ogni genitore che abbia a cuore il bene dei figli e che si sia fermato a riflettere sul complesso “mestiere” dell’educatore, ha intuito che le distinzioni troppo nette, come le scelte ultimative e radicali, non pagano. Anche nel pianeta educazione non ci sono territori completamente bianchi o completamente neri. Tra tolleranza o durezza, tra oltranzismo e lassismo c’è una terza via, quella della misura educativa che si nutre di intuizioni, rispetto, vicinanza, condivisione, attenzioni, pazienza, relazioni costruttive. In una parola: d’amore. Sembra il ricorso alla solita, sdolcinata pratica dei buoni sentimenti: invece l’opzione della “terza via” – quella che non punisce e non tollera – è la più difficoltosa e impegnativa, soprattutto perché rifugge dagli schemi predefiniti e richiede di essere edificata giorno dopo giorno, con tutta la passione indispensabile per raggiungere l’obiettivo che davvero conta: il bene integrale dei propri figli. Per mettere in luce i vantaggi educativi di questa terza opzione è forse opportuno passare in rassegna i tre tipi di genitori a cui , in maniera un po’ schematica, possiamo collegare altrettante scelte educative: famiglia repressiva, famiglia tollerante e famiglia affettiva.
La famiglia repressiva E’ il modello ormai dominante in tanti studi provenienti dal mondo anglosassone. Dopo decenni di educazione sregolata e di assoluto “laissez faire”, i pedagogisti d’Oltreoceano sembrano aver riscoperto il rigore e l’esigenza dell’inflessibile rispetto delle norme. Autoritarismo d’altri tempi? Forse, ma non bisogna dimenticare che negli Stati Uniti il dilagante fenomeno delle baby-gang ha imposto l’adozione di metodi pedagogici che un tempo si sarebbero liquidati come repressivi. La “tolleranza zero” sul piano sociale si è tradotta anche in un irrigidimento delle scelte educative tra le pareti di casa. Una scelta che qualcuno comincia a giudicare positivamente anche da noi. Ma la voce grossa, le imposizioni da caserma, le punizioni corporali aiutano davvero la crescita di un ragazzo? Ci sono molti motivi per dubitarne. E’ fuori di dubbio che l’autoritarismo è un comportamento che offre, nella maggior parte dei casi, ritorni immediati. Per timore delle punizioni i ragazzi finiscono per adeguarsi alle regole. In apparenza “diventano buoni”, ma nel loro cuore crescono ostilità e disagio. Imparano una serie di regole, ma non le condividono e, non appena saranno messi nelle condizioni di trasgredire, proveranno grande soddisfazione a farlo. Anzi, finiranno per trascorrere il tempo a escogitare inganni finalizzati a salvare le apparenze per poi agire indisturbati. Tra genitori e figli adolescenti l’autoritarismo innalza muri difficili da sgretolare anche con l’avanzare dell’età. Urlare ai propri figli: “Sono tuo padre e quindi obbedisci senza discutere”, è un’imposizione che forse vince, ma senza convincere.
La famiglia tollerante Anche la legittimazione a tutti i costi è, sul piano educativo, un amore malinteso. I genitori che si preoccupano di non contraddire mai i figli per paura di reprimere la loro libertà d’espressione rinunciano in realtà all’esercizio di una funzione preziosa: quella dell’esempio e della testimonianza. Un ragazzo a cui viene permesso qualsiasi tipo di comportamento finirà, dopo gli entusiasmi iniziali, per convincersi di essere poco interessante agli occhi dei suoi genitori. E’ facile infatti scambiare la tolleranza per indifferenza, il permissivismo per disinteresse. Scegliere come proprio metro di comportamento la deroga costante, significa togliere ai nostri ragazzi la possibilità di confrontarsi con un punto di vista diverso dal loro. Eppure sono in aumento i genitori che preferiscono abdicare al loro ruolo per calarsi nell’assurda parte degli amici o, peggio, dei complici dei propri figli. Una scelta dissennata perché ai ragazzi finirà per mancare in questo modo qualsiasi punto di riferimento. Se i genitori fanno sempre un passo indietro, i figli non avranno mai l‘opportunità di un confronto. Una discussione serena, motivata, senza toni violenti, vale più di mille silenzi accondiscendenti. Permettere tutto, senza mai esprimere dissenso, senza motivare le proprie diverse opinioni, finirà per produrre un effetto devastante sulla credibilità dei genitori che finiranno presto per diventare agli occhi dei figli figure appannate, prive di spessore, scarsamente rilevanti. La famiglia affettiva Qual è la terza via tra autoritarismo e tolleranza? E’ quella del genitore che educa ma si lascia educare; propone modelli di comportamento ma sa mettersi in discussione; punisce con misura e discrezione, quando è necessario, ma offre per primo il perdono, la possibilità del riscatto, la via del pentimento. Il genitore affettivo non impone, accompagna. Non reprime, spiega. Non pretende, accoglie e ama. C’è un criterio un po’ semplicistico ma di grande efficacia per scoprire qual è la qualità delle relazioni tra genitori e figli adolescenti: la camera dei ragazzi. Spesso si vedono stanze di adolescenti arredate di tutto punto, attrezzate con i congegni elettronici più avanzati, ricche di ogni gadget ma da cui i genitori sono esclusi. Segno di falso rispetto che rischierà di sfociare in un pericoloso atteggiamento di reciproca indifferenza. Il genitore affettivo entra nella stanza del figlio, cioè si mostra disponibile ad avventurarsi nel suo mondo perché accetta di mettersi in discussione. Anzi, desidera e ricerca il confronto. Il genitore affettivo coglie i punti positivi del suo comportamento, dice sempre al ragazzo quello che ci si attende da lui, esamina i motivi della disobbedienza e adatta le correzioni, mantiene le promesse, mostrandosi stabile e coerente, cerca di comprendere le cause delle tensioni, combatte la propria sicurezza e la propria paura di imporre regole opportune, riconosce il suo diritto all’errore. In questa prospettiva la punizione è sempre costruttiva: si stacca dalla logica dell'umiliazione per entrare in quella della riparazione che offre nuove opportunità di riscatto. E' una sanzione che non punta l'indice vendicatore ma si sforza di indurre il ragazzo a ripensare ai propri comportamenti.”.
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